Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)
LECTIO DIVINA
“Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità” (cf. Gv 4,24)
Canto (facoltativo), a scelta della comunità.
Dopo un’opportuna introduzione, si può invocare lo Spirito Santo con il canone Veni Sancte Spiritus o
Vieni, Spirito Creatore (Taizè), o altra preghiera simile, come la seguente.
P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare
la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnova -
mento dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto
nei secoli dei secoli. A.: Amen.
Canto (facoltativo): Alleluia (Taizè).
L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Giovanni (Gv 4,[3]5-
42[43]; trad. CEI 2008; tra [] le parti omesse dalla liturgia).
[3 Gesù lasciò allora la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. 4 Doveva perciò
attraversare la Samaria.] 5 Giunse ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al
terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6 qui c’era un pozzo di Giacobbe.
Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno.
7 Giunse una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi
da bere». 8 I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9 Ma la donna
samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una
donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10 Gesù le
risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da
bere!”, tu avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11 Gli dice la donna: «Signore,
non hai secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua
viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo
e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13 Gesù le risponde: «Chiunque beve
di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14 ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà
mai più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua
che zampilla per la vita eterna». 15 «Signore – gli dice la donna – dammi quest’acqua,
perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». 16 Le
dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17 Risponde la donna: «Non ho
marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. 18 Infatti hai avuto
cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19 Gli
replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! 20 I nostri padri hanno adorato
Dio su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna
adorare». 21 Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte, né a
Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate quel che non conoscete, noi
adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23 Ma viene
l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così
infatti il Padre vuole che sia quelli che l’adorano. 24 Dio è spirito, e quelli che lo
adorano devono adorare in spirito e verità». 25 Gli rispose la donna: «So che deve
venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». 26 Le
dice Gesù: «Io-Sono, che parlo con te». 27 In quel momento giunsero i suoi discepoli e
si meravigliarono che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa
cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28 La donna intanto lasciò la sua anfora, andò
in città e disse alla gente: 29 «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello
che ho fatto. Che sia lui il Messia?». 30 Uscirono allora dalla città e andavano da lui.
31 Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». 32 Ma egli rispose loro: «Io ho da
mangiare un cibo che voi non conoscete». 33 E i discepoli si domandavano l’un l’altro:
«Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». 34 Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare
la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35 Voi non dite forse:
ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e
guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36 Chi miete riceve salario e
raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme e chi miete. 37 In
questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. 38 Io vi ho
mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete
subentrati nella loro fatica». 39 Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la
parole della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 40 E
quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase
là due giorni. 41 Molti di più credettero per la sua parola e 42 alla donna dicevano:
«Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e
sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». [43 Dopo questi due giorni
ripartì di là per la Galilea.]
Segue la meditazione della Parola proposta dalla guida della celebrazione; dopo un momento personale di
silenzio per la lectio, si prosegue con la condivisione comune sulla Parola ascoltata. Al termine, ognuno
dei presenti può proporre un’intenzione di preghiera; ad ognuna, l’assemblea canta o risponde con un’acclamazione.
Si conclude con la preghiera del Padre nostro… [e la benedizione finale].
Note di esegesi per la comprensione del testo
Il vangelo di Gv, al capitolo 4, ruota attorno a quattro temi: il pane, l’acqua, il culto,
la missione; su tutti prevale però il tema dell’acqua che diventa anche la chiave interpretativa
di questo brano e dell’intero capitolo.
Sgomberiamo subito il terreno da ogni equivoco: Gesù non ha mai pronunciato
un discorso così complesso come quello riportato da Gv. L’intero capitolo fa parte
del piano dell’autore che espone, alla fine del sec. I, una teologia elaboratissima,
condensata per temi lungo tutto il vangelo (lo stesso avviene, ad esempio, al capitolo
6, dove c’è un lunghissimo discorso sul «pane disceso dal cielo», oppure nei
capitoli 13-17, dove troviamo i «discorsi di addio» nel contesto della Cena). Il capitolo
espone, quindi, la teologia della comunità giovannea.
Gesù è stato in Samarìa diverse volte, perché per andare dalla Galilea a Gerusalemme,
doveva attraversare la Samarìa che è la regione centrale della Palestina; la
sosta al pozzo di Giacobbe o di Sìcar1 è una sosta obbligata per qualsiasi viandante
o pellegrino. Nulla impedisce di pensare che Gesù abbia incontrato Samaritani
e Samaritane con cui ha parlato, nonostante l’opposizione atavica tra Giudei e Samaritani
che si trattavano da nemici. L’incontro con la donna è nello stile tipico di
Gesù che infrange spesso il costume sociale e religioso del suo tempo, suscitando
stupore, reazioni e avversità. Qui i discepoli «si meravigliavano che parlasse con
una donna» (v. 27), come scribi e farisei «mormorano» perché parla, accoglie e va
in casa di pubblicani e prostitute (Lc 5,30; 15,2; 19,7).
Osserviamo la struttura del testo per cogliere la profondità che l’autore vuole
comunicarci. Tutto il capitolo ha un andamento circolare, perché segue lo schema
progressivo A, B, C, D, C’, B’, A’, detto schema a chiasma o ad incrocio. In questo
schema, molto comune nel vangelo, il primo elemento è sempre in rapporto all’ultimo
(A e A’), il secondo al penultimo (B e B’), il terzo al terzultimo (C e C’) e
tutti convergono verso un centro costituito o da una affermazione o da un fatto
(D). Ne diamo lo schema di massima:
A (vv. 3-6) Gesù parte verso la Galilea passando per la Samaria.
B (vv. 7-15) Gesù chiede da bere alla Samaritana: dialogo sulla duplice acqua.
C (vv. 16-18) Gesù svela chi è alla Samaritana.
D (vv. 19-26) Adorazione in Spirito e Verità.
C’ (vv. 27-30) La Samaritana svela ai paesani chi è Gesù.
1 È il nome della città vicina al pozzo di Giacobbe (Gen 33,19; Gs 24,32). Alcuni la identificano
con la città di Sichem, che fu il primo posto in cui Abramo si fermò quando entrò
per la prima volta in Palestina (Gen 12,6). In essa abitò Giacobbe che vi comprò il campo
dove fu seppellito Giuseppe (cf. At 7,16). Nella distribuzione della terra, Sichem fu data alla
tribù di Efraim. Qui Giosuè fece il suo ultimo discorso agli Israeliti (Gs 24,1-25; Gdt 5,16).
Fu la prima capitale del regno del nord dopo la scissione di Israele in due regni (1Re
12,25), ma in seguito perse importanza. Dopo l’esilio ridiventò la città più importante della
Samaria. Nel 108 a.C. i Giudei la distrussero; nacque l’inimicizia acerrima tra Giudei e
Samaritani, ancora vivissima al tempo di Gesù (cf. Gv 4,9).
B’ (vv. 31-38) I discepoli chiedono a Gesù di mangiare: dialogo sul duplice pane.
A’ (v. 43) Gesù riparte dalla Samarìa per la Galilea.
Questa struttura, che può applicarsi ulteriormente ad ogni singola unità, ci dice
tre cose: a) il capitolo possiede un'unità globale; b) il vangelo non può essere letto
superficialmente, perché ogni parola nasconde sempre diversi significati; c) l’intento
di Gv non è quello di raccontarci un fatterello edificante della vita di Gesù,
una pillola soporifera ante litteram, ma vuole guidarci a scoprire la personalità di
Gesù di Nazaret, accreditato come Messia e Figlio di Dio, a cui attribuire i titoli e
le qualità del Dio d’Israele, YHWH. Di tutto il capitolo, è evidente che tra i quattro
temi che lo compongono, quello dell’acqua è il più importante, anche per la
sua simbologia.
In Oriente, andare a prendere l’acqua dai pozzi era compito riservato alle donne;
per questo motivo, i pozzi erano uno dei luoghi in cui i giovani andavano spesso
per intrattenersi con le giovani in età da matrimonio. D'altronde, attorno ai pozzi
si facevano contratti e si stipulavano promesse, si combinavano matrimoni e si
decidevano guerre o amicizie; pur essendo spesso al di fuori dell’abitato, il pozzo
era uno dei perni della vita sociale del Medio Oriente antico. Ancor oggi, l’affronto
più grave che si possa fare in Oriente tra tribù nomadi è inquinare il pozzo
con escrementi di animali o con pietre (Gen 25,15; 26,18). L’acqua è la vita; chiunque
scava e trova un pozzo deve porre dei segnali visibili perché tutti possano
usufruirne. Tutta la storia dei patriarchi si svolge attorno ad un pozzo e nelle loro
peregrinazioni di nomadi passavano da un pozzo all’altro. Essi scavarono pozzi per
sé e i loro discendenti perché il pozzo garantisce il futuro (cf. Gen 26,12-22). Al
valore economico e sociale, si aggiunge il significato simbolico che il pozzo ha nella
tradizione d'Israele e della Chiesa: la Scrittura stessa è paragonata ad un pozzo
che non si esaurisce mai perché è contemporaneamente profondità e sorgente: la
profondità perché tocca il mistero di Dio, la sorgente perché trabocca e disseta i
popoli, di cui bisogna prima dissetarsi e poi portarne anche agli altri2. Gesù si presenta
alla Samaritana come un nuovo patriarca che scava un pozzo nuovo, non
più materiale, ma un pozzo da cui scaturisce l’acqua viva dello Spirito di Dio. Forse
Gesù pensa al profeta Amos per il quale la sorgente d’acqua è simbolo della Parola
di Dio (4,4-8; 8,11), oppure a Isaia per il quale la sorgente d’acqua è la liberazione
apportata da Dio (Is 12,1-4), o ancora a Geremia per il quale la sorgente
d’acqua viva è il pozzo della sapienza e della Legge di Dio (Ger 17,6-8).
Il vangelo di Giovanni usa sempre un linguaggio ambiguo: ogni sua parola, affermazione
o fatto descritto ha due livelli, quello materiale del significato immediato e
quello nascosto del significato profondo. Giovanni punta sempre a questo secondo
livello, che non è immediatamente visibile, ma che è quello più rivelativo, ri-
2 Cf. Origene, Omelie sulla Genesi X,2. Sempre Origene, commentando Ct 4,15, paragona la
fanciulla innamorata ad un «pozzo di acque vive», dando alla Scrittura il valore di un luogo
nuziale, in cui si celebra l'alleanza tra Dio e il suo popolo.
spetto al senso comune. In questo brano, per es., per dire «pozzo» si usano in
greco due termini: pegê, che significa sorgente (v. 6) e phréar, che significa pozzo
(vv. 11-12). Questi due termini sono usati dalla Bibbia greca dei LXX e anche dalla
tradizione giudaico-cristiana: col primo termine si sottolinea l’abbondanza, con secondo
la profondità. Ne troviamo una traccia, ad esempio, in Origene per il quale il
pozzo è simbolo del Verbo di Dio che offre continuamente l’acqua della vita (cf.
Gv 4,14)3. Da queste premesse, comprendiamo che Gv non intende raccontarci
una cronaca della vita di Gesù, ma vuole guidarci a scoprirne la personalità. Tutto
il capitolo 4 è una ripresa del simbolismo che attraversa tutta la Scrittura, di cui
diventa anche una parola chiave. L’acqua viva è simbolo della vita stessa di Gesù e
dello Spirito che lui dona, come anche della rivelazione di Cristo. In Gv 3,5 Gesù
dice a Nicodemo: «Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel
regno di Dio» e in Mc 1,8 Giovanni Battista avverte espressamente: «Io vi ho battezzati
con acqua; ma egli vi battezzerà nello Spirito Santo» (cf. anche At 1,5;
11,16). In 1Gv 5,8 si aggiunge un altro elemento per costituire una trilogia: «lo
Spirito, l’acqua e il sangue» come testimoni concordi sulla persona di Gesù.
Gesù è un uomo carico di pesantezza: è stanco (v. 6) e ha sete (v. 7); si ferma al
pozzo, come avrebbe fatto qualsiasi viandante. Arriva una donna. A rigore di consuetudine
(un uomo, in particolare un rabbì, non si rivolge ad una donna, poiché è
considerato una perdita di tempo) e di inimicizia (un giudeo e un samaritano
sono nemici cordiali) i due non avrebbero dovuto parlare tra loro, ma Gesù
come è suo solito rompe gli schemi e instaura con la donna un dialogo profondo
e trasformante. L’evangelista ci tiene a descrivere la scena: era mezzogiorno (v. 6),
l’ora più afosa della giornata; gli apostoli sono via a fare provviste (v. 8) e dunque
sono assenti; Gesù è solo, con la donna. In questa scena vi è adombrato il tema
nuziale dell’alleanza, che d'altronde è detto esplicitamente quando Gesù invita la
donna ad andare a chiamare il marito ed ella deve confessare che, pur avendo
avuto cinque uomini e vivendo ora con un sesto, «non ha marito» (vv. 16-19).
Gesù rivela la personalità della donna, che rappresenta l’intera Samaria, la cui religiosità
era idolatrica, perché veneravano sette divinità straniere suddivise in cinque
città (2Re 17,29-34), oltre al Signore, che era il sesto uomo-non marito. In altre
parole in Samarìa regnava un grande sincretismo religioso, che mescolava il «Signore
» con gli «idoli». In ebraico, marito si dice ba‘al, che è anche il nome con cui
vengono indicati gli «idoli» che inducono ad una religiosità di prostituzione; in Gv
3 «Di là andarono a Beer. Questo è il pozzo di cui il Signore disse a Mosè: “Raduna il popolo e io
gli darò l’acqua”… Questo indica che ciascuno di noi ha in se stesso un pozzo… Leggiamo
che anche i patriarchi ebbero dei pozzi: ne ebbe Abramo, ne ebbe Isacco (Gen 26,15);
penso che ne avesse anche Giacobbe (Gv 4,6). Prendendo l’avvio da questi pozzi, percorri
tutta la Scrittura, ricercando i pozzi, giungi fino ai Vangeli, e là troverai il pozzo sul bordo
del quale stava seduto (Gv 4,13-14) il nostro Salvatore… Quando si fa menzione del pozzo
e della fonte, è da intendere che si tratta del Verbo di Dio: pozzo, se tocca la profondità
del mistero; fonte, se trabocca e si espande ai popoli» (Omelie sui Numeri XII,1).
4 il termine «marito» ricorre cinque volte. I mariti/padroni della donna
diventano così il simbolo dell’idolatria che è la dissoluzione del volto e del Nome
di Dio, Colui che è «Uno». Gesù si colloca sulla linea del profeta Osea e viene a
recuperare la verità dell’alleanza nuziale offuscata e compromessa dall’idolatria
(cf. Os 2,18-19). Alle nozze di Cana (Gv 2,1-11) l’evangelista ha esposto il tema
dell’alleanza come nuzialità, nel segno dell’abbondanza del vino, come simbolo dei
tempi messianici; subito dopo Giovanni Battista aveva definito Gesù come lo
«sposo» (Gv 3,29). Ora, con la Samaritana, lo stesso tema viene ripreso e
applicato anche oltre i confini d’Israele, perché l’alleanza porta all’unità coloro
che prima erano nemici, anticipando così anche il ministero di Gesù che sarà
tutto proteso alla riconciliazione del mondo nel segno del suo sangue, cioè della
sua vita donata. Dal libro degli Atti sappiamo che dopo la morte di Gesù anche la
Samaria accolse la Parola di Dio e il fatto stupì tanto gli apostoli che inviarono a
verificare Giovanni e Pietro (cf. At 8,14). L’acqua che Gesù dona alla donna di
Samarìa è il simbolo dello Spirito Santo, quello stesso Spirito che darà la forza alla
Chiesa di essere testimone non solo in Gerusalemme e Giudea, ma anche in
«Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,8), fino a crescere nell’unità della fede
superando l’inimicizia e l’odio atavici che avevano segnato la storia della Giudea e
della Samarìa (At 9,31). In questo contesto i Samaritani che corrono per
conoscere Gesù danno volto e nome alle «messi che biondeggiano per la
mietitura» (Gv 4,35), aprendo così il simbolismo dell’acqua-Spirito alla missione
universale.
Il cuore del brano e dell'intero capitolo quarto è nei vv. 19-26 dove si sviluppa il
dialogo sul culto spirituale. Da dove nasce questo rapporto tra il luogo dell’adorazione
e l’acqua viva che simboleggia lo Spirito e quindi il culto spirituale, il solo
che Dio vuole? Il vangelo nasce in un conteso giudaico e fino alla distruzione del
secondo Tempio (70 d.C.) circolavano tradizioni legate al culto che si sono mantenute
anche dopo la distruzione, almeno come tracce. Nella Genesi si legge che
Noè dopo il diluvio costruì un altare sul quale offrì sacrifici a Dio che s’impegnò
così a non distruggere più l’umanità (Gen 8,20-21). Questo altare edificato da
Noè dalla tradizione giudaica è stato identificato con la «pietra di fondazione»
(eb.: èben shetyàh) del mondo, che a sua volta veniva identificata con la pietra che
si trovava nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme e sulla quale Abramo
aveva offerto in sacrificio il figlio Isacco; su questa pietra era posta l’Arca dell’alleanza.
Nella festa di Sukkôt, sulla pietra-altare veniva versata una grande quantità
di acqua, come libagione, che attraverso un canale speciale raggiungeva le «acque
dell’abisso», dove si ricongiungevano con quelle di Noè che Dio vi aveva confinato.
Questo rituale era chiamato «cerimonia dell’attingimento dell’acqua» ed era
ispirato ad una parola del profeta Isaia (Is 12,3). La liturgia aveva sintetizzato nella
festa di Sukkôt il «memoriale» di tutte le acque della storia della salvezza: da
quelle della creazione, ai pozzi del deserto fino alle acque escatologiche, celebrate
per tutta la durata della festa nella processione quotidiana dal Tempio alla piscina
di Sìloe, che era situata in basso rispetto al Tempio. Qui si attingeva l’acqua di
libagione che la tradizione aveva collegato al dono dello Spirito Santo (Midrash
Tannaim 94). In Gen 29,2 incontriamo Giacobbe che va a cercarsi moglie nella terra
del fratello di sua madre: «Vide un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame». Il
Midrash Genesi Rabbà a questo testo così commenta: «Il pozzo è simbolo di Sion
[=Gerusalemme, cioè il Tempio e il suo altare], i tre greggi sono le tre feste [Pesàh/
Pasqua, Sukkôt/Tende, Shavuôt/ Settimane]. Come dal pozzo si abbeverano i
greggi, così dal Tempio si è impregnati di Spirito santo» (Gen Rabbò 70,8-9). In
questi testi troviamo così connessi l’acqua, lo Spirito, il culto, il Tempio e il deser -
to che richiama l’alleanza. Gesù è seduto al pozzo di Giacobbe, come se esso fos -
se il trono che nella festa di Sukkôt era riservato al Messia: non solo, ma qui il
pozzo prende il posto del Tempio e Gesù ne prende possesso come dominatore
delle acque del diluvio e di quelle della pioggia (Sal 29[28],3; 89[88],10). Gesù si
presenta alla samaritana come il nuovo Tempio da cui sgorgherà la sorgente viva
dello Spirito Santo. Al momento della morte, infatti, poco dopo che «consegnò lo
Spirito» (Gv 19,30) noi riceviamo un’altra simbologia: «Uno dei soldati con una
lancia gli colpì il fianco e subito ne uscì sangue ed acqua» (Gv 19,34). Lo Spirito
consegnato nella morte, che per Giovanni è la Pentecoste, è significato nell’uscita
dell’acqua dal suo costato perché è lui il nuovo Tempio da cui tutti gli uomini e
tutte le donne attingeranno «acqua con gioia alle sorgenti della salvezza» (cf. Is
12,3). C’è ancora un altro collegamento che spiega questa prospettiva. Dopo la
visione della scala santa che univa il cielo e la terra e da cui «salivano e scendevano
gli angeli di Dio», Giacobbe esclama: «Il Signore è in questo luogo e io non lo
sapevo» (Gen 28,16). Il dialogo di Gesù con Natanaele si chiude con l’allusione al
sogno di Giacobbe (Gv 1,51); a questo riferimento segue immediatamente il racconto
delle nozze di Cana con il tema della nuzialità, che si conclude con il fatto
drammatico della cacciata dei venditori dal Tempio, che lo stesso Gesù identifica
con il suo corpo (Gv 2,21). Dopo il dialogo con Nicodemo (Gv 3,1-14) in cui si
esprime l’esigenza di «nascere da acqua e da Spirito» (cf. Gv 3,5-8) e la testimonianza
di Giovanni il Battista che indica in Gesù lo Sposo atteso (Gv 3,25-30), finalmente
si arriva all’incontro con la donna samaritana dove tutti questi temi
sono ripresi e riformulati attorno all’idea del nuovo culto spirituale. Il costante riferimento
al patriarca Giacobbe, dalla visione della scala al pozzo di Sìchem a lui
attribuito porta solo ad una conclusione: come Giacobbe fu il padre di dodici figli
che diedero la vita alle dodici tribù d’Israele, cioè al popolo di Dio, così Gesù è il
nuovo patriarca che dà l’acqua dello Spirito Santo a Israele, ai suoi nemici Samaritani
e a tutti gli esseri umani, instaurando un nuovo culto che non ha più bisogno
di luoghi e spazi sacri, ma si colloca nel profondo della coscienza di ciascuno,
per attingere da ciascuno le acque della propria identità che lo solo Spirito Santo
può identificare, riconoscere e versare in libagione.
Con questo dialogo tra Gesù e la Samaritana avviene un grande evento che si
compie per mezzo di una donna: il passaggio dal regime della religione alla stato
della fede. Se non si adorerà Dio né sul monte dei Samaritani e nemmeno nel
Tempio di Gerusalemme, significa che inizia un'èra nuova che cambia le modalità
e gli statuti religiosi, perché Gesù non fa altro che proporre un culto «laico» che
supera le religioni e gli ordinamenti di cui esse hanno bisogno, situandosi in quell’ambito
invalicabile che è la coscienza di ciascuno/a, l’unico luogo profondo dove
ognuno può e deve incontrare Dio. Nel pozzo della propria personalità si può
trovare la vera identità che si esprime con categorie spirituali che la religione non
conosce. Inizia il tempo della fede che si fonda sulla Parola, sulla conoscenza, sull’incontro,
sul dialogo, sul rapporto personale. La religione è altra cosa rispetto
alla fede: la prima ha bisogno di gesti e atti esteriori e non esige una adesione interiore,
ma comporta l’esatta esecuzione dei riti esterni; la fede al contrario vive
di Spirito e respira solo per adesione interiore perché tiene sempre vivo l’appello
alla coscienza come perenne vigilanza e costante valutazione vocazionale. La religione
ha adepti e funzionari, riti sontuosi e masse festanti; la fede invece ha convocati
e celebranti, silenzio e comunità oranti. Superato il livello idolatrico ed entrando
nella logica del culto spirituale, la Samaritana è in grado di andare oltre la
fragilità della umanità di Gesù per scoprire la sua vera identità. Da parte sua Gesù
anche nella fragilità umana non perde mai il contatto con la profondità di sé perché
conosce sempre il suo «dove», cioè la sua consistenza e la prospettiva della
sua vita. Giacobbe non sapeva di trovarsi in un luogo santo, la samaritana non sa
di adorare chi non conosce, mentre Gesù sa perfettamente chi è: «Io-Sono che ti
parlo» (v. 26). Usando l’espressione greca Egô-Eimì, «Io-Sono», che è la stessa usata
dalla Bibbia greca della LXX, usata dai primi cristiani, Gesù attribuisce a sé tutte
le caratteristiche del Dio di Israele. In altre parole, con l’espressione «Io-Sono»
Gesù rinnova la teofania di YHWH a Mosè sul monte Oreb (Es 3,14). Là Dio si
manifestava al grande condottiero e profeta, qui Gesù rivela la sua personalità ad
una donna, un modello di dubbia religiosità, di un popolo idolatra e nemico. Il
pozzo di Giacobbe ai piedi del monte Garizim4 prende il posto del Sinai, come il
dono della Toràh diventa qui il culto spirituale, cioè il dono dello Spirito di Gesù.
La conoscenza, frutto della rivelazione, provoca una conversione radicale, un cambiamento
di vita: la donna lascia la sua anfora e corre verso il suo paese improvvi -
sandosi missionaria e discepola. Il testo greco per dire «anfora» usa il termine hydrìa
(v. 28) che è lo stesso che si usa per le nozze di Cana (Gv 2,6-7): esse sono di
«pietra» come le tavole della Legge. Lasciando la sua anfora al pozzo, la donna lascia
la Toràh e tutta la precettistica ad essa connessa e corre libera verso il mon-
4 Il monte Garizim, alto 881 metri, ancora oggi è il luogo dove i Samaritani celebrano la
Pasqua con il sacrificio dell’agnello. Alla fine del tempo, si raccoglieranno su questo monte
per attendere il Taheb («Restauratore»), che per i Samaritani è il Messia. Nell’AT si parla
di Iotam, figlio di Gedeone, famoso «giudice» di Israele che sale sul Garizim da dove narra
la parabola degli alberi che si contendono il potere di governare (Gdc 9,7-16), in contrasto
con il fratellastro Abimelek che, dopo aver eliminato in un bagno di sangue i suoi 70 fratelli
(Iotam era l’unico scampato), aveva tentato di imporsi come re di Sichem.
do. L’anfora era il suo legame con il pozzo da cui attingeva l’acqua della Legge, ma
senza dissetarsi mai perché ogni giorno doveva bere per vivere. Lo Spirito dato
da Gesù invece è un’acqua che toglie la sete per sempre.
Agli apostoli che ritornano dal fare provviste per il viaggio e che insistono perché
mangi qualcosa, Gesù parla di «un cibo che voi non conoscete» e che Gesù stesso
spiega che il suo «cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (vv. 32.34;
cf. Gv 5,30; 6,38). Nella tradizione sia biblica che giudaica il cibo è spesso associato
alla Sapienza che imbandisce la tavola e invita a nutrirsi (Pr 9,1-6). Per il Siracide
il «pane dell’intelligenza» è collegato all’«acqua [che la] Sapienza… darà da
bere», per cui si può dire che se il cibo è legato all’acqua che è simbolo dello Spirito,
fare la volontà di colui che lo ha mandato significa accogliere lo Spirito simboleggiato
sia dall’acqua che dal cibo. A sua volta lo Spirito orienta verso le messi
biondeggianti, cioè verso l’umanità in attesa, verso la missione (Gv 6,39). Questo è
il compito di Gesù trasmesso ai discepoli: rivelare la volontà del Padre e del Figlio
agli uomini e alle donne di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Vi possiamo qui trovare
anche un’allusione al battesimo che da sempre associa l’acqua, lo Spirito e la
missione (cf. 1 Cor 12,13). L’acqua, il pane, il culto e le messi abbondanti ci rimandano
a noi stessi. Non basta essere battezzati o credere o appartenere ad una
chiesa o farsi una chiesa su misura: bisogna sostare al pozzo profondo della propria
esistenza e non fermarsi ai bordi, non limitarsi ad attingere acqua, ma bisogna
scendere in profondità perché soltanto nell’intimo più profondo del nostro pozzo
interiore possiamo scoprire la nostra vera personalità e infine incontrare il Cristo,
meravigliandoci che lui era già seduto lì ad aspettarci. Scopriremo i nostri
“ba‘al” e chiederemo l’acqua viva della Parola di Dio e dello Spirito Santo e finalmente
anche noi lasceremo la brocca per terra e correremo verso il mondo
dove le messi attendono il nostro lavoro e la nostra testimonianza.
- pro manuscripto -