Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)
LECTIO DIVINA
“...siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (cf. Mt 5,48)
Canto (facoltativo), a scelta della comunità.
Dopo un’opportuna introduzione, si può invocare lo Spirito Santo con il canone Veni Sancte Spiritus o
Vieni, Spirito Creatore (Taizè), o altra preghiera simile, come la seguente.
P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare
la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnova -
mento dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto
nei secoli dei secoli. A.: Amen.
Canto (facoltativo): Alleluia (Taizè).
L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Matteo (Mt 5,38-48;
trad. CEI 2008).
[In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:] «38 Avete inteso che fu detto: Occhio per
occhio e dente per dente. 39 Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà
uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, 40 e a chi vuole portarti in
tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41 E se uno ti costringerà ad
accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42 Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera
da te un prestito non voltare le spalle. 43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo
prossimo e odierai il tuo nemico. 44 Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per
quelli che vi perseguitano, 45 affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa
sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46 Infatti,
se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche
i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?
Non fanno così anche i pagani? 48 Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il
Padre vostro celeste».
Segue la meditazione della Parola proposta dalla guida della celebrazione; dopo un momento personale di
silenzio per la lectio, si prosegue con la condivisione comune sulla Parola ascoltata. Al termine, ognuno
dei presenti può proporre un’intenzione di preghiera; ad ognuna, l’assemblea canta o risponde con un’acclamazione.
Si conclude con la preghiera del Padre nostro… [e la benedizione finale].
Note di esegesi per la comprensione del testo
Il brano del vangelo che abbiamo letto prosegue la proclamazione delle sei antintesi
(Mt 5,17-6,1) alla base della “Legge” nuova del Vangelo annunziata nel “discorso
della montagna”, che abbiamo già meditato negli incontri precedenti, seguendo
lo schema liturgico; analizziamo ora le ultime due antitesi.
La quinta antitesi con cui inizia il brano del vangelo di oggi cita un testo ormai entrato
nella sapienza popolare, che lo usa in modo peggiorativo: «occhio per occhio
e dente per dente» (Mt 5,38; cf. Es 21,24; Lv 24,20; Dt 19,21); la norma è
meglio conosciuta come «legge del taglione». Oggi con questa frase s’intende che
al danno subito si vuole fare corrispondere il massimo della severità, senza misericordia.
Chi usa questo linguaggio, in genere, si considera giusto, come se non
fosse un essere spregevole, capace di vendicarsi; la vendetta è considerata moneta
corrente, giusto prezzo per le offese subite. Questo atteggiamento dimostra
quanto abbiamo lasciato spazio solo alla parte più bestiale della nostra natura,
quella che riporta alla legge del più forte. Ma la “legge del taglione” non era così:
è stata una delle leggi più importanti del XVII sec. a. C. perché, di fronte al governo
disordinato del potere della forza, essa stabiliva «per legge» la proporzione tra
il danno subito e la pena erogata. La legge mosaica del taglione è più antica della
legislazione biblica1, perché esisteva già nel «codice di Hammurabi», una tra le più
antiche raccolte legislative di tutta l’umanità e attribuita al re babilonese Hammurabi
o Hammu-Rapi (1792-1750 a.C.)2. Prima di queste legislazioni giuridiche
«scritte», la vendetta era indiscriminata fno a raggiungere un rapporto sproporzionato
tra danno e pena, come testimonia la storia dei patriarchi biblici, nel “canto
di Lamec” (cf. Gen 4,23-24). Con Hammurabi prima e con Mosè dopo, la violenza
venne riportata ad un rapporto paritario e non più lasciato all’arbitrio del
singolo. La legge del taglione, quindi, è un passaggio di civiltà, una legislazione che
cambia la storia e incide sui costumi di generazioni intere, per millenni. Sembra
un'eresia affermare questo oggi, eppure lo è perché nel momento in cui sancisce
la corrispondenza di colpo su colpo, pone un argine alla violenza senza misura:
una ferita vale solo una ferita e non un omicidio; se uno riceve uno schiaffo, non
può rivalersi con una strage. La legge del taglione afferma il principio etico e psicologico
che ciascuno di noi agisce e vive dentro una rete di priorità e di propor -
1 Cf. Es 21,23-25; cf. Lv 24,19-20; cf. Dt 19,18-21.
2 La raccolta si compone di 282 sentenze che anticipano i codici penali di oggi. Fu scolpita
su una stele di diorite alta circa cm 204 (oggi si trova nel museo parigino del Louvre). È
quasi certo che la legge del taglione, come anche altre norme della Toràh, siano ispirate a
questa raccolta, più antica di circa cinquecento anni.
zioni: nulla è lasciato all’arbitrio, ma con questa norma si defniscono i confni e si
stabiliscono i limiti delle relazioni sociali e dell’azione penale. La legge in questo
senso è un argine che connota i confni estremi. Uno può superare la legge, ma
non può andare oltre di essa. La legalità prima di essere un concetto giuridico è
un atteggiamento spirituale e psicologico perché è la coscienza del limite e la
consapevolezza delle proporzioni. Da questo punto di vista la nozione di legalità
fa comprendere anche l’importanza invalicabile dell’altro perché esprime
contemperanza di esigenze, bisogni, diritti. Chi è senza legge o si crede al di sopra
di essa, è un essere umano malato, senza consapevolezza di sé e crede di potere
esistere solo nell’uso dell’arbitrio che egli vive come propria dimensione di
affermazione. Per rispettare la legge che genera la dimensione diffusa della
legalità, bisogna rispettare se stessi, ma anche accettarsi e riconoscersi come
parte di una realtà umana più ampia, pur mantenendo la propria individualità e
coscienza libera.
Anche nella storia della salvezza vediamo applicata la legge del taglione. L’Esodo
narra la vicenda della schiavitù di Israele e l’irruzione di Dio che interviene con
veemenza a liberalo dalla supremazia del Faraone. È l’inizio della storia di Israele:
il popolo assediato dal faraone, nella notte della liberazione, ebbe la promessa
che sarebbe stata applicata da Dio la legge del taglione: l’Egitto che perseguitò e
cercò di uccidere i primogeniti di Israele (cf. Es 1,22), sarà colpito nei suoi primogeniti
(cf. Es 12,29-30) e Israele in forza dei meriti dei Padri (cf. Sap 18,9) sarebbe
stato annoverato nel libro dei giusti. Dio non risponde al sopruso del faraone distruggendo
l’Egitto, ma privandolo dei primogeniti, ristabilendo così le proporzioni
di forza iniziali. Bisogna aspettare Gesù per vedere capovolto il rapporto fno al
punto supremo in cui l’innocente si carica della violenza che non ha generato e di
cui non è responsabile per svuotare di forza e di contenuto il pensiero stesso che
guida le scelte e le azioni violente. Per vanifcare la morte in nome di Dio, Gesù
non sfugge alla sua morte, ma le va incontro e pochi istanti prima di morire perdona
i suoi assassini capovolgendo così la legge del taglione prescritta nella Toràh.
Alla logica dell’«occhio per occhio e dente per dente» (Es 21,24) si sostituisce il
perdono senza riserve e senza pretendere nulla in cambio, un amore a perdere:
«Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24). In nome di
Dio si può solo perdonare, cioè si rinuncia all’equilibrio tra danno e pena e la vit -
tima si carica non solo del danno, ma anche della pena perché solo così può essere
vinta la sproporzione generata dalla violenza. In nome di Dio si può solo essere
uccisi dai propri assassini e mentre questi si identifcano come tali, la vittima
cambia la loro natura e li trasforma in fratelli e sorelle (cf. Gv 18,11). Gesù porta
ancora più avanti l’esigenza di vita fraterna: occorre strappare dal cuore la radice
stessa della vendetta, per giungere fno all’amore del nemico, imitando Dio. Se Lamec
poteva vantarsi di vendicarsi settanta volte sette, cioè una vendetta senza
fne, il discepolo di Gesù che accetta la Legge del Vangelo, arriva perdonare «fno
a settanta volte sette» (Mt 18,22), capovolgendo l’impianto giuridico del suo tempo:
la vendetta cede il passo al perdono. Il riferimento alla legge del taglione fatto
da Gesù, però, si colloca in un contesto più ampio, perché la «giustizia» nuova
non si può esaurire in una serie di norme rituali e morali, chiuse in se stesse. Essa
al contrario deve esprimere una nuova visione del mondo perché rivela un nuovo
volto di Dio, libero dalle pastoie in cui la religione, di solito, lo seppellisce. La
religione infatti nutre se stessa e «usa» Dio per imporre il proprio dominio
perché essa può prosperare solo se i suoi adepti sono sottomessi e succubi,
incapaci di pensare. Dove c’è libertà la religione perde infuenza perché non
riesce ad imporre usi, rituali anonimi e immutabili e quello che più conta, non
riesce a fare prevalere la superiorità della casta sacerdotale che spudoratamente
usa Dio come strumento per la propria affermazione autoritaria. Dove invece c’è
fede, regna sovrana la libertà basata sulla coscienza che alimenta la responsabilità
e dà corpo alla relazione affettiva, nutrita di fducia e reciprocità. La «nuova
giustizia» di Gesù, infatti, esige la fede, che può esprimersi solo in un contesto di
libertà e di amore. Il codice di Hammurabi era formulato in modo impersonale,
mentre il comandamento di YHWH, consegnato a Mosè, è diretto e personale,
indirizzato ad un «tu» con un comando espresso all'imperativo presente. Mentre
nel codice di Hammurabi si formula l’ipotesi di reato e si individua la pena
corrispondente, nel comandamento biblico, Dio si rivolge alla coscienza ed
instaura un rapporto di affettività perché la Legge non può essere solo un argine
esterno, inevitabilmente fondata sulla paura, ma deve essere un affato interiore e
spirituale che genera una visione della vita e comportamenti conseguenti (cf. Mc
7,20-23). Gesù non si attarda sulla legislazione mosaica che già prevedeva il limite
della proporzione, ma scardina il concetto di «minimo legale (o morale)» per
prospettare un nuovo ordine di giustizia, fondato sul primato della relazione che a
sua volta affonda le radici su due pilastri: la persona in quanto tale e Dio in
quanto garante della persona. Qui giocano due reciprocità: l’essere umano è
«immagine di Dio» (Gen 1,27) e quindi rende visibile l’Invisibile di cui è garantisce
l’originale; Dio si affda all’essere umano e quindi lo innalza alla sua natura. Tutto
questo non si risolve a livello di religione, ma si innesta e si sviluppa solo a livello
di fede, che è un moto del cuore e dell’intelligenza, un «luogo» di relazioni
affettive e spirituali.
Alla legge del taglione Gesù oppone la nonviolenza, che l’unico strumento in grado
di sconfggerla (cf. Mt 5,39). Gesù va oltre la stessa Legge ed esprime un passaggio
radicale: la vendetta deve essere sradicata dal cuore stesso dell’uomo. Gesù non
enuncia un comportamento, ma delinea un criterio che potremo codifcare in
termini moderni così: se vuoi cambiare un altro, cambia te stesso nei suoi confronti. Se
ad una violenza rispondiamo con altra violenza, non si fa che aumentare la violenza.
Se invece ad un atto di violenza rispondiamo guardando in faccia la violenza,
chiamandola per nome e accettandola in quanto male, consapevoli che è e resta
violenza, ma non la alimentiamo, la svuotiamo dall’interno di tutto il suo potere di
morte. Il gesto di violenza resta senza risposta e attende che l’autore se ne faccia
carico, perché senza più signifcato. È questa la logica del porgere l’altra guancia o
di lasciarsi togliere il mantello o di lasciarsi trascinare in tribunale. Il credente non
subisce la violenza o il sopruso, ma li nomina, li riconosce e vi si oppone
ponendosi come argine e assorbendo tutta la violenza che altrimenti senza
quell’argine, rischia di molti più danni. È il solo modo per respingere la violenza,
dichiarandola irricevibile per non essere complici di una perversione di sistema.
La violenza così espressa non ha obiettivo e non può risolversi senza ritornare al
mittente che a sua volta deve decidere cosa farne e di conseguenza come
regolarsi.
Nella sesta e ultima antitesi Gesù lascia intatto il sistema mosaico, limitandosi a capovolgerlo:
dall’amore per il prossimo che per gli Ebrei erano i connazionali e
dall’odio per il nemico, si passa all’amore del nemico che così è incluso in un rapporto
di «parentela» con Dio. Il passaggio di Gesù è complesso: inizia col citare
un passo del Levitico: «Amerai il prossimo tuo» (Lv 19,18)3 a cui la tradizione aveva
aggiunto «e odierai il tuo nemico» che però non era previsto dalla Parola di
Dio. Rabbì Hillel (70 a.C.–10 d.C.) ad un pagano che gli chiedeva quale fosse l’essenza
del Giudaismo, rispondeva: «Ciò che ti è sgradevole, non infiggerlo agli altri
»4. Rabbì Aqiba ben Yosef (50–135 d.C. circa), uno dei padri fondatori del Giudaismo
dopo la distruzione Gerusalemme, afferma che il comandamento dell’amore
del prossimo di Levitico «è un principio maggiore della Toràh» (Midrash Sifrè a Lv
19,18). Infatti l’amore per il prossimo implica di visitare gli ammalati, di consolare
gli affitti, di dare la dote alle fdanzate, ecc. A sua volta, Maimònide (1138-1204), il
più grande commentatore ebraico del Medioevo, legge il comando del Levitico in
chiave morale: «Parla di lui [del prossimo] con buone parole e rispetta la sua proprietà
» (Mishnàh, Yadaìm Déot/Mani, 6,3). Il riferimento «al Padre vostro che è nei
cieli» (Mt 5,45) è una ripresa del profeta Malachìa che propugna una sola umanità
perché creatura di un solo Dio (cf. Ml 2,10). Ciò signifca che «prossimo/connazionale
» e «straniero/estraneo» sono posti dalla legislazione giudaica sullo stesso
piano, perché gli esseri umani sono legati tra loro dalla presenza in ciascuno
dell’«immagine di Dio» (Gen 1,27) che li determina come fratelli e sorelle, fgli/e
3 Vi è discussione se il termine «prossimo» si riferisca esclusivamente al «connazionale»
ebreo oppure in senso lato anche allo «straniero». Dal contesto di Lv 19 pare che qui si
debba dare l’interpretazione stretta, cioè la prima, perché immediatamente dopo vi è il
comandamento che riguarda lo straniero e si usano le stesse parole usate per il prossimo
(Lv 19,33-34).
4 Talmud babilonese, Shabàt, 31a. Il testo si trova formulato anche nel libro di Tobia: «quello
che odi non lo farai ad alcuno» (Tb 4,15). Il testo è interessante perché il Targum di Giònata
traduce Lv 19,18 con le stesse parole di Hillel. Nel vangelo di Matteo la formula negativa
di Hillèl è formulata in modo positivo: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a
voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12); ciò signifca che
l’insegnamento di Gesù non è assolutamente nuovo, ma s’innesta nel processo del pensiero
religioso giudaico, da cui si discosta per la forza rivoluzionaria ed esigente da punto di
vista morale e per la sua testimonianza unica di “Figlio dell'Uomo”.
dello stesso Padre. Gesù pone il confronto tra chi dice di credere e quelli che
non credono solo per mettere in evidenza che o il credente ha una motivazione
in più oppure il suo credere è solo un palliativo, un vestito provvisorio a seconda
delle circostanze e convenienze5. Chi crede non può pretendere un sole o una
pioggia particolari e diversi dal sole e dalla pioggia di chi non crede. Troviamo qui
un accenno importante alla laicità dell’agire di Dio che non fa questione di
appartenenza, ma di disponibilità interiore. Già il Levitico chiede a chi crede di farsi
carico dell’altro fno ad intervenire con autorità: «rimprovera apertamente il tuo
prossimo» (Lv 19,17). L’omissione nei confronti degli altri è defnito «peccato»
che schiaccia: «così non ti caricherai del peccato per lui» (ibid.; cf. Gal 6,2; Fil 2,3).
La stessa vendetta viene non solo proibita, ma sostituita con l’amore affettivo ed
elettivo.
Concetti simili verranno sviluppati da Gesù nel vangelo di Matteo, nel 4° discorso,
dedicato alla comunità (Mt 18), quando s’inviterà il credente del Regno di Dio a
farsi carico del male eventuale commesso dal fratello o dalla sorella, usando un
metodo pedagogico-psicologico preciso: prima l’intervento discreto e personale,
poi quello della comunità, infne la decisione della separazione, affnché ogni cosa
sia defnita con il proprio nome e nessuno abbia l’àlibi immorale del «non tocca a
me…» oppure «non è compito mio…», che si traduce nell’ignobile sistema del
farsi i fatti propri, vivendo e lasciando vivere (cf. Mt 18,15-18). Il Levitico, il profeta,
i rabbini e infne Gesù ci insegnano invece che ognuno di noi è responsabile di
tutti gli altri perché ogni fglio e fglia di Dio sono carne e sangue nostri, sono le
nostre credenziali davanti di salvezza o il nostro certifcato di dannazione. Paolo
codifca tutto questo nella frase lapidaria: «Tutto è vostro. Ma voi siete di Cristo e
Cristo è di Dio!» (cf. 1Cor 3,23). Nella Chiesa non possono esservi rapporti fnti,
motivati dal successo personale o dall’affermazione di sé, perché nessuno è chiamato
per se stesso, ma tutti riceviamo una vocazione in funzione di una comunità,
in vista dell’umanità dove Dio ci pone a vivere e ad operare. I Corinzi si diver -
tivano a giocare a chi fosse più intelligente, più sapiente e ridevano dietro a Paolo
che annunciava l’annichilimento di un Dio che lascia crocifggere la suo onnipotenza
per mettersi sullo stesso piano dell’umanità affaticata e dolente. Paolo non
adatta il suo vangelo alla vanagloria dei suoi ascoltatori, ma gli annuncia che il loro
credersi superiori è l’inizio della loro rovina. perché Dio stesso li confonderà disperdendoli
come pula al vento. Se siamo di Cristo, signifca che assumiamo il suo
vangelo come criterio delle nostre scelte e della nostra vita e se facciamo ciò, è
istintivo e naturale guardare agli altri come espressione visibile del volto di Dio e
rivelazione della sua Persona. Ogni uomo e ogni donna sono per noi il monte Sinai
da cui Dio rivela il suo volto e il suo cuore. Per questo non possiamo avere
5 I «pubblicani» citati in Mt 5,46 sono quei Giudei che avevano accettato di lavorare per i
Romani, avendo ricevuto l’appalto della riscossione delle tasse, indulgendo spesso in prevaricazione
e frode per cui erano considerati alla stessa stregua dei pagani e dei peccatori
(cf. Mt 9,9; Lc 5,27).
paura né del futuro, che è nelle mani di Dio e a guida dello Spirito, né degli altri,
specialmente poveri, emarginati, immigrati che sono l’immagine autenticata di Dio
che è povero, emarginato, immigrato. Se veramente vogliamo vivere la nostra
fede, prendiamo sul serio le parole di Gesù, oggi rivolte a noi, perché non ci
succeda quello successe all’uomo ricco del racconto di Mc, che preferì restare
solo piuttosto che immergersi nell’umanità di Dio (Mc 10,21-22).
Se guardiamo il testo di Mt e lo mettiamo in parallelo con quello analogo di Lc
vediamo molte differenze che saltano subito agli occhi; è facile notare, ad uno
sguardo d'insieme, che Mt scrive per gli Ebrei, a cui cita l’Esodo (cf. Es 21,24) e il
Levitico (cf. Lc 24,20; 19,18), mentre Lc è più generico dal momento che il suo
uditorio non ha dimestichezza con le Scritture ebraiche. Da ciò argomentiamo
che la Parola di Dio deve essere adattata e incarnata in ogni cultura, senza con
questo identifcarsi con una particolare. Un’altra diversità tra i due vangeli riguarda
la forma letteraria: Mt usa la struttura antitetica, con cui mette a confronto
l’insegnamento della tradizione giudaica (la Toràh orale) con il suo annuncio liberatorio;
di questa forma non vi è traccia in Lc, il quale a sua volta elimina ogni riferimento
a peccatori e pagani (cf. Mt 5,46-47) e si limita a parlare di peccatori in
genere (cf. Lc 6,33-34). Dal punto di vista della storia del testo, pare che la forma
di Mt sia più antica di quella di Lc, che chiaramente è un adattamento ad un pubblico
che gli Ebrei consideravano «pagani, gentili».
La conclusione di Mt 5,48: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre
vostro celeste», deve intendersi come conclusione di tutte le sei antitèsi prese
nel loro complesso e non solo dell’ultima. In essa troviamo il tema ebraico della
«perfezione», che l’Ebreo concepisce come l’adempimento di tutte le prescrizioni
della Legge, quindi dell’osservanza dei 613 precetti che sintetizzano tutta la Toràh.
Mt va oltre questo formalismo quasi burocratico e annuncia che la perfezione sta
nella natura di Dio che si esprime nella gratuità, cioè nel dono di sé libero e liberante
che i credenti sono chiamati ad imitare. Egli prende ad esempio l’agire di
Dio che nel mandare il sole o la pioggia non fa discriminazione tra «peccatori e
giusti», ma porta il «compimento della Legge» e il superamento del formalismo
farisaico (cf. Mt 5,17.20; 19,21). Lc invece non parla di ideale di perfezione, ma si
limita più moderatamente, ad parlare di bontà e misericordia, concetti più accessibili
al mondo greco (cf. Lc 6,36).
La narrazione di Mt è molto elaborata, come d’altronde anche quella di Lc: enuncia
il precetto della Toràh che desume sia dalla Toràh stessa, sia dalla tradizione
rabbinica. A questo insegnamento, scandito in secoli di tradizione (almeno dal sec.
III a.C.), Mt oppone il comandamento della nuova giustizia, cioè la gratuità, formulato
all’interno del capitolo 5 nello schema della triade come in un crescendo:
«fratello, malvagio, nemico» (cf Mt 5,22.34-35 e 39-41). A questa triade seguono
due esemplifcazioni illustrative, desunte dall’ambiente ebraico (riferimento ai
pubblicani: Mt 5,46) e dal mondo pagano (riferimento al saluto: Mt 5,47). I due
esempi hanno una portata superiore, perché dicono che la morale portata da
Gesù è sganciata sia dalla religione ebraica che è ripiegata solo sul popolo di
Israele, sia dalla flantropìa dei popoli non ebrei che possono considerasi
autosuffcienti. L’annuncio di Gesù è libero e ad esso possono accedere Ebrei e
Pagani perché ora sono cambiati i criteri di vita: la religiosità o il paganesimo non
sono più determinati dall’appartenenza fsica o geografca ad una certa etnìa, ma
solo dalla coscienza e dal grado di coinvolgimento che essa è capace di realizzare.
Questo percorso è una premessa a quanto avverrà successivamente quando si
compirà defnitivamente nel momento stesso della morte di Dio: il velo del Tempio
si squarciò in due, da cima a fondo, permettendo al centurione romano, pagano
per eccellenza e impuro per defnizione, di contemplare la «santità di Dio» nel
«Santo dei santi», trasferito nel corpo straziato di Gesù: «Davvero quest’uomo
era Figlio di Dio!» (cf. Mc 15,38.39). Ora si compie defnitivamente l’anelito di
Mosè che chiede a YHWH di mostrargli la sua gloria, ma che a lui non è concesso:
«Tu non potrai vedere il mio volto» (cf. Es 33,18.20). La nuova morale e la
nuova giustizia sono consegnate ad Ebrei e Pagani ed essi insieme possono salire
sul monte del Signore e ricevere quella rivelazione della persona stessa di Dio
che fu negata a Mosè. Questa è la novità di Gesù: non più la divisione tra credenti
e non credenti, ma solo il progetto di un Dio che si rivela e invita l’umanità senza
distinzione a salire sul monte come profetizzato da Isaia (cf. Is 2,3-4). Nonostante
le differenze, l’insegnamento di Mt e di Lc è lo stesso: l’amore portato e richiesto
da Cristo deve essere liberato dai condizionamenti «naturali» in cui istintivamente
si esprime: famiglia, gruppo sociale, comunità religiosa, comunità di interesse.
L’orizzonte di Dio è l’universalità, dove non esistono categorie, nemmeno quella
del nemico. Quando queste categorie si depositano o solo si proflano, signifca
che gli esseri umani negano la presenza di Dio e stanno operando per interessi di
potere da cui Dio è estraneo. Gesù porta una vera rivoluzione, perché stabilisce
che l’amore è il «luogo» proprio della sua presenza, avulso da altri luoghi e spazi
sacrali, sia religiosi che familiari. L’amore ha in se stesso una dimensione divina
che non riceve da riti o strumenti sacrali. Non è la Chiesa che genera l’amore, ma
è l’amore che partorisce la Chiesa e questa diventa solo una dimensione dove l’amore
possa esprimersi e generare ancora perché «Dio è Amore» (cf. 1Gv 4,8).
Dire che chi non crede non può vivere un amore totale è imprigionare Dio in catene
di stretta osservanza, privarlo della sua natura e renderlo un idolo a buon
mercato. Dio non è nella famiglia, non sta nella razza, non si gingilla con i nazionalismi
e le civiltà cristiane o pagane, non è in cerca di radici, ma egli vive e si mani -
festa nell’atto stesso di amare perché nel momento in cui si dona, si consuma per
l’eternità (cf Mt 5,48; Lc 6,36). Nessuno che ama come può è escluso dall’amore
di Dio, anche se apparentemente agli occhi della religione formale può apparire
un amore «sbagliato», perché il Dio che è Amore è sempre più grande del cuore
di chiunque (cf. 1Gv 4,8; 3,20).
- pro manuscripto -
venerdì 18 febbraio 2011
Le lectio del prete Carmine Miccoli: Matteo 5,38-48 (Domenica VII/A - 20 febbraio 2011)
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La Parola che si fa vita
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