“...rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (cf. Luca 10,20)
P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascolta -
re la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnovamento
dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio bene -
detto nei secoli dei secoli. A.: Amen.
L.:
Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 10,1-20;
(trad. CEI 2008; tra [ ] le parti omesse dalla liturgia).
1 Dopo questi fatti, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a
sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2 Diceva loro: «La messe è abbondante,
ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai
nella sua messe! 3 Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4 non portate
borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. 5 In
qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. 6 Se vi sarà un figlio della
pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7 Restate in quella
casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua
ricompensa. Non passate da una casa all’altra. 8 Quando entrerete in una città e vi accoglieranno,
mangiate quello che vi sarà offerto, 9 guarite i malati che vi si trovano, e
dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. 10 Ma quando entrerete in una città e non
vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: 11 “Anche la polvere della vostra città,
che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il
regno di Dio è vicino”. 12 Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno
duramente di quella città. [13 Guai a te, Còrazìn, guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e
a Sidòne fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo,
vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. 14 Ebbene, nel giudizio,
Tiro e Sidòne saranno trattate meno duramente di voi. 15 E tu, Cafàrnao, sarai forse
innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! 16 Chi ascolta voi ascolta me, chi
disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato]».
17 I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si
sottomettono a noi nel tuo nome». 18 Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo
come una folgore. 19 Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e
scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. 20 Non
rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché
i vostri nomi sono scritti nei cieli».].
Note di esegesi per la comprensione del testo
Il brano di vangelo proposto dalla liturgia riporta il discorso di Gesù sulla missione
nella versione lucana. Di questo discorso esistono due versioni: la forma breve
(cf. Mc 6,8-11; Lc 9,3-5) che riguarda i «dodici» apostoli e la forma lunga (cf. Lc
10,2-16) che riguarda i «settantadue» discepoli e a cui Lc presta particolare attenzione.
L’evangelista Mt unifca le due tradizioni e forma un solo testo a cui aggiunge
elementi propri della sua comunità (cf. Mt 10,5-16); Lc invece costruisce il suo
testo in modo originale coinvolgendo anche la cerchia dei discepoli, quasi a dire
che la missione della Parola non è appannaggio della sola gerarchia, ma è un «affare
» che riguarda tutta la Chiesa. Nella tradizione giudaico-cristiana il numero 72
è il numero dei popoli che abitavano la terra e quindi indica la totalità del genere
umano che attende la Parola di consolazione che solo Dio sa donare.
Gesù è in «viaggio» verso Gerusalemme. Mentre cammina con i suoi in Galilea,
guarda il meraviglioso spettacolo che gli offre la vista di campi di orzo e grano,
biondeggianti e modellati dal vento che da forme e movimenti particolari e suggestivi.
Quella immensa massa di messe fa pensare che occorrono molti operai
per raccoglierla. Ogni mattina, prima dell’alba, il padrone di quei campi andrà alla
porta della città dove già aspettano folle di operai giornalieri. Si contratta, ci si accorda,
si va alla mietitura (cf. Mt 20,1-7). Da qui alla trasposizione sul piano religioso
il passo è breve. Come spesso accade Gesù parte sempre da una situazione
concreta, da un fatto della vita reale, da un esempio del quotidiano per condurre i
suoi ascoltatori ad una rifessione più profonda. Un esempio tipico sono le parabole:
prese dalla vita di ogni giorno, da quella vita che tutti potevano sperimentare
e quindi capire, diventano veicolo per un messaggio che anche i poveri possono
comprendere. Nel pensiero e nelle parole di Gesù gli operai giornalieri diventano
gli «operai delle messe» dell'umanità, con una trasposizione simile a quella
dei pescatori, applicata agli apostoli che diventano «pescanti prede vive»1. L’obiettivo
della missione in Gesù non è l’adesione ad una dottrina o l’invito ad entrare
in un gruppo più o meno organizzato religiosamente; al livello di Gesù non si può
ancora parlare di Chiesa come organizzazione per il semplice fatto che Gesù non
ha avuto nel suo orizzonte missionario alcun tipo di «chiesa», come invece avrà
Paolo che addirittura le fonda, le organizza e le accompagna. La missione di Gesù
ha come orizzonte escatologico il Regno di Dio proiettato sulla fne della storia,
ma per giungere a questo traguardo deve attraversare tutta la distanza che separa
il presente dall’esito fnale, il «qui e ora», il tempo della testimonianza e dell’amore.
Il missionario non è guidato dal suo passato, dalla storia da cui proviene, ma la ragione
e il fondamento del suo andare ed «esserci» sono nella fne, nella conclusione.
In altre parole, colui che è mandato guarda il presente e il passato dal punto
di vista della fne, cioè dalla prospettiva del/la fne/compimento del mondo,
dell’escatologia. Bisogna programmare la missione in mezzo agli uomini e alle
donne partendo dalla fne, non dall’inizio, perché solo la prospettiva fnale ci aiuta
a vedere le cose dal punto di vista della pienezza e della completezza. Se ci limi -
tiamo a programmare partendo dal passato, noi rischiamo la ripetitività, ma anche
il danno di trasmettere la nostra esperienza passata senza sguardo suffciente
vero il futuro. Pensare le cose dal punto di vista della fne si chiama teologicamente
«teleologia», in flosofa «fnalismo»2. È quello che spesso diciamo a livello individuale:
programmare la propria vita dal punto di vista della morte, vissuta come
imminente perché solo così possiamo vivere il presente come irripetibile, unico,
così che nulla diventa banale, ma ogni cosa acquista un valore oltre misura, inaspettato
perché riconduce tutto all’essenziale e alla verità. Nulla è scontato, ma
tutto diventa dono.
Gesù si pone sulla linea della coerenza biblica che descrive una storia della salvezza
nutrita in abbondanza di prospettiva escatologica3. Cosa vuol dire ciò? Che
1 Cf. Lc 5,1-5, con la simbologia del “pescatore di uomini”.
2 Etimologia: dal greco, tèlos che signifca “fne” e lògos che signifca “discorso”: discorso sul
fne o dal punto di vista della fne, cioè della prospettiva fnale.
3 Escatologia è parola greca composta da èschata, “cose ultime, fnali” e lògos “discorso, parola”.
È la dottrina che si occupa della fne della storia e quindi del destino ultimo dell’uo -
mo. Nell’AT essa è contenuta in modo particolare nei libri profetici di Daniele, Isaia, Ezechiele,
Zaccaria che si proiettano nel futuro, descrivendo un tempo messianico di ricchezza
e di pace per il popolo di Israele e un “giorno di YHWH” di giudizio e di salvezza. La
morte e la risurrezione di Cristo introducono un cambiamento radicale in questa prospettiva
perché ora tutto l’AT è reinterpretato alla luce dell’evento pasquale di Gesù, che
per i cristiani è il Messia non solo d’Israele, ma dell’umanità intera. Il tempo che viviamo
tra la risurrezione di Cristo e la fne del mondo è quindi penultimo, in quanto precede
appunto gli “ultimi tempi” della seconda venuta di Cristo per concluderà la storia (cf. G.
RAVASI, Introduzione all’Antico Testamento, Casale Monferrato 1991, 126. Per i testi biblici, cf.
bisogna rimandare sempre al futuro la soluzione dei problemi che la vita offre? È
questa l’accusa, spesso fondata, che si fa alla Chiesa, quando predica pazienza in
questo mondo, alimentando la speranza di un cambiamento radicale nell’altro: è
l’accusa dell'alienazione perché la religione è usato come consolazione a buon
mercato. Se così fosse, si instaurerebbe una frattura indebita tra la vita presente e
quella escatologica, che invece sono indissolubilmente unite e intrecciate. Per
capire qual è il rapporto tra la vita presente e la prospettiva escatologica, bisogna
valutare l’esito della «missione» che spesso registra un totale insuccesso, ma
anche persecuzioni.
La missione di cui parla Gesù, guardando i campi ondeggianti di messi di grano, è
l’annuncio che gli apostoli e i discepoli fanno agli uomini e alle donne loro contemporanei
che «Dio è già qui» per cui invitano ed esortano ad un cambiamento
radicale: «convertitevi e credete nel Vangelo» (cf. Mc 1,15). Annunciare la «presenza
di Dio» signifca indicare la Shekinàh (“Dimora”) che torna in mezzo al suo popolo,
portare dentro la storia il giudizio di Dio perché ogni parola che esce dalla
bocca di Dio esige una valutazione, un discernimento, una presa di posizione e
quindi un giudizio sulla vita, le scelte, le omissioni e le intenzioni. Gli esseri umani
capiscono bene cosa il vangelo esige e siccome esige una rottura radicale di vita,
essi perseguitano i missionari, dichiarandoli responsabili dei problemi della società
e illusi che vivono in un altro mondo. Il mondo del potere, della guerra, della
menzogna, dello sfruttamento, il mondo del male non può accettare il giudizio di
Dio e tanto meno può accogliere l’invito a guardare il presente dal punto di vista
del futuro: sarebbe la fne di una certa politica, di una certa economia, di una certa
visione strategica dell’umanità. Sarebbe ammettere le colpe per lo squilibrio
immorale che il presente testimonia e vive nella carne dei piccoli, dei deboli e dei
poveri. La persecuzione è il segno che l’annuncio missionario è autentico, il martirio
è il sigillo che il testimone è fedele al Vangelo, il fallimento è la prova che si è
sulla strada giusta perché ogni fallimento scarnifca il cuore del missionario e lo
costringe ad una testimonianza sempre più austera e autentica, nella logica della
Croce. Al contrario, quando i cristiani e specialmente le gerarchie sono circuite,
adulate e osannate dal potere e dal sistema di peccato che domina il mondo, è
segno che la Chiesa è cercata come funzionale al sistema: in cambio di favori, di
denari e di leggi si impone il silenzio alla profezia, la cecità di fronte alle ingiustizie
e il sostegno anche a uomini e governanti immorali che alimentano sistemi di
corruttela. Si diventa complici e vittime, schiavi apparentemente liberi. La prospettiva
fnale, di conseguenza, è la fonte della libertà, anche libertà dalla riuscita
e/o dal fallimento. Chi si preoccupa di contare i risultati nel contesto del regno di
Dio, ha una visione materialista della religione e non crede. Quando saremo capaci
di misurare Dio e di farne un metro per tutti i vestiti, allora e solo allora saremo
certi che Dio non è una illusione o un ornamento coreografco, magari buono
a simboleggiare una identità che non c’è. Dio è semplicemente Dio e noi sia-
Am 9,13-15; Sal 126[125],5-6; Gl 4,13; Ger 5,17; Mt 13,28-39; Ap 14,15-16, etc.).
mo semplicemente suoi fgli/e. Un metro certo lo abbiamo: quando la Chiesa è
osannata, acclamata e protetta dal mondo che deve essere giudicato dalla Parola
di Dio, è il segno che essa ha smarrito del tutto il sigillo della sua profezia. Non è
più la voce della Parola che annuncia, ma si è sostituita alla stessa Parola per essere
essa stessa strumento di servitù. Una chiesa asservita da chi vuole servirsene
per mantenere squilibri e ingiustizie, lasciandole solo l’apparente libertà di qualche
inutile richiamo etico alla responsabilità o al mondo dei principi, è una società
funzionale che ha smarrito il suo Signore e non è in grado di farlo incontrare a
quanti lo cercano con cuore sincero (cf. Dt 4,29; Sal 119[118],10).
Il missionario e la Chiesa, in nome della quale si presenta, non devono solo essere
poveri, ma devono anche apparire poveri per mettere in risalto che l’irruzione di
Dio nella vita degli esseri umani è opera dello Spirito Santo e non opera loro. La
povertà come stile è un grande antidoto al delirio di onnipotenza che può assalire
il missionario che confda negli strumenti esteriori. Anche i rapporti interpersonali
devono essere semplifcati (cf. Lc 10,4). Presso i popoli nomadi e in generale
per gli orientali, il saluto non è un gesto o una parola convenzionali, ma un rituale
che richiede tempo e disponibilità. Il saluto tra due carovane che s’incontrano
in un’oasi, o tra due viandanti, potrebbe essere un impedimento all’urgenza
della missione. Non salutate nessuno non è un consiglio di scarsa educazione, ma
un invito ad andare all’essenziale, come essenziale deve essere il carico del pellegrino
perché essenziali sono le sue esigenze. Non si va a fare la rivoluzione con
bagaglio appresso, ma si porta solo se stessi e la propria parola. Il missionario
sarà in tutto dipendente dalla Parola, anche per le cose necessarie come vitto,
ospitalità, assistenza. La Parola annunciata è garanzia suffciente di colui che porta
l’annuncio nel segno della Pace che la condizione, il confne e il cuore del vangelo.
La pace di cui parla l’evangelista non è un atteggiamento comportamentale, ma la
persona stessa di Gesù: egli viene ad eliminare ogni frattura, rivalità, guerra, sopruso,
gelosia, dando la Pace, cioè offrendo se stesso come modello, come mèta e
come risultato fnale. Un missionario ricco non ha mai convertito alcuno, un missionario
povero cammina con i poveri, con gli stessi strumenti dei poveri, non si
mette mai alla testa dei poveri, ma sempre in fla, ultimo tra gli ultimi perché il
missionario non va in mezzo al mondo per comandare, ma perdersi e scomparire
come il lievito nella pasta, il sale nella minestra (cf. Lc 13,21; 14,34.35).
Bisogna dire ancora una parola sul numero «settantadue». Al tempo di Gesù si
credeva, in base alla lista di Gen 10, che la terra fosse abitata da settantadue popoli.
I discepoli inviati sono quindi simbolici: uno per ogni popolo. È la dimensione
universale della missione e della testimonianza, è un modo ebraico per dire che
nessuno al mondo deve essere nostro estraneo, specialmente quando abbiamo la
presunzione di parlare a nome di Dio. Nel tempio di Gerusalemme, nel giorno di
Yom Kippur, il sommo sacerdote indossava un mantello alla cui estremità erano
cuciti settantadue campanelli; insegna la tradizione ebraica che la Parola di Dio
scolpita sulle tavole sprigionava settanta scintille. Nessun popolo può e deve essere
escluso dal Vangelo, dal perdono e dalla Parola di consolazione che Dio, Padre/
Madre, riversa sull’umanità intera attraverso la vita e lo stile di vita di chi annuncia.
Portando questa Eucaristia nel mondo, noi non portiamo il nostro giudizio, ma il
giudizio del Dio che si fa Parola e Pane, fragilità frugale perché nessuno si perda.
Noi portiamo il giudizio di Dio che è misericordia e pace, recupero e progetto di
speranza che guarda non al passato, ma alla prospettiva fnale, quando saremo un
solo corpo e un solo spirito. Tornando a casa portiamo con noi la testimonianza
di un amore invincibile e senza calcolo, memori di quanto ci insegna Paolo: «quello
che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto
per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a
Dio» (1Cor 1,28-29). Non abbiamo paura perché la coscienza della nostra pochezza
è materiale adatto al progetto di Dio e del suo Regno.
- pro manuscripto -