“Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più!”
Giovanni 8,1-11
P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascolta -
re la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnovamento
dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio bene -
detto nei secoli dei secoli. A.: Amen.
L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Giovanni : 8,1-11
(trad. CEI 2008).
1 Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2 Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio
e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3 Allora gli
scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo 4 e
gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5 Ora Mosè,
nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6 Dicevano
questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò
e si mise a scrivere col dito per terra. 7 Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo,
si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di
lei». 8 E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9 Quelli, udito ciò, se ne andarono uno
per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
10 Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
11 Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e
d’ora in poi non peccare più».
Note di esegesi per la comprensione del testo
Il vangelo che abbiamo appena ascoltato è tratto da Giovanni, ma è un aggiunta
posteriore, probabilmente di sapore lucano, inserita nel contesto del IV vangelo.
Si tratta del racconto della donna accusata di adulterio, colta in fragranza di colpa
da uomini, forse compartecipi della stessa trasgressione; essi vogliono lapidarla in
nome del formalismo della loro religione, che consiste nell’eseguire alla lettera i
dettati della legge di Mosè (cf. Lv 20,10; Dt 22,22-24) senza domandarsi le ragioni
e le cause della situazione che stanno giudicando.
Questo brano singolare, inserito nella grande sezione giovannea in cui Gesù affronta
i Giudei durante la festa delle Capanne, potrebbe essere collocato dopo il
cap. 21 di Lc: ne rispecchia la mentalità, la delicatezza, lo stile e l’impostazione
teologica1. Proviamo infatti a vedere in sinossi le fnali dei due brani:
Gv 8,1-2 Lc 21,37b-38
1 Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 37b La notte, usciva e pernottava all’aperto
sul monte detto degli Ulivi.
2 Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio
37a Durante il giorno insegnava nel
tempio.
e tutto il popolo andava da lui. Ed egli si
sedette e si mise a insegnare loro.
38 E tutto il popolo di buon mattino
andava da lui nel tempio per ascoltarlo.
Il contesto è quello della Pasqua, che dona una luce particolare al senso di questo
racconto: subito dopo, infatti, il cap. 22 di Lc si apre così: «Si avvicinava la festa degli
Azzimi, chiamata Pasqua, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano in che
modo toglierlo di mezzo, ma temevano il popolo» (Lc 22,1-2) perché esso «andava
da lui» (Gv 8,2). La condanna e la ventilata lapidazione della donna sono un anticipo
della volontà di morte che nutre i sommi sacerdoti e gli scribi nei confronti
di Gesù: l’adultera è immagine di Cristo che, senza difesa, va incontro alla morte per
mano del potere religioso.
C’è un altro elemento che ci fa propendere per l’attribuzione a Lc del brano dell’adultera
come immagine di Gesù condannato a morte: all’inizio del cap. 21 si
narra della «vedova povera», che Gesù contrappone ai ricchi che gettano nel tesoro
del tempio il loro superfuo, mentre lei vi mette «due monetine», consapevole
di «svuotarsi» di «tutto quello che aveva per vivere» (Lc 21,2.4), della sua
vita stessa. Il suo tutto è il suo nulla che diventa il «tesoro» di Dio che lo accoglie
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1 I codici minuscoli greci raggruppati in f13 (13, 69, 124, 174, 230, 346, 543, 788, 826, 828,
983, 1689, 1709, ecc.) mettono espressamente questo brano a conclusione di Lc 21.
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come il dono più grande, superiore a quello ricco e ampolloso dei benestanti che
metteno cifre ingenti per farsi vedere. Per Gesù è la vedova che rappresenta
degnamente Dio e ne esprime il volto. Dio si è paragonato al seminatore, al
vignaiolo, al pastore, e ora si paragona ad una donna, vedova e addirittura povera.
Questa vedova è il “sacramento” visibile dello “svuotamento” di Dio cantato da
Paolo (cf. Fil 2,5-11), perché nell’intenzione di Gesù la vedova rappresenta Dio e il
suo agire che nel venire incontro all’uomo non ha dato del suo superfuo, ma si è
svuotato di sé per darsi tutto a tutti (cf. Fil 2,7-8; 1Cor 12,6). Il «sacramento»
visibile della persona e dell’agire di Dio non sono i capi che uffcialmente lo
rappresentano, ma una donna appartenente ad una delle tre categorie di
marginalità, tipiche dell’epoca: orfano, vedova, straniero. Come per l'inizio, anche a
conclusione di Lc 21 troviamo esattamente lo stesso scenario: in questo modo si
ha quella che tecnicamente si chiama «inclusione», con cui una donna simboleggia
Dio all’inizio e Cristo alla fne della sezione di Luca, dando unità tematica e
teologica all’intero capitolo e introducendo Lc 22 con la volontà omicida «dei
capi dei sacerdoti e degli scribi».
L’idea che un’adultera come la vedova povera possano essere «rappresentative»
del Dio di Gesù più di coloro che lo dovrebbero manifestare istituzionalmente
appare scandalosa alla mentalità di una religione di consumo, e lo è, come sempre
è scandaloso Gesù nelle sue parole, nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti. Non è
un caso che i benpensanti difensori della morale esteriore, che si scandalizzano
sempre degli altri e mai della loro grettezza interiore e che credono solo in un
dio che è fotocopia del loro modo di vivere e pensare, sono coloro che lo hanno
crocifsso «poiché temevano il popolo» (Lc 22,2).
Gesù non si scaglia contro la donna trattata come una prostituta come fanno i
suoi accusatori e non fa proclami di principio, né si appella ai «valori non negoziabili
» del suo tempo, né esigendo alcun valore come premessa e condizione della
fede. Gesù vede la miseria della donna in balia di esseri feroci, non addossa pesi
ulteriori al terrore che la sventurata porta dentro di sé, ma al contrario, rovesciando
il perbenismo di facciata dell’alta società del suo e di ogni tempo, si fa
prossimo dell'adultera come aveva insegnato nella parabola del samaritano, accostandosi
a lei e fasciandone delicatamente le ferite (cf. Lc 10,33-34) per restituirla
alla sua libertà, che poggia sulla sua dignità di persona (cf. Gv 8,11). Compito della
Chiesa, ieri come oggi, sull’esempio di Gesù non è gridare contro la società secolarizzata
che non tiene conto di Dio, ma quello proprio di rendere visibile Dio attraverso
un atteggiamento di misericordia, ascoltando i bisogni e le fatiche degli
uomini e delle donne di oggi che forse non tengono conto di Dio proprio perché
non riescono a vederlo nelle parole, nei comportamenti e nelle azioni del popolo
cristiano. Inoltre, tutto il cap. 21 di Lc, in cui si inserisce il tema del brano in analisi,
ha molti riferimenti al cap. 13 del profeta Daniele, di cui diventa così un midrash2.
Il profeta racconta di una donna, accusata ingiustamente di adulterio dai capi
del popolo, salvata dall’intervento del giovane Daniele che fa confondere gli accusatori
menzogneri. Per l’autore del vangelo, Gesù si presenta come il nuovo Daniele,
il profeta del «Figlio dell’Uomo» che porta a compimento le «settanta settimane
di anni» di attesa che si realizzano nella misericordia, caratteristica del Regno
di Dio (cf. Dn 7). La novità sta in questo: Daniele giustifca un’innocente, Gesù
salva una «peccatrice» colta in fagrante (cf. Gv 8,4). L’anno di grazia annunciato
nella sinagoga di Nàzaret si realizza perché i peccatori accorrono a lui (cf. Lc 15,1-
2) ed egli annuncia loro la prospettiva del Regno, fondata sul perdono e sulla gratuità.
Se mettiamo a confronto i due racconti vi troviamo molte allusioni reciproche:
v. Gv 8,1-2 v. Dn 13
9 I vecchi accusano l’adultera 28 i due «anziani» accusano Susanna
3 L’adultera è posta «nel mezzo»,
alla gogna
30-33 Susanna è messa alla gogna
in pubblico
5 Si richiede la pena di morte stabilita
dalla Legge di Mosè (Lv
20,10; Dt 22, 22)3
41 Susanna è condannata a
morte in base alla Legge di
Mosè (Lv 20,10; Dt 22, 22)
Questa è la novità che porta Gesù: il giudizio di Dio è grazia, è accoglienza, è misericordia,
è il volto nuovo del Dio della «nuova alleanza». Ora però si crea una
situazione nuova che nessuno aveva previsto: gli accusatori della donna adultera
del vangelo sono i discendenti di quell’assemblea che aveva prima condannato e
poi assolto Susanna (Dn 13,41.60). Gesù salva l’adultera da costoro che hanno dimenticato
la misericordia di Dio. Da un lato Susanna è il simbolo d’Israele e l’adultera
è specchio dell’umanità schiacciata e depressa, dall’altro il Cristo è il nuovo
Daniele che porta non un giudizio di condanna, ma l’abbondanza della misericordia
perché ora non è più un profeta a prendere le difesa di un innocente, ma è
Dio stesso a farsi carico della croce dell’umanità. Gesù è il cireneo (cf. Lc 23,26)
che «porta i pesi» dell’umanità intera, compiendo così la Legge (cf. Gal 6,2). Susan-
2 Dn 13-14 non si trova nella Bibbia ebraica, ma solo nella Bibbia greca, detta “dei LXX”,
che era la Bibbia usata dai primi cristiani come testo di riferimento per l’AT.
3 L’adulterio è punito dalla Toràh con la pena di morte. Il motivo di questa condanna è
semplice: maschio e femmina non esistono separatamente, perché in base a Gen 1,27 essi
formano una «persona» nuova, plurale che si chiama «coppia». Il testo biblico parla
espressamente di «pungente» e «perforata» (maschio e femmina) che costituiscono l’immagine
in cui Dio s’identifca, assumendo così la sessualità come dimensione della identità
spirituale. Se l’uomo e la donna formano un «solo corpo» che vive e rappresenta l’«immagine
» di Dio, l’adulterio è un assassinio di questo «solo corpo» perché spezza in due la
personalità/immagine vivente, cioè la uccide e vi sostituisce una nuova metà che non cor -
risponde alla realtà. L’adulterio è un falso «vivente» che prova a rendere vivo ciò che ha
ucciso: per questo si applica la legge del taglione (cf. Es 21,23-23).
na è immagine del «giusto» Israele che osserva fedelmente la Toràh e per questo
è salvata, ma la sua «giustizia» è ancora legalistica perché si limita ad osservare le
prescrizioni della Legge, mentre l’adultera è per l’autore la vera immagine della
Chiesa perché, al di là del suo peccato e della sua condizione, accetta di restare
sola con Gesù e di compromettersi nelle conseguenze di un incontro di vita (Gv
8,10-11). Susanna è solo restituita alla sua famiglia e al suo onore, l’adultera è restituita
alla sua coscienza e alla sua libera decisione di accettare il cambiamento
di vita che le viene proposto con tenerezza: ora lei appartiene alla sua libertà. Daniele
giudicava in base alla Legge che esamina i comportamenti, Gesù si appella
alla coscienza e la proietta nel mistero di Dio che si incarna nella libertà di ciascuno/
a. Tre donne dunque sono presenti nella penna dell’autore: la vedova povera
che offre liberamente la sua vita, Susanna innocente accusata di adulterio e l’adultera
di fatto salvata per la sua libertà. Tre donne «immagine» del Dio di Gesù,
perché il femminile è capace di accoglienza e di amore gratuito che solo in Dio
trova confronto.
Il gesto di Gesù che scrive per terra (cf. Gv 8,6) ha fatto scrivere fumi di inchiostro.
È solo un gesto spontaneo di uno che, non volendo rispondere alla domanda
trabocchetto degli accusatori, resta soprapensiero, facendo dei ghirigori nella sabbia,
come se stesse prendendo tempo per preparare una risposta adeguata (cf. Gv
8,7). Gli accusatori hanno tre obiettivi: essendo già famoso per essere un impuro
che «accoglie i peccatori e mangia con loro» (cf. Lc 15,2), se Gesù assolve la donna
adultera per la quale è prevista la lapidazione (cf. Lv 20,10; Dt 22, 22), si mette
contro l’autorità della Toràh e può essere accusato di eresia; se, al contrario, condanna
la donna come prescrive la Toràh, egli perde la faccia davanti «al popolo».
Infne potrebbe essere accusato d’insubordinazione presso i Romani che avevano
avocato a sé lo ius gladii, ossia il potere di eseguire esecuzioni capitali.
Gesù si trova nella stessa condizione di quando gli pongono il tranello se sia lecito
pagare o meno le tasse a Cesare (cf. Lc 20,22): in qualsiasi modo avrebbe risposto
sarebbe stato in trappola. Ancora una volta con la sua perspicacia, sfugge
Gesù alla tagliola del legalismo (Gv 8,6). Il gesto oltre ad essere come abbiamo visto
un gesto anonimo per temporeggiare, potrebbe anche avere un signifcato più
profondo. Scrivendo per terra, Gesù si appella all’autorità della Scrittura che gli
accusatori manipolano a modo loro e precisamente al profeta Geremia: «O speranza
d’Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano
da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua
viva» (Ger 17,13). Il gesto di Gesù, muto e solenne, diventa così un gesto profetico
come tante volte aveva fatto lo stesso Geremia che parlava attraverso i suoi gesti
più che con le parole (cf. Ger 27). Scrivendo per terra, Gesù ricorda a coloro che
si arrogano il diritto di essere i mediatori della Scrittura che si sono allontanati
dalla sorgente della vita e si sono lasciati imprigionare dalle catene del legalismo e
della materialità della Toràh. Quando la fede diventa religione è il principio della
fne di ogni spiritualità e il fallimento di ogni religiosità perché si fonda solo sul
materialismo della norma senza anima e senza nemmeno un corpo. Il compito
della Chiesa è offrire sempre sorgenti di acqua viva perché tutti si possano
dissetare nel faticoso e lungo cammino della vita, spesso segnato da prostituzioni
e dal peccato. Tutto deve concorrere a creare le condizioni per un incontro vitale
e reale con il Signore che ama la vita e salva i suoi fgli e fglie.
Tragico è l’epilogo del racconto (cf. Gv 8,9): vanno via per primi i più anziani (gr.:
presbýteroi) che è una delle categorie presenti nel sinedrio, dunque coloro che
dovrebbero essere il modello e l’esempio vivente perché svolgono il ruolo di
«padri». Al contrario, trascinano dietro di sé i giovani e li conducono alla rovina
perché trasmettono se stessi e non il pensiero di Dio, impedendo così a se stessi
e agli altri di accedere alla tavola della misericordia (cf. Lc 11,52-54).
Dopo che tutti, specchiati a tutto tondo nella trasparenza delle parole di Gesù,
sono fuggiti, restano soli la donna e Gesù, una donna e un uomo in rappresentanza
della nuova umanità. Gli apprendisti assassini trascinando la donna per usarla
come tranello contro Gesù, ponendola in mezzo (cf Gv 8,3; gr.: en mèsoi) e quando
fuggono la lasciano lì, sola, e la donna era là nel mezzo (cf. Gv 8,9; gr.: en mèsōi).
Tutto il mondo e tutta l’umanità accolgono la novità: l’uomo che dona il perdono
e la libertà e la donna che accoglie la libertà come frutto del perdono. «In
mezzo» come l’albero della vita che sta «in mezzo» al giardino di Eden (cf. Gen
2,9) e come Gesù è crocifsso «in mezzo» ai due ladroni, immagine di una umanità
derelitta e che chiede di entrare nel Regno (cf. Gv 19,18; Lc 23,39-43).
- pro manuscripto -
sabato 20 marzo 2010
Approfondiamo la Parola domenicale: V domenica di quaresima C - 21 marzo 2010
PAROLA CHE SI FA VITA
Alcuni brani biblici a commento della Parola domenicale:
Alcuni brani biblici a commento della Parola domenicale:
ci aiutano ad accoglierla come avvenimento di salvezza nella nostra vita.
Romani 8,31-38
Romani 8,31-38
Chi mi condannerà?
Luca 7,36-50
Luca 7,36-50
Molto ti è perdonato perché molto hai amato.
Ezechiele 16,1-15.60-63
Io non ti condannerò.
Ezechiele 16,1-15.60-63
Io non ti condannerò.
Efesini 5,1-13.25b-27
Cristo ha amato la Chiesa come sua sposa, dando se stesso
uno spirito da figli.
Ebrei 11,8-10. 17-19
Cristo stabilì l’alleanza nella propria carne e nella prova fu trovato fedele.
uno spirito da figli.
Ebrei 11,8-10. 17-19
Cristo stabilì l’alleanza nella propria carne e nella prova fu trovato fedele.
Etichette:
La Parola che si fa vita
Agenda settimanale: 21 - 28 marzo 2010
AGENDA SETTIMANALE
22 - 28 MARZO 2010
* * *
Lunedì 22, ore 21.00: Messa a Paglieroni
Martedì 23, ore 18.30: Messa in S. Giorgio
Mercoledì 24
GIORNATA DEI MISSIONARI MARTIRI
30 anni del martirio di Oscar A. Romero
Vescovo di San Salvador
ore 18.30: Liturgia della Memoria
ore 21.00: Catechesi comunitaria
GIOVEDÌ 25
ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE A MARIA
ore 18.00: Preghiera del Rosario
ore 18.30: Messa in chiesa p.le
Venerdì 26
ore 18.30: Via Crucis dei martiri miss.ri
Sabato 27
ore 15.30: Via Crucis per i gruppi dell’I.C. alla c.da Puglianna
ore 17.00: Pellegrinaggio dei giovani
da Lanciano a St. Apollinare
22 - 28 MARZO 2010
* * *
Lunedì 22, ore 21.00: Messa a Paglieroni
Martedì 23, ore 18.30: Messa in S. Giorgio
Mercoledì 24
GIORNATA DEI MISSIONARI MARTIRI
30 anni del martirio di Oscar A. Romero
Vescovo di San Salvador
ore 18.30: Liturgia della Memoria
ore 21.00: Catechesi comunitaria
GIOVEDÌ 25
ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE A MARIA
ore 18.00: Preghiera del Rosario
ore 18.30: Messa in chiesa p.le
Venerdì 26
ore 18.30: Via Crucis dei martiri miss.ri
Sabato 27
ore 15.30: Via Crucis per i gruppi dell’I.C. alla c.da Puglianna
ore 17.00: Pellegrinaggio dei giovani
da Lanciano a St. Apollinare
DOMENICA DI PASSIONE
ore 18.30: Messa in chiesa p.le
DOMENICA 28
ore 10.30: Commemorazione de
L’ INGRESSO DI GESÙ A GERUSALEMME
ore 11.00: Benedizione dei rami
e Messa in piazza
La Caritas p.le allestirà un banco
di beneficenza con i dolci pasquali
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Agenda settimanale
Una comunità che celebra: La liturgia domenicale della V Domenica di Quaresima C - 21 marzo 2010
Gesù, il Figlio amato, ci ama senza condizioni
Ci avviamo sempre più verso la notte santa di Pasqua. Oggi come pellegrini che tornano dall’esilio a casa, sostiamo all’oasi della 5a e ultima domenica di Quaresima C, dove riceviamo le parole di consolazione del Secondo Isaia che ci invita a guardare in avanti e in alto perché la Pasqua è vicina.
Alla 1a lettura fa eco il vangelo odierno che è tratto da Giovanni, ma è un aggiunta posteriore inserita nel contesto del IV vangelo: si tratta del racconto della donna accusata di flagrante adulterio da uomini che vogliono lapidarla in nome del formalismo della loro religione, che consiste nell’eseguire alla lettera i dettati della legge di Mosè (cf. Lv 20,10; Dt 22,22-24) senza domandarsi le ragioni e le cause della situazione che stanno giudicando. È il fondamentalismo: osservare ciecamente la legge materiale senza valutarne le condizioni e le circostanze collaterali, senza cuore.
Questa donna è stata «sorpresa in adulterio» (Gv 8,4): è lecito domandarsi come hanno fatto a coglierla in quel momento perché vi sono solo due possibilità: o erano presenti e quindi complici o hanno sbirciato dal buco della serratura. I difensori della morale pubblica, pur di mettere Gesù in difficoltà, non esitano a presentare la donna come un agnello sacrificale su cui scaricare le proprie colpe. La donna non si difende e si staglia come un gigante davanti ai suoi accusatori. Potrebbe fare i nomi dei suoi complici in adulterio, «cominciando dai più anziani» (Gv 8,9), ma non lo fa e si attorciglia nella vergogna della sua colpa resa pubblica per essere un monito esemplare: «I pubblicani e le prostitute gli hanno creduto» (Mt 21,32). L’autore lascia supporre che ce ne sarebbe per tutti: se la donna poteva cominciare ad accusare i suoi «giudici» dalla doppia morale «dai più anziani», significa che poteva proseguire fino ai più giovani, segno che la frequentazione era anche notoria.
Coloro che in pubblico difendono la morale e i «valori non negoziabili» ammantati di cattolicità e pretendono di punire l’adultera (o le prostitute o i clandestini) sono gli stessi che in privato vilipendono quei valori che dovrebbero difendere. Il vangelo di oggi ci dice che è intollerabile questa schizofrenia etica che è principio di deriva e di dissoluzione morale e sociale. Oggi, guardando all’«icona» della povera adultera, non possiamo non essere solidali con tutte le donne che in tutto il mondo sono vittime di violenze sessuali da quegli uomini che subito dopo ne decretano la condanna a morte, anche per lapidazione, purché si salvi la facciata esterna di una morale immorale.
L’insegnamento di Gesù a cui fa eco e da sponda la 1a lettura è semplice: la disperazione non è un sentimento legittimo perché è estraneo al progetto di vita di ogni persona. Il motivo è elementare: di ciascuno di noi Dio si fa carico e quando sembra che tutto sia perduto perché la morte è nelle pietre che sono già nelle mani degli assassini, difensori di moralità effimere, allora e proprio allora si vede all’orizzonte la luce del silenzio di Dio che sembra assente, ma attira e chiama e difende e convoca all’appuntamento con la vita e con la salvezza. Gesù non condanna la donna, ma la protegge come persona e la salva dal moralismo degli amorali giudici improvvisati che esigono il rispetto pubblico della legge nello stesso momento in cui la disattendono in privato. Ieri come oggi. Gesù rimanda quanti presumono di rappresentare Dio alla loro coscienza liberandoli dall’obbedienza passiva ed esteriore alla legge. Impone una riflessione, una valutazione, un giudizio su se stessi (cf. Lc 6,41- 42).
Il brano della lettera di Paolo ai Filippesi si colloca in questo contesto e Paolo ci offre gli strumenti di valutazione e i criteri di discernimento. Forse in origine non faceva parte della lettera e potrebbe essere stato un biglietto autonomo come tutto il capitolo 3 che fu in seguito inserito nella lettera ufficiale. Paolo affronta il tema della sofferenza che può essere vissuta in due modi: passivo e partecipe. Il modo passivo significa subire i colpi della vita, scaricandone le conseguenze sugli altri e reagendo con fastidio e rabbia. Questo modo non solo vanifica la sofferenza nel senso che l’aggrava e le dà più spazio, ma annulla qualsiasi prospettiva di superamento. Il secondo modo è quello attivo: integrare la sofferenza nella vita e viverla come espressione della vita e come momento della fragilità umana, trasformandola in punto di forza e di speranza. Come?
Ricordando che nel passato vi sono stati momenti sereni, gioiosi, anche felici, comunque belli. Se vi sono stati nel passato possono accadere anche oggi e domani, per cui nessuna condizione è definitiva e negativa.
Se la sofferenza è un dolore che appartiene alla vita, possiamo condividerlo con gli altri e in modo particolare, attraverso quel misterioso scambio che appartiene alla mistica del corpo ecclesiale, possiamo condividerlo con Gesù sofferente per amore e per accettazione. Con lui che ha redento la sofferenza e la morte possiamo essere vicini, anche se lontani, con quanti soffrono e patiscono sofferenze ingiuste per mano di altri esseri viventi o per mano di religioni che usurpano il nome santo di Dio. La sofferenza invece di essere buttata via come spazzatura inutile, diventa preghiera di offerta, strumento di comunione, mezzo di partecipazione al mistero della croce che illumina il senso della vita. Soffrire in comunione con Cristo significa raggiungere la «sublimità della conoscenza» (Fil 3,8) della sua persona e della direzione della sua e della nostra vita.
Vivendo l’Eucaristia non adempiamo un rito, non osserviamo un precetto, ma compiamo l’atto d’amore più sublime che il nostro cuore possa immaginare: impariamo la conoscenza di Dio in Gesù Cristo, attraverso il quale apprendiamo a conoscere la misura della nostra stessa vita per essere come lui testimoni credibili della passione di Dio che arde per noi e si consuma fino a farsi Pane e Vino e Parola: una sola comunione perfetta. Lo Spirito Santo che invochiamo con tutto l’anelito della nostra anima, ci apra a questa dimensione e ci mantenga in questa comunione.
INVOCAZIONE PENITENZIALE
Signore, anche a noi dici: Ti perdono molto, perché molto ami.
Signore pietà!
Cristo, anche a noi dici: Non ti condanno, va’ in pace. Non peccare più.
Cristo pietà!
Signore, anche a noi dici: Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori.
Signore pietà!
PREGHIERA DELL’ASSEMBLEA
+ Padre di infinità bontà che in Cristo tutto rinnovi: davanti a te sta la nostra miseria. Tu che hai mandato il tuo Figlio unigenito, non per condannare, ma per salvare l’umanità, risana il nostro cuore ferito e fa' vi che fiorisca il canto della gratitudine e della gioia.
Per il nostro Signore… Amen!
LITURGIA DELLA PAROLA
Dal libro del profeta Isaìa
43, 16-21
Così dice il Signore che aprì
una strada nel mare e un sentiero
in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi a un tempo (…):
«Non ricordate più questi fatti passati,
non pensate più ai fatti antichi!
Ecco, io faccio qualcosa di nuovo:
proprio ora germoglia,
non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto,fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi».
Parola di Dio!
Salmo responsoriale - 125
[Canto: Grandi cose ha fatto il Signore]
1. Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
2. Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
3. Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
4. Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 3,8-14
Fratelli e sorelle. Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Parola di Dio!
Lode e onore a te, Signore Gesù!
Ritornate a me con tutto il cuore, dice il Signore, perché io sono misericordioso e pietoso.
Lode e onore a te, Signore Gesù!
+ Dal vangelo secondo Giovanni
8,1-11
In quel tempo. Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel Tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Parola del Signore!
PROFESSIONE DI FEDE - SIMBOLO APOSTOLICO
Io credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen.
LA PAROLA SI FA PREGHIERA
+ Fratelli e sorelle. Gesù ha la sua vita perché ognuno di noi viva, non più per se stesso, ma per Lui che per noi è morto e risorto. Uniti a Gesù preghiamo:
R./ Rinnovaci con il tuo amore.
- Rinnova la Chiesa: accolga, come te, chi non si sente amato e rispettato perché debole; ti preghiamo.
- Rinnova costantemente tra i popoli “la voce di diritti” e la tolleranza nella difesa di ogni individuo; ti preghiamo.
- Rinnova nella nostra società il senso del bene comune basato sulla giustizia e sulla condivisione; ti preghiamo.
- Rinnova la speranza delle donne costrette alla prostituzione, con nuove prospettive di vita; ti preghiamo.
- Rinnova in ciascuno di noi il desiderio di un nuovo slancio spirituale, vincendo tutto ciò che ci condiziona nella vita quotidiana; ti preghiamo.
- Rinnova nella nostra assemblea l’esperienza del tuo amore senza limiti, che continui ad ardere dentro di noi di fronte ad ogni persona e situazione;
ti preghiamo.
Intenzioni particolari della comunità
DALLA PAROLA ALL’EUCARISTIA
+ Ti ringraziamo, o Padre, perché sei misericordioso e ci perdoni, non con una legge, ma con il cuore del tuo Figlio Gesù che ci ha amati morendo in croce per noi. Egli è la Vita che ci rinnova e ci fa rinascere con la forza di questo Pane e Vino che oggi presentiamo a te. Ora e per sempre. Amen!
PREGHIERA EUCARISTICA - Acclamazioni
+ Prendete, e mangiate… e bevetene tutti…
- Grazie, Gesù che ci vuoi bene!
+ Mistero della fede!
- Tu ci hai rendenti con la tua Croce e la tua Risurrezione.
Salvaci, o Salvatore del mondo!
ALLA COMUNIONE
“Donna, nessuno ti ha condannata?”.
“Nessuno, Signore”.
“Neppure io ti condanno;
d’ora in poi non peccare più”.
Ci avviamo sempre più verso la notte santa di Pasqua. Oggi come pellegrini che tornano dall’esilio a casa, sostiamo all’oasi della 5a e ultima domenica di Quaresima C, dove riceviamo le parole di consolazione del Secondo Isaia che ci invita a guardare in avanti e in alto perché la Pasqua è vicina.
Alla 1a lettura fa eco il vangelo odierno che è tratto da Giovanni, ma è un aggiunta posteriore inserita nel contesto del IV vangelo: si tratta del racconto della donna accusata di flagrante adulterio da uomini che vogliono lapidarla in nome del formalismo della loro religione, che consiste nell’eseguire alla lettera i dettati della legge di Mosè (cf. Lv 20,10; Dt 22,22-24) senza domandarsi le ragioni e le cause della situazione che stanno giudicando. È il fondamentalismo: osservare ciecamente la legge materiale senza valutarne le condizioni e le circostanze collaterali, senza cuore.
Questa donna è stata «sorpresa in adulterio» (Gv 8,4): è lecito domandarsi come hanno fatto a coglierla in quel momento perché vi sono solo due possibilità: o erano presenti e quindi complici o hanno sbirciato dal buco della serratura. I difensori della morale pubblica, pur di mettere Gesù in difficoltà, non esitano a presentare la donna come un agnello sacrificale su cui scaricare le proprie colpe. La donna non si difende e si staglia come un gigante davanti ai suoi accusatori. Potrebbe fare i nomi dei suoi complici in adulterio, «cominciando dai più anziani» (Gv 8,9), ma non lo fa e si attorciglia nella vergogna della sua colpa resa pubblica per essere un monito esemplare: «I pubblicani e le prostitute gli hanno creduto» (Mt 21,32). L’autore lascia supporre che ce ne sarebbe per tutti: se la donna poteva cominciare ad accusare i suoi «giudici» dalla doppia morale «dai più anziani», significa che poteva proseguire fino ai più giovani, segno che la frequentazione era anche notoria.
Coloro che in pubblico difendono la morale e i «valori non negoziabili» ammantati di cattolicità e pretendono di punire l’adultera (o le prostitute o i clandestini) sono gli stessi che in privato vilipendono quei valori che dovrebbero difendere. Il vangelo di oggi ci dice che è intollerabile questa schizofrenia etica che è principio di deriva e di dissoluzione morale e sociale. Oggi, guardando all’«icona» della povera adultera, non possiamo non essere solidali con tutte le donne che in tutto il mondo sono vittime di violenze sessuali da quegli uomini che subito dopo ne decretano la condanna a morte, anche per lapidazione, purché si salvi la facciata esterna di una morale immorale.
L’insegnamento di Gesù a cui fa eco e da sponda la 1a lettura è semplice: la disperazione non è un sentimento legittimo perché è estraneo al progetto di vita di ogni persona. Il motivo è elementare: di ciascuno di noi Dio si fa carico e quando sembra che tutto sia perduto perché la morte è nelle pietre che sono già nelle mani degli assassini, difensori di moralità effimere, allora e proprio allora si vede all’orizzonte la luce del silenzio di Dio che sembra assente, ma attira e chiama e difende e convoca all’appuntamento con la vita e con la salvezza. Gesù non condanna la donna, ma la protegge come persona e la salva dal moralismo degli amorali giudici improvvisati che esigono il rispetto pubblico della legge nello stesso momento in cui la disattendono in privato. Ieri come oggi. Gesù rimanda quanti presumono di rappresentare Dio alla loro coscienza liberandoli dall’obbedienza passiva ed esteriore alla legge. Impone una riflessione, una valutazione, un giudizio su se stessi (cf. Lc 6,41- 42).
Il brano della lettera di Paolo ai Filippesi si colloca in questo contesto e Paolo ci offre gli strumenti di valutazione e i criteri di discernimento. Forse in origine non faceva parte della lettera e potrebbe essere stato un biglietto autonomo come tutto il capitolo 3 che fu in seguito inserito nella lettera ufficiale. Paolo affronta il tema della sofferenza che può essere vissuta in due modi: passivo e partecipe. Il modo passivo significa subire i colpi della vita, scaricandone le conseguenze sugli altri e reagendo con fastidio e rabbia. Questo modo non solo vanifica la sofferenza nel senso che l’aggrava e le dà più spazio, ma annulla qualsiasi prospettiva di superamento. Il secondo modo è quello attivo: integrare la sofferenza nella vita e viverla come espressione della vita e come momento della fragilità umana, trasformandola in punto di forza e di speranza. Come?
Ricordando che nel passato vi sono stati momenti sereni, gioiosi, anche felici, comunque belli. Se vi sono stati nel passato possono accadere anche oggi e domani, per cui nessuna condizione è definitiva e negativa.
Se la sofferenza è un dolore che appartiene alla vita, possiamo condividerlo con gli altri e in modo particolare, attraverso quel misterioso scambio che appartiene alla mistica del corpo ecclesiale, possiamo condividerlo con Gesù sofferente per amore e per accettazione. Con lui che ha redento la sofferenza e la morte possiamo essere vicini, anche se lontani, con quanti soffrono e patiscono sofferenze ingiuste per mano di altri esseri viventi o per mano di religioni che usurpano il nome santo di Dio. La sofferenza invece di essere buttata via come spazzatura inutile, diventa preghiera di offerta, strumento di comunione, mezzo di partecipazione al mistero della croce che illumina il senso della vita. Soffrire in comunione con Cristo significa raggiungere la «sublimità della conoscenza» (Fil 3,8) della sua persona e della direzione della sua e della nostra vita.
Vivendo l’Eucaristia non adempiamo un rito, non osserviamo un precetto, ma compiamo l’atto d’amore più sublime che il nostro cuore possa immaginare: impariamo la conoscenza di Dio in Gesù Cristo, attraverso il quale apprendiamo a conoscere la misura della nostra stessa vita per essere come lui testimoni credibili della passione di Dio che arde per noi e si consuma fino a farsi Pane e Vino e Parola: una sola comunione perfetta. Lo Spirito Santo che invochiamo con tutto l’anelito della nostra anima, ci apra a questa dimensione e ci mantenga in questa comunione.
INVOCAZIONE PENITENZIALE
Signore, anche a noi dici: Ti perdono molto, perché molto ami.
Signore pietà!
Cristo, anche a noi dici: Non ti condanno, va’ in pace. Non peccare più.
Cristo pietà!
Signore, anche a noi dici: Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori.
Signore pietà!
PREGHIERA DELL’ASSEMBLEA
+ Padre di infinità bontà che in Cristo tutto rinnovi: davanti a te sta la nostra miseria. Tu che hai mandato il tuo Figlio unigenito, non per condannare, ma per salvare l’umanità, risana il nostro cuore ferito e fa' vi che fiorisca il canto della gratitudine e della gioia.
Per il nostro Signore… Amen!
LITURGIA DELLA PAROLA
Dal libro del profeta Isaìa
43, 16-21
Così dice il Signore che aprì
una strada nel mare e un sentiero
in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi a un tempo (…):
«Non ricordate più questi fatti passati,
non pensate più ai fatti antichi!
Ecco, io faccio qualcosa di nuovo:
proprio ora germoglia,
non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto,fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi».
Parola di Dio!
Salmo responsoriale - 125
[Canto: Grandi cose ha fatto il Signore]
1. Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
2. Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
3. Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
4. Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 3,8-14
Fratelli e sorelle. Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Parola di Dio!
Lode e onore a te, Signore Gesù!
Ritornate a me con tutto il cuore, dice il Signore, perché io sono misericordioso e pietoso.
Lode e onore a te, Signore Gesù!
+ Dal vangelo secondo Giovanni
8,1-11
In quel tempo. Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel Tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Parola del Signore!
PROFESSIONE DI FEDE - SIMBOLO APOSTOLICO
Io credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen.
LA PAROLA SI FA PREGHIERA
+ Fratelli e sorelle. Gesù ha la sua vita perché ognuno di noi viva, non più per se stesso, ma per Lui che per noi è morto e risorto. Uniti a Gesù preghiamo:
R./ Rinnovaci con il tuo amore.
- Rinnova la Chiesa: accolga, come te, chi non si sente amato e rispettato perché debole; ti preghiamo.
- Rinnova costantemente tra i popoli “la voce di diritti” e la tolleranza nella difesa di ogni individuo; ti preghiamo.
- Rinnova nella nostra società il senso del bene comune basato sulla giustizia e sulla condivisione; ti preghiamo.
- Rinnova la speranza delle donne costrette alla prostituzione, con nuove prospettive di vita; ti preghiamo.
- Rinnova in ciascuno di noi il desiderio di un nuovo slancio spirituale, vincendo tutto ciò che ci condiziona nella vita quotidiana; ti preghiamo.
- Rinnova nella nostra assemblea l’esperienza del tuo amore senza limiti, che continui ad ardere dentro di noi di fronte ad ogni persona e situazione;
ti preghiamo.
Intenzioni particolari della comunità
DALLA PAROLA ALL’EUCARISTIA
+ Ti ringraziamo, o Padre, perché sei misericordioso e ci perdoni, non con una legge, ma con il cuore del tuo Figlio Gesù che ci ha amati morendo in croce per noi. Egli è la Vita che ci rinnova e ci fa rinascere con la forza di questo Pane e Vino che oggi presentiamo a te. Ora e per sempre. Amen!
PREGHIERA EUCARISTICA - Acclamazioni
+ Prendete, e mangiate… e bevetene tutti…
- Grazie, Gesù che ci vuoi bene!
+ Mistero della fede!
- Tu ci hai rendenti con la tua Croce e la tua Risurrezione.
Salvaci, o Salvatore del mondo!
ALLA COMUNIONE
“Donna, nessuno ti ha condannata?”.
“Nessuno, Signore”.
“Neppure io ti condanno;
d’ora in poi non peccare più”.
Giornata dei Martiri Missionari
La mia vita appartiene a voi
+ Oscar Arnulfo Romero
(Vescovo di San Salvador - El Salvador in C. A.)
"Sono spesso stato minacciato di morte... Come pastore sono obbligato, per mandato divino, a dare la vita per coloro che amo, che sono salvadoregni, anche per quelli che mi vogliono uccidere. Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare. Ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita, possa il mio sangue essere semente di libertà e segno che la speranza sarà presto realtà. Se è accetta a Dio, possa la mia morte servire alla liberazione del mio popolo. Perdono e benedico coloro che ne saranno la causa... perderanno il loro tempo: morirà un Vescovo, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non perirà mai”. La chiara coscienza che la propria vita non era sua, rimbalza da questo testamento spirituale, perla del suo essere ed esistere per la Chiesa e per il suo popolo.
Sono passati ormai 30 anni, da quando quel 24 marzo 1980, Romero venne ucciso da un sicario con un colpo al cuore mentre stava celebrando l'Eucaristia nella cappella dell'ospedale della Divina Provvidenza. Nell'omelia aveva ribadito la sua denuncia contro il governo di El Salvador, che aggiornava quotidianamente le mappe dei campi minati mandando avanti bambini che restavano squarciati dalle esplosioni.
Oggi vogliamo ricordare non solo un martire, ma la nostra stessa provenienza, la radice del nostro esistere: veniamo dalla vita, viviamo nella vita e non possiamo possederla, siamo destinati a lasciarla e a donarla pienamente, a tutti.
Quando Mauricio Funes è stato eletto presidente de El Salvador, nel suo discorso ha citato il "suo maestro e guida spirituale" mons. Romero e quando ha fatto il suo nome è scattato un applauso liberatorio, tutti in piedi e con le lacrime agli occhi. Il ricordare produce sempre lacrime, tristezza, ma anche tanta gioia soprattutto per chi rimane, per chi vive ancora la fatica del dover lottare con chi vuole calpestare i diritti elementari della vita. Chi rimane ha più speranza sapendo che qualcuno ci ha creduto davvero e ha dato la sua vita per questo ideale di giustizia, di pace, senza paura, sapendo che con questo esempio altri potranno avere la forza di continuare a lottare. Ancora oggi piangiamo e soffriamo se ricordiamo chi è morto credendo nel valore essenziale della vita, dono prezioso per tutti, e si mette in prima fila per lottare contro chi la vuole sopprimere.
Uno si rende conto così di appartenere alla vita di tutta l’umanità e di dover agire secondo il valore supremo della vita: donarla. Ricordare che Romero è stato ucciso sicuro e convinto che la vita non apparteneva a se stesso ma all’umanità ci fa riflettere ed è per questo che si piange, si pensa, si parla uno con l’altro quasi a cercar certezze, quasi a voler accertarsi che è proprio così: il bene è stato ucciso. Il bene viene ucciso. Ogni volta che qualcuno in nome di questo bene muore, sentiamo anche noi che la nostra vita non ci appartiene, che potrebbe esserci tolta da un momento all’altro se agiamo in nome di questo bene che è la vita, il benessere per tutti. Sono ancora molti quelli che muoiono in nome di Cristo, offrendo il loro sangue a causa della fedeltà al Vangelo (cfr. Mt 5,11-12), seme di un’umanità nuova, perché risorta!
+ Oscar Arnulfo Romero
(Vescovo di San Salvador - El Salvador in C. A.)
"Sono spesso stato minacciato di morte... Come pastore sono obbligato, per mandato divino, a dare la vita per coloro che amo, che sono salvadoregni, anche per quelli che mi vogliono uccidere. Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare. Ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita, possa il mio sangue essere semente di libertà e segno che la speranza sarà presto realtà. Se è accetta a Dio, possa la mia morte servire alla liberazione del mio popolo. Perdono e benedico coloro che ne saranno la causa... perderanno il loro tempo: morirà un Vescovo, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non perirà mai”. La chiara coscienza che la propria vita non era sua, rimbalza da questo testamento spirituale, perla del suo essere ed esistere per la Chiesa e per il suo popolo.
Sono passati ormai 30 anni, da quando quel 24 marzo 1980, Romero venne ucciso da un sicario con un colpo al cuore mentre stava celebrando l'Eucaristia nella cappella dell'ospedale della Divina Provvidenza. Nell'omelia aveva ribadito la sua denuncia contro il governo di El Salvador, che aggiornava quotidianamente le mappe dei campi minati mandando avanti bambini che restavano squarciati dalle esplosioni.
Oggi vogliamo ricordare non solo un martire, ma la nostra stessa provenienza, la radice del nostro esistere: veniamo dalla vita, viviamo nella vita e non possiamo possederla, siamo destinati a lasciarla e a donarla pienamente, a tutti.
Quando Mauricio Funes è stato eletto presidente de El Salvador, nel suo discorso ha citato il "suo maestro e guida spirituale" mons. Romero e quando ha fatto il suo nome è scattato un applauso liberatorio, tutti in piedi e con le lacrime agli occhi. Il ricordare produce sempre lacrime, tristezza, ma anche tanta gioia soprattutto per chi rimane, per chi vive ancora la fatica del dover lottare con chi vuole calpestare i diritti elementari della vita. Chi rimane ha più speranza sapendo che qualcuno ci ha creduto davvero e ha dato la sua vita per questo ideale di giustizia, di pace, senza paura, sapendo che con questo esempio altri potranno avere la forza di continuare a lottare. Ancora oggi piangiamo e soffriamo se ricordiamo chi è morto credendo nel valore essenziale della vita, dono prezioso per tutti, e si mette in prima fila per lottare contro chi la vuole sopprimere.
Uno si rende conto così di appartenere alla vita di tutta l’umanità e di dover agire secondo il valore supremo della vita: donarla. Ricordare che Romero è stato ucciso sicuro e convinto che la vita non apparteneva a se stesso ma all’umanità ci fa riflettere ed è per questo che si piange, si pensa, si parla uno con l’altro quasi a cercar certezze, quasi a voler accertarsi che è proprio così: il bene è stato ucciso. Il bene viene ucciso. Ogni volta che qualcuno in nome di questo bene muore, sentiamo anche noi che la nostra vita non ci appartiene, che potrebbe esserci tolta da un momento all’altro se agiamo in nome di questo bene che è la vita, il benessere per tutti. Sono ancora molti quelli che muoiono in nome di Cristo, offrendo il loro sangue a causa della fedeltà al Vangelo (cfr. Mt 5,11-12), seme di un’umanità nuova, perché risorta!
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CON TUTTA LA CHIESA,
Treglio in cammino
domenica 14 marzo 2010
Approfondiamo la Parola domenicale: Le Lectio del prete Carmine Miccoli
LECTIO DIVINA
“...perché questo era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Luca 15,1-3. 11-32
P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascolta -
re la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnovamento
dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio bene -
detto nei secoli dei secoli. A.: Amen.
L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 15,1-32
(Trad. CEI 2008; tra [ ] le parti omesse dalla liturgia).
1 Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani 2 e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli
scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3 Ed
egli disse loro questa parabola: [4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non
lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
5 Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a casa, chiama gli
amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora,
quella che si era perduta”. 7 Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore
che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
8 Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la
lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9 E dopo averla
trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato
la moneta che avevo perduto”. 10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore che si converte».] 11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
12 Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi
spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane,
raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio
vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel
paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a
mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi
a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i
porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di
mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da
mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20 Si alzò e
tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione,
gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: “Padre, ho
peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo fi -
glio”. 22 Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo
indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso,
ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è
tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. 25 Il figlio
maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica
e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo.
27 Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello
grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28 Egli si indignò, e non voleva entrare.
Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo
da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato
un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il
quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello
grasso”. 31 Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è
tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è
tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Note di esegesi per la comprensione del testo
Sulla parabola del “padre e dei suoi due fgli”, una delle più celebri e commentate
del Vangelo, possiamo dedicare solo qualche sprazzo di esegesi, fermandoci su alcuni
passaggi signifcativi. Una breve parola, anzitutto, sul contesto: il cap. 15 appartiene
solo al vangelo di Lc e comprende due parabole costruite in forma doppia
(uomo-donna/pastore-casalinga e coppia di fratelli), quindi si suppone che derivi
da una fonte conosciuta solo da Lc, che esprime, in un messaggio di straordinaria
forza narrativa e spirituale, la novità perenne del Vangelo della riconciliazione
e dell'amore. Il capitolo si compone di trentadue versetti divisi nettamente in
tre parti: la 1a parte (15,1-2) forma l’ambientazione e offre l’orizzonte per quanto
segue e costituisce un problema rilevante: i pubblicani e i peccatori sono contrapposti
a farisei e scribi. I peccatori e i pubblicani sono in movimento, si avvicinano
a Gesù per «ascoltarlo», mentre i farisei e i pubblicani invece sono fermin nella
loro paura e bloccati dal loro «mormorare». I primi rispondono ad un appello e
sentono di essere bisognosi della Parola, i farisei e gli scribi invece giudicano e accusano
Gesù, che «mangia con i peccatori» (15,2). I primi vanno all’incontro, gli
altri invece sono prigionieri della loro presunzione. I peccatori e i pubblicani riconoscono
la «novità» che li coglie, i farisei e i pubblicani invece sono morti nelle
certezze del loro passato. Questi si ritengono giusti e giudicano i primi impuri e
indegni di stare accanto a loro, i pubblicani e i peccatori si riconoscono per quel -
lo che sono e si lasciano riconciliare da Gesù (cf. 2Cor 5,20). Già questi primi versetti
ci dicono quale sia la posta in gioco: chi si salva, anche i non Ebrei? L’ingresso
nella fede, attraverso la predicazione di Paolo, dei cristiani di origine pagana sconvolse
i cristiani di origine ebraica: qual è il senso della promessa fatta ad Abramo
se anche i «non-fgli» di Abramo ricevono lo Spirito di Dio (cf. At 10)? Qual è il
senso dell’elezione d’Israele a popolo esclusivo di Dio se anche i pagani hanno
accesso alla salvezza, senza alcuna mediazione della Toràh di Mosè? Lc risponde a
queste domande con le due parabole di questo capitolo, che costituiscono la 2a
parte del capitolo con la prima parabola del pastore che ritrova la pecora e della
donna che ritrova la dramma (cf. 15,4-10) e la 3a parte con la seconda parabola del
«padre dalle viscere di madre» dei due fgli perduti (cf. 15,11-32). Molti commenti
parlano di tre parabole, dividendo il racconto del pastore e della pecora smarrita
(15,4-7) da quello della donna e la sua moneta perduta (15,8-10), visti come semplice
preambolo della parabola successiva, comunemente conosciuta come parabola
del fgliol prodigo (15,11-32). Questo è il segno che non si tiene conto della
struttura letteraria e narrativa che, invece, è esplicita e inequivocabile. Il testo,
nella sua struttura interna, ci rivela che le parabole sono solo due: la prima parabola
espone due prospettive, quella maschile e quella femminile, mentre la seconda
descrive gli atteggiamenti simili dei due fgli «perduti» verso il padre, il vero e unico
protagonista della narrazione. Il motivo di questa interpretazione è in Lc 15,3
dove espressamente si dice che Gesù «disse loro questa parabola» declinata
in forma doppia: la prospettiva femminile non è introdotta da un verbo narrativo,
ma da un semplice avverbio, ad esprimere la visione piena che Gesù offre dell'umanità
nella sua totalità e nella sua differenza. Se poi mettiamo in sinossi il testo
della 1a parabola in doppia versione vediamo che il “canovaccio” è lo stesso:
3 Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA:
Uomo Donna
8 Oppure
4 Chi di voi quale donna,
se ha cento pecore se ha dieci dramme [monete]
e ne perde una, e ne perde una,
non lascia le novantanove non accende la lampada
nel deserto e spazza la casa
e va in cerca di quella perduta, e cerca accuratamente
fnché non la trova? fnché non la trova?
5 Quando l’ha trovata, 9 E dopo averla trovata,
pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa
chiama gli amici e i vicini, e dice loro: chiama le amiche e le vicine, e
dice:
“Rallegratevi con me, “Rallegratevi con me,
perché ho trovato perché ho trovato
la mia pecora, quella che si era perduta”. la dramma [moneta] che avevo
perduto”.
7 Io vi dico: così 10 Così, io vi dico,
vi sarà gioia vi è gioia
in cielo davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore che si converte, per un solo peccatore che si converte.
più che per novantanove giusti i quali
non hanno bisogno di conversione.
La 3a parte del capitolo comprende la 2a parabola, che ha la sua struttura fondamentale
nel rapporto tra il padre e il fglio minore (cf. 15,11-24), con la scena
“aperta” che parla del rapporto dello stesso padre con il fglio maggiore (cf.
15,25-32), esprimendo così un prolungamento narrativo che ha lo stesso insegnamento,
ma da un diverso angolo di visuale. Anche qui vi sono due prospettive:
quella del fglio giovane che rappresenta il mondo ellenistico e quella del fglio
«anziano» che rappresenta l’ebraismo e, in negativo, la “religione” perbenista e
esclusiva di ogni tempo.
La parabola, che è una proposta originale di Lc, ci veicola il messaggio della salvezza
come «grazia gratuita», rispecchiando la predicazione di Paolo e la sua
apertura al mondo pagano dei non-circoncisi. Essa può essere considerata il
«cuore» del terzo vangelo, sia perché è quasi al centro del libro, sia perché costituisce
il cuore del messaggio di Gesù secondo la predicazione di Paolo. Esaminiamo
le corrispondenze tra la parabola vera e propria (vv. 11-24) e la seconda parte
(vv. 25-32), riportando i temi fondamentali per la comprensione1:
11 E disse:
Figlio minore (Lc 15,11-24) Figlio maggiore (Lc 15,25-32)
È in casa (= dentro) È nei campi (= fuori)
Lascia la casa (= fuori) Torna a casa (= dentro)
Va’ in un paese lontano Non entra, ma resta «vicino» commensale dei porci.
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1 Il padre fa da perno ai due fgli, che sono speculari, ove l’uno non può esistere senza l’altro,
perché ciascuno è sfondo e premessa per l’altro. Sia nella parte principale (fglio minore)
che nel suo prolungamento (fglio maggiore) la fgura centrale è il padre: tutto ruota
attorno a lui; mentre i fgli fanno i propri interessi, ciascuno dal proprio punto di vista, il
padre è in continuo movimento: corre e si getta addosso al fglio (cf. 15,20), esce incontro
al maggiore (cf. 15, 28). I fgli, ma anche i servi, che pure hanno ricevuto l’ordine di fare in
fretta (cf. 15,22), sembrano immobilizzati e incapaci di essere protagonisti e di affrancarsi
dalla paternità che li sostiene. Questa 2a parabola illustra il tema della misericordia sullo
sfondo della storia della salvezza, mettendo a confronto Israele e Chiesa.
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Tu sei sempre con me (dice il padre)
Il padre gli corse incontro Il padre uscì a chiamarlo
Padre, ho peccato contro di te Non mi hai mai dato un capretto
Il padre fa festa Il padre invita alla festa
perché «questo mio fglio» perché «questo tuo fratello»
° da morto è tornato in vita ° da morto è tornato in vita
° da perduto è ritrovato ° da perduto è ritrovato
I due fgli sono simboli di due atteggiamenti: non solo sono separati dal padre, ma, nella
loro opposizione, vi è tra di loro una somiglianza. Non esiste alcuna comunicazione tra i
due fratelli che non sia distruttiva: dall’atteggiamento del maggiore si capisce che i due si
odiano di tutto cuore, sono stranieri in casa, negando così la fraternità ricevuta, pur vi -
vendo insieme con padre. Il fglio minore è lontano, ma pensa alla casa e ai suoi agi; il fra -
tello, che è sempre in casa, non è mai entrato nell’affetto di famiglia. Non basta «stare fsicamente
» nella Chiesa per «essere col Padre»2.
Tutto il cap. 15 di Lc è probabilmente un midrash di Ger 31, forse in forma di omelia
che commenta il testo del profeta. La comunità cristiana delle origini ha riletto
la profezia di Geremia con gli occhi fssi su Gesù e secondo le sue parole e la sua
vita. Ger 31,31 è il vertice dell’AT, perché il profeta parla di un'alleanza nuova.
Questa espressione agli orecchi di un ebreo suona come una bestemmia, perché
non può esistere una nuova alleanza in sostituzione dell’unica e sola alleanza con
Abramo, solennemente rinnovata al Sinai nel segno della Toràh (cf. Es 19). Eppure
Geremia annuncia una «alleanza nuova» che Gesù assume come caratteristica
della sua missione, svelandone il contenuto della «novità»: la novità di Dio è la
misericordia, che diventa così la cifra del Regno inaugurato da Cristo. Nel momento
più alto della sua vita, quando Gesù si consegna nel memoriale (zikkaron)
del pane e del calice, riprende le parole di Geremia: «Prese il calice e disse: Questo
calice è la nuova alleanza nel mio sangue sparso per voi» (Lc 22,20). Il Dio di
Adamo, di Abramo, di Mosè, il Dio dell’esodo è il Dio di Gesù Cristo che assume
il volto del Padre «misericordioso» (cf. Gv 1,18). Leggendo l’AT i primi cristiani
annotavano in margine i riferimenti alla vita di Gesù e al suo insegnamento e applicavano
le conoscenze e i metodi usati dall’esegesi giudaica. Lc e la sua comunità,
per spiegarci l’agire di Dio come è descritto in Ger 31 e per prospettarci che
anche noi siamo parte della predilezione di Dio, qualunque sia lo stato
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2 È il ribaltamento della situazione: chi crede di essere dentro si trova fuori, chi pensa di
essere fuori invece è dentro. La stessa parentela di sangue (cf. Lc 8,19-21) non è garanzia
suffciente di fede, perché questa non vive di rendita: il fatto di essere prete o vescovo,
monaco/a o laico/a non signifca nulla sul piano della fede se questa non è una adesione libera
e consapevole al Vangelo per rispondere alla grazia dello Spirito Santo (Lc 3,8; Mt
7,21). Gesù prende le distanze dalla famiglia di sangue, mentre elegge a propri consanguinei
coloro che «ascoltano la sua parola» (cf. Lc 8,21; Mc 3,33-35). Per Mc, addirittura, la famiglia
è un ostacolo alla missione di Gesù, tanto che essa lo giudica «fuori di sé», pazzo
(cf. Mc 3,21).
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della nostra condizione, ha espresso in questo racconto il cuore nuovo di Dio stesso che
invita alla festa dell'alleanza ogni creatura che si lasci rinnovare.
Nel testo di Geremia, Èfraim dichiara il suo smarrimento e il suo desiderio di ritornare,
pieno di vergogna e confusione. A tutto ciò Dio risponde con accenti di
tenerezza, dichiarandolo non solo «fglio prediletto» (Ger 31,20), ma evidenziando
la commozione delle sue viscere. Allo stesso modo, il fglio minore della parabola
lucana si pente, fa i suoi calcoli e ritorna alla casa paterna, mentre il padre alla vista
del fglio ancora lontano sente dentro di sé lo scuotimento delle viscere che
quel fglio ha generato (cf. Lc 15,20b). In Geremia la conclusione di questo nuovo
modo di agire di Dio porta ad una alleanza nuova (cf. Ger 31,31) perché non più
scritta sulla freddezza della pietra, ma dentro il calore del cuore, l’unico che sappia
cogliere la novità della vita e l’aspetto sponsale dell’amore (Ger 31,33), un
amore generante e liberante che non solo dà la vita, ma la ridona anche a coloro
che l’hanno perduta.
Ecco alcune suggestioni tratte dal testo:
- il fglio minore, secondo la legge, ha diritto all’usufrutto dei beni, ma non al
patrimonio, di cui può disporre solo alla morte del padre. Chiedendo «quello che
gli spetta», egli invoca la morte del padre prima della morte fsica, con intenzione
omicida. Il fglio vuole la vita stessa del padre, perché gli chiede di fare testamento
e di averne le sostanze senza aspettarne la morte3.
- Il testo greco non dice che il padre spartì le sostanze, ma dice che «divide tra
loro la vita, tòn bìon» (cf. Lc 15,12). Il padre celebra l’eucaristia con i fgli che bramano
la sua morte (cf. Lc 22,19; cf. Mc 14,22). Il padre sa che la sua vita non gli
appartiene perché la sua vita sono i suoi fgli tra i quali la divide. Egli è “condannato”
dalla paternità a morire per essi (cf. Gv 15,13).
- Il fglio, raccolte «tutte le sue cose», non indugia, ma parte «per un paese lontano
», pagano, abbandonando così la terra d’Israele e quindi il tempio, Dio, in una
parola l’alleanza. Andando lontano, infatti, «visse da dissoluto», una traduzione che
non rende la forza traumatica del testo greco che usa l’avverbio di modo asôtos,
che alla lettera signifca «senza salvezza», senza Dio.
- Il fglio minore non sperpera del suo, ma dilapida la vita del padre. Non si
rende conto che egli è scappato lontano dal padre, ma si è portato dietro la sua
vita, che adesso lo segue dovunque egli vada. Il fglio crede di essere «grande» e
non sa che la sua grandezza è nel padre dentro di lui, e il suo peccato è di non vi -
vere con una vita propria, ma con la vita paterna che sta gettando via.
- Il fglio ha «prese tutte le sue cose»; ora si trova «nudo» e vuoto, ha meno di
niente perché si riduce in schiavitù. La carestia è l’evento della storia che dall’esterno
lo costringe a pensare al di là dei progetti originari.
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3 Il termine «patrimonio» di Lc 15,14 in greco si dice ousìa, che deriva dal participio presente
femminile del verbo eimì, “sono”, il verbo dell’esistenza: è un termine che indica la
natura, la verità della persona e la sua vita.
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Non c'è più nulla da sperperare, la vita del padre si è dissolta e non gli resta che affdarsi «ad uno
qualsiasi di quella regione», che non trova di meglio che collocarlo al livello dei
«porci». Il testo greco, infatti, non dice che «si mise al servizio», che è la
condizione dei discepoli, ma che «s’incollò» al padrone dei porci: è il verbo che
esprime l’unione sessuale tra uomo e donna, dunque il verbo dell’intimità che
permette a due affni di aderire l’uno all’altro in vista di una comunione che è
trasfusione di vita. Il degrado è totale: per un ebreo è proibito anche allevare
porci e il contatto con loro rende inabili al culto e impuri. Gli stessi porci non lo
riconoscono perché non gli lasciano nemmeno le carrube che egli pure
desiderava per sfamarsi.
- Il «ritorno a casa» non è un atto di conversione o di pentimento, ma il rimpianto
del benessere: non ha più nulla e rimpiange quello che aveva lasciato. Il
motivo iniziale non è di pentimento, né di amore per il padre, ma un atteggiamento
assolutamente egoista e interessato. Ha sperperato il padre e ora ne vorrebbe
consumare anche le briciole. Non si chiede cosa vive e prova il padre, non pensa
al suo dolore, egli ora vede il «padre» come «padrone»: i salariati stanno meglio
di lui. Preferisce vivere da schiavo sazio, piuttosto che da libero affamato. Egli tor -
na per sé, non torna per amore del padre.
- Anche se la motivazione iniziale di un comportamento spesso non è autentica,
può, però, camminando, specifcarsi e diventare genuina: importante è arrivare
alla fne del percorso e valutare nell’insieme. Una conversione può iniziare in
modo improprio, ma può raggiungere vertici inauditi. Il fglio non torna perché
spinto da motivazioni alte o dal pentimento della sua scellerata scelta e nello
stesso tempo non si accorge che è la forza dell’amore del padre a chiamarlo e a
spingerlo a tornare a casa. È il padre a salvarlo e tenere in vita l’esile flo della relazione
affettiva che lo strapperà dal paese lontano, lo scollerà dal padrone dei
porci e lo riporterà nell’alleanza del tempio dove potrà di nuovo diventare membro
del suo popolo e fglio del comandamento; è la forza della presenza invisibile
del padre che gli fa riprendere la strada del ritorno.
- Il padre non lo vede ancora fsicamente, ma da lontano lo «sente» perché
non ha cessato di avere nel cuore quel fglio insensato. Gli corre incontro e gli
«casca sul collo» (Lc 15,20), cioè gli si butta addosso coprendolo tutto con il suo
corpo. Il verbo greco deriva da epipìpto, verbo onomatopeico che signifca «mi
getto, cado su, scendo sopra» ed esprime irruenza decisa e improvvisa, come se
«precipitasse». Immediatamente prima, il testo dice una cosa straordinaria, perché
spiega il motivo per cui il padre va all’assalto del fglio, investendolo con la
sua persona. Il verbo usato, intraducibile, esplanghnìsthe, viene tradotto poveramente
con «commosso». In greco, splànghna traduce l’ebraico rahamìm, che indica
l’utero materno in procinto di schiudersi per generare. L’idea espressa è la seguente:
il padre riprende quel fglio che gli ha preso la vita e che ora ritorna senza dignità,
lo riaccoglie nel suo ventre paterno/materno e lo rigenera di nuovo.
- Il fglio prova a ripetere il discorsetto che aveva mandato a memoria, ma non
fa in tempo a pronunciarlo perché è invaso dalla valanga della paternità che
strozza anche l’imperfezione della motivazione del fglio. Non è fglio che ritorna
o si pente, ma è il padre che ora lo riprende, alla lettera «lo fa risorgere». Il padre
non ha bisogno delle parole del fglio: gli basta l’amore delle sue viscere. Per la
cultura orientale un padre, o chiunque eserciti l’autorità, che si mette a correre
perde la faccia e la sua credibilità. Il padre non si preoccupa di sé, della sua credibilità
o del suo onore, ma solo del fglio che solo il suo amore ha portato alla
vita. Il fglio prova ad impietosire il padre con la poesia che ha imparato a memoria,
ma il padre non lo lascia fnire e se lo abbraccia, rigenerandolo nuovamente
alla vita. Non è mai padri/madri per caso!
- Segue la gioia, che connota il rito dell’investitura attraverso tre gesti: anello,
veste e calzari sono i simboli che porta l’erede legittimo: l’anello reintroduce nell’eredità,
la veste ridona la dignità di fglio e i calzari restituiscono l’autorità del
comando. Il fglio che non aveva e non avrebbe più alcun diritto, riceve di nuovo
tutto, solo per grazia e per amore.
- Il fglio maggiore, che il testo greco defnisce presbýteros, «più anziano», è peggiore
del fratello minore: è più lontano lui da suo padre che non il fratello che si
è allontanato di casa. Questi se n’era andato lontano fsicamente, mentre il maggiore,
pur stando fsicamente in casa, è sempre stato lontano col cuore, aspettando
che il padre morisse per ereditare la «roba». Tra i due fgli degeneri, il peggiore
è l’anziano, modello di ogni perbenismo interessato e della religione del dovere
che non conosce alcun affato d’amore e di compassione.
- Egli scarica sul padre la sua taccagneria: lui che poteva prendere tutti i capretti
che voleva e quando voleva, non lo ha preso per non impoverire la sua «roba»
e ora accusa il padre della sua grettezza. Forse ha gioito quando il fratello è scappato
via; ora è arrabbiato per il suo ritorno, fno al punto che non vuole entrare
in casa e partecipare alla festa del ritorno. Strano comportamento dei due fgli: il
minore che sembra più spericolato esce ed entra da casa, mentre il maggiore, che
formalmente è sempre in casa, era e rimane fuori, tanto che ancora una volta è il
padre a dovere andargli incontro.
- Il fglio anziano è geloso della salvezza del fratello, che non riconosce come
tale perché non lo chiama mai «mio fratello», ma lo indica sempre come «questo
tuo fglio», fglio del padre: si sente estraneo in casa e sente gli altri estranei a sé
stesso. Il padre, invece, lo rimanda sempre alla fraternità: «questo tuo fratello». A
lui però non importa che il fratello si salvi, gli preme salvare la proprietà di cui è
avido guardiano. Il padre va incontro anche a lui che resta fuori della casa e il testo
ci lascia sospesi, lasciandoci l’amaro in bocca nel timore che quel fglio si sia
rifutato di entrare alla festa della vita.
Questa parabola richiama altre parabole del vangelo: i due fratelli dai
comportamenti rovesciati, quando il padre li manda nella vigna e uno dice no e
poi obbedisce, l’altro dice sì, ma poi non obbidisce (cf. Mt 21,28-31); il fariseo e il
pubblicano al tempio, ove questi in fondo al tempio chiede perdono, mentre il
primo si gonfa di vanagloria (cf. Lc 18,9-14). Un altro elemento che attraversa la
parabola è il capovolgimento delle situazioni: il minore prende il posto del maggiore,
la grazia subentra al diritto. Il procedimento secondo cui il fglio minore subentra
al fratello maggiore ribaltando i diritti naturali della primogenitura è una
costante nella Bibbia tanto da formarne una ossatura. Il comportamento di Dio è
la rivoluzione dei sistemi su cui si regge il mondo degli uomini: chi non ha diritto, è
accolto; chi è escluso, è accettato; chi è condannato, è salvato; chi non conta vale e chi
crede di contare è espulso. È una legge che pervade tutta la Scrittura attraverso celebri
coppie di fratelli: Caino ed Abele (Gen 4,1-20); Esaù e Giacobbe (Gen 25,19-
34); Zerach e Perez (Gen 38); Manasse ed Efraim (Gen 48,14-20); Davide e i suoi
sette fratelli (1Sam 16,1-13). Il cantico di Maria, il Magnifcat, è il punto di arrivo di
questo percorso di salvezza: «ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a
mani vuote i ricchi» (cf. Lc 1,53).
L’insegnamento della parabola non riguarda il rituale di penitenza che di solito si
fa nella Quaresima, prendendo come modello di conversione il «fgliol prodigo»,
che è anche una violenza sul testo. Esso invece riguarda la natura stessa della fede
radicata nella cristologia: con la venuta di Cristo non possono più esistere zone
di emarginazione o categorie di persone escusse. Coloro che sembrano fuori
sono parte dell’amore del Padre e pertanto nella chiesa ci deve essere posto per
tutti, senza esclusione di lingua, popolo, cultura, civiltà. La discriminante è la fede
nel Padre di Gesù Cristo che si svela anche come Madre. Se siamo cristiani non
possiamo che fare una cosa sola: andare sulle strade del mondo e fare come il padre
della parabola lucana perché la Chiesa di Cristo è la casa di tutti, di tutta l’umanità.
L’universalità della fede si traduce nella fecondità dell’amore sconfnato,
un amore senza ragioni e senza paure.
- pro manuscripto -
“...perché questo era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Luca 15,1-3. 11-32
P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascolta -
re la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnovamento
dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio bene -
detto nei secoli dei secoli. A.: Amen.
L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 15,1-32
(Trad. CEI 2008; tra [ ] le parti omesse dalla liturgia).
1 Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani 2 e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli
scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3 Ed
egli disse loro questa parabola: [4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non
lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
5 Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a casa, chiama gli
amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora,
quella che si era perduta”. 7 Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore
che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
8 Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la
lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9 E dopo averla
trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato
la moneta che avevo perduto”. 10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore che si converte».] 11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
12 Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi
spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane,
raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio
vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel
paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a
mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi
a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i
porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di
mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da
mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20 Si alzò e
tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione,
gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: “Padre, ho
peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo fi -
glio”. 22 Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo
indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso,
ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è
tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. 25 Il figlio
maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica
e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo.
27 Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello
grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28 Egli si indignò, e non voleva entrare.
Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo
da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato
un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il
quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello
grasso”. 31 Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è
tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è
tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Note di esegesi per la comprensione del testo
Sulla parabola del “padre e dei suoi due fgli”, una delle più celebri e commentate
del Vangelo, possiamo dedicare solo qualche sprazzo di esegesi, fermandoci su alcuni
passaggi signifcativi. Una breve parola, anzitutto, sul contesto: il cap. 15 appartiene
solo al vangelo di Lc e comprende due parabole costruite in forma doppia
(uomo-donna/pastore-casalinga e coppia di fratelli), quindi si suppone che derivi
da una fonte conosciuta solo da Lc, che esprime, in un messaggio di straordinaria
forza narrativa e spirituale, la novità perenne del Vangelo della riconciliazione
e dell'amore. Il capitolo si compone di trentadue versetti divisi nettamente in
tre parti: la 1a parte (15,1-2) forma l’ambientazione e offre l’orizzonte per quanto
segue e costituisce un problema rilevante: i pubblicani e i peccatori sono contrapposti
a farisei e scribi. I peccatori e i pubblicani sono in movimento, si avvicinano
a Gesù per «ascoltarlo», mentre i farisei e i pubblicani invece sono fermin nella
loro paura e bloccati dal loro «mormorare». I primi rispondono ad un appello e
sentono di essere bisognosi della Parola, i farisei e gli scribi invece giudicano e accusano
Gesù, che «mangia con i peccatori» (15,2). I primi vanno all’incontro, gli
altri invece sono prigionieri della loro presunzione. I peccatori e i pubblicani riconoscono
la «novità» che li coglie, i farisei e i pubblicani invece sono morti nelle
certezze del loro passato. Questi si ritengono giusti e giudicano i primi impuri e
indegni di stare accanto a loro, i pubblicani e i peccatori si riconoscono per quel -
lo che sono e si lasciano riconciliare da Gesù (cf. 2Cor 5,20). Già questi primi versetti
ci dicono quale sia la posta in gioco: chi si salva, anche i non Ebrei? L’ingresso
nella fede, attraverso la predicazione di Paolo, dei cristiani di origine pagana sconvolse
i cristiani di origine ebraica: qual è il senso della promessa fatta ad Abramo
se anche i «non-fgli» di Abramo ricevono lo Spirito di Dio (cf. At 10)? Qual è il
senso dell’elezione d’Israele a popolo esclusivo di Dio se anche i pagani hanno
accesso alla salvezza, senza alcuna mediazione della Toràh di Mosè? Lc risponde a
queste domande con le due parabole di questo capitolo, che costituiscono la 2a
parte del capitolo con la prima parabola del pastore che ritrova la pecora e della
donna che ritrova la dramma (cf. 15,4-10) e la 3a parte con la seconda parabola del
«padre dalle viscere di madre» dei due fgli perduti (cf. 15,11-32). Molti commenti
parlano di tre parabole, dividendo il racconto del pastore e della pecora smarrita
(15,4-7) da quello della donna e la sua moneta perduta (15,8-10), visti come semplice
preambolo della parabola successiva, comunemente conosciuta come parabola
del fgliol prodigo (15,11-32). Questo è il segno che non si tiene conto della
struttura letteraria e narrativa che, invece, è esplicita e inequivocabile. Il testo,
nella sua struttura interna, ci rivela che le parabole sono solo due: la prima parabola
espone due prospettive, quella maschile e quella femminile, mentre la seconda
descrive gli atteggiamenti simili dei due fgli «perduti» verso il padre, il vero e unico
protagonista della narrazione. Il motivo di questa interpretazione è in Lc 15,3
dove espressamente si dice che Gesù «disse loro questa parabola» declinata
in forma doppia: la prospettiva femminile non è introdotta da un verbo narrativo,
ma da un semplice avverbio, ad esprimere la visione piena che Gesù offre dell'umanità
nella sua totalità e nella sua differenza. Se poi mettiamo in sinossi il testo
della 1a parabola in doppia versione vediamo che il “canovaccio” è lo stesso:
3 Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA:
Uomo Donna
8 Oppure
4 Chi di voi quale donna,
se ha cento pecore se ha dieci dramme [monete]
e ne perde una, e ne perde una,
non lascia le novantanove non accende la lampada
nel deserto e spazza la casa
e va in cerca di quella perduta, e cerca accuratamente
fnché non la trova? fnché non la trova?
5 Quando l’ha trovata, 9 E dopo averla trovata,
pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa
chiama gli amici e i vicini, e dice loro: chiama le amiche e le vicine, e
dice:
“Rallegratevi con me, “Rallegratevi con me,
perché ho trovato perché ho trovato
la mia pecora, quella che si era perduta”. la dramma [moneta] che avevo
perduto”.
7 Io vi dico: così 10 Così, io vi dico,
vi sarà gioia vi è gioia
in cielo davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore che si converte, per un solo peccatore che si converte.
più che per novantanove giusti i quali
non hanno bisogno di conversione.
La 3a parte del capitolo comprende la 2a parabola, che ha la sua struttura fondamentale
nel rapporto tra il padre e il fglio minore (cf. 15,11-24), con la scena
“aperta” che parla del rapporto dello stesso padre con il fglio maggiore (cf.
15,25-32), esprimendo così un prolungamento narrativo che ha lo stesso insegnamento,
ma da un diverso angolo di visuale. Anche qui vi sono due prospettive:
quella del fglio giovane che rappresenta il mondo ellenistico e quella del fglio
«anziano» che rappresenta l’ebraismo e, in negativo, la “religione” perbenista e
esclusiva di ogni tempo.
La parabola, che è una proposta originale di Lc, ci veicola il messaggio della salvezza
come «grazia gratuita», rispecchiando la predicazione di Paolo e la sua
apertura al mondo pagano dei non-circoncisi. Essa può essere considerata il
«cuore» del terzo vangelo, sia perché è quasi al centro del libro, sia perché costituisce
il cuore del messaggio di Gesù secondo la predicazione di Paolo. Esaminiamo
le corrispondenze tra la parabola vera e propria (vv. 11-24) e la seconda parte
(vv. 25-32), riportando i temi fondamentali per la comprensione1:
11 E disse:
Figlio minore (Lc 15,11-24) Figlio maggiore (Lc 15,25-32)
È in casa (= dentro) È nei campi (= fuori)
Lascia la casa (= fuori) Torna a casa (= dentro)
Va’ in un paese lontano Non entra, ma resta «vicino» commensale dei porci.
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1 Il padre fa da perno ai due fgli, che sono speculari, ove l’uno non può esistere senza l’altro,
perché ciascuno è sfondo e premessa per l’altro. Sia nella parte principale (fglio minore)
che nel suo prolungamento (fglio maggiore) la fgura centrale è il padre: tutto ruota
attorno a lui; mentre i fgli fanno i propri interessi, ciascuno dal proprio punto di vista, il
padre è in continuo movimento: corre e si getta addosso al fglio (cf. 15,20), esce incontro
al maggiore (cf. 15, 28). I fgli, ma anche i servi, che pure hanno ricevuto l’ordine di fare in
fretta (cf. 15,22), sembrano immobilizzati e incapaci di essere protagonisti e di affrancarsi
dalla paternità che li sostiene. Questa 2a parabola illustra il tema della misericordia sullo
sfondo della storia della salvezza, mettendo a confronto Israele e Chiesa.
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Tu sei sempre con me (dice il padre)
Il padre gli corse incontro Il padre uscì a chiamarlo
Padre, ho peccato contro di te Non mi hai mai dato un capretto
Il padre fa festa Il padre invita alla festa
perché «questo mio fglio» perché «questo tuo fratello»
° da morto è tornato in vita ° da morto è tornato in vita
° da perduto è ritrovato ° da perduto è ritrovato
I due fgli sono simboli di due atteggiamenti: non solo sono separati dal padre, ma, nella
loro opposizione, vi è tra di loro una somiglianza. Non esiste alcuna comunicazione tra i
due fratelli che non sia distruttiva: dall’atteggiamento del maggiore si capisce che i due si
odiano di tutto cuore, sono stranieri in casa, negando così la fraternità ricevuta, pur vi -
vendo insieme con padre. Il fglio minore è lontano, ma pensa alla casa e ai suoi agi; il fra -
tello, che è sempre in casa, non è mai entrato nell’affetto di famiglia. Non basta «stare fsicamente
» nella Chiesa per «essere col Padre»2.
Tutto il cap. 15 di Lc è probabilmente un midrash di Ger 31, forse in forma di omelia
che commenta il testo del profeta. La comunità cristiana delle origini ha riletto
la profezia di Geremia con gli occhi fssi su Gesù e secondo le sue parole e la sua
vita. Ger 31,31 è il vertice dell’AT, perché il profeta parla di un'alleanza nuova.
Questa espressione agli orecchi di un ebreo suona come una bestemmia, perché
non può esistere una nuova alleanza in sostituzione dell’unica e sola alleanza con
Abramo, solennemente rinnovata al Sinai nel segno della Toràh (cf. Es 19). Eppure
Geremia annuncia una «alleanza nuova» che Gesù assume come caratteristica
della sua missione, svelandone il contenuto della «novità»: la novità di Dio è la
misericordia, che diventa così la cifra del Regno inaugurato da Cristo. Nel momento
più alto della sua vita, quando Gesù si consegna nel memoriale (zikkaron)
del pane e del calice, riprende le parole di Geremia: «Prese il calice e disse: Questo
calice è la nuova alleanza nel mio sangue sparso per voi» (Lc 22,20). Il Dio di
Adamo, di Abramo, di Mosè, il Dio dell’esodo è il Dio di Gesù Cristo che assume
il volto del Padre «misericordioso» (cf. Gv 1,18). Leggendo l’AT i primi cristiani
annotavano in margine i riferimenti alla vita di Gesù e al suo insegnamento e applicavano
le conoscenze e i metodi usati dall’esegesi giudaica. Lc e la sua comunità,
per spiegarci l’agire di Dio come è descritto in Ger 31 e per prospettarci che
anche noi siamo parte della predilezione di Dio, qualunque sia lo stato
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2 È il ribaltamento della situazione: chi crede di essere dentro si trova fuori, chi pensa di
essere fuori invece è dentro. La stessa parentela di sangue (cf. Lc 8,19-21) non è garanzia
suffciente di fede, perché questa non vive di rendita: il fatto di essere prete o vescovo,
monaco/a o laico/a non signifca nulla sul piano della fede se questa non è una adesione libera
e consapevole al Vangelo per rispondere alla grazia dello Spirito Santo (Lc 3,8; Mt
7,21). Gesù prende le distanze dalla famiglia di sangue, mentre elegge a propri consanguinei
coloro che «ascoltano la sua parola» (cf. Lc 8,21; Mc 3,33-35). Per Mc, addirittura, la famiglia
è un ostacolo alla missione di Gesù, tanto che essa lo giudica «fuori di sé», pazzo
(cf. Mc 3,21).
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della nostra condizione, ha espresso in questo racconto il cuore nuovo di Dio stesso che
invita alla festa dell'alleanza ogni creatura che si lasci rinnovare.
Nel testo di Geremia, Èfraim dichiara il suo smarrimento e il suo desiderio di ritornare,
pieno di vergogna e confusione. A tutto ciò Dio risponde con accenti di
tenerezza, dichiarandolo non solo «fglio prediletto» (Ger 31,20), ma evidenziando
la commozione delle sue viscere. Allo stesso modo, il fglio minore della parabola
lucana si pente, fa i suoi calcoli e ritorna alla casa paterna, mentre il padre alla vista
del fglio ancora lontano sente dentro di sé lo scuotimento delle viscere che
quel fglio ha generato (cf. Lc 15,20b). In Geremia la conclusione di questo nuovo
modo di agire di Dio porta ad una alleanza nuova (cf. Ger 31,31) perché non più
scritta sulla freddezza della pietra, ma dentro il calore del cuore, l’unico che sappia
cogliere la novità della vita e l’aspetto sponsale dell’amore (Ger 31,33), un
amore generante e liberante che non solo dà la vita, ma la ridona anche a coloro
che l’hanno perduta.
Ecco alcune suggestioni tratte dal testo:
- il fglio minore, secondo la legge, ha diritto all’usufrutto dei beni, ma non al
patrimonio, di cui può disporre solo alla morte del padre. Chiedendo «quello che
gli spetta», egli invoca la morte del padre prima della morte fsica, con intenzione
omicida. Il fglio vuole la vita stessa del padre, perché gli chiede di fare testamento
e di averne le sostanze senza aspettarne la morte3.
- Il testo greco non dice che il padre spartì le sostanze, ma dice che «divide tra
loro la vita, tòn bìon» (cf. Lc 15,12). Il padre celebra l’eucaristia con i fgli che bramano
la sua morte (cf. Lc 22,19; cf. Mc 14,22). Il padre sa che la sua vita non gli
appartiene perché la sua vita sono i suoi fgli tra i quali la divide. Egli è “condannato”
dalla paternità a morire per essi (cf. Gv 15,13).
- Il fglio, raccolte «tutte le sue cose», non indugia, ma parte «per un paese lontano
», pagano, abbandonando così la terra d’Israele e quindi il tempio, Dio, in una
parola l’alleanza. Andando lontano, infatti, «visse da dissoluto», una traduzione che
non rende la forza traumatica del testo greco che usa l’avverbio di modo asôtos,
che alla lettera signifca «senza salvezza», senza Dio.
- Il fglio minore non sperpera del suo, ma dilapida la vita del padre. Non si
rende conto che egli è scappato lontano dal padre, ma si è portato dietro la sua
vita, che adesso lo segue dovunque egli vada. Il fglio crede di essere «grande» e
non sa che la sua grandezza è nel padre dentro di lui, e il suo peccato è di non vi -
vere con una vita propria, ma con la vita paterna che sta gettando via.
- Il fglio ha «prese tutte le sue cose»; ora si trova «nudo» e vuoto, ha meno di
niente perché si riduce in schiavitù. La carestia è l’evento della storia che dall’esterno
lo costringe a pensare al di là dei progetti originari.
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3 Il termine «patrimonio» di Lc 15,14 in greco si dice ousìa, che deriva dal participio presente
femminile del verbo eimì, “sono”, il verbo dell’esistenza: è un termine che indica la
natura, la verità della persona e la sua vita.
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Non c'è più nulla da sperperare, la vita del padre si è dissolta e non gli resta che affdarsi «ad uno
qualsiasi di quella regione», che non trova di meglio che collocarlo al livello dei
«porci». Il testo greco, infatti, non dice che «si mise al servizio», che è la
condizione dei discepoli, ma che «s’incollò» al padrone dei porci: è il verbo che
esprime l’unione sessuale tra uomo e donna, dunque il verbo dell’intimità che
permette a due affni di aderire l’uno all’altro in vista di una comunione che è
trasfusione di vita. Il degrado è totale: per un ebreo è proibito anche allevare
porci e il contatto con loro rende inabili al culto e impuri. Gli stessi porci non lo
riconoscono perché non gli lasciano nemmeno le carrube che egli pure
desiderava per sfamarsi.
- Il «ritorno a casa» non è un atto di conversione o di pentimento, ma il rimpianto
del benessere: non ha più nulla e rimpiange quello che aveva lasciato. Il
motivo iniziale non è di pentimento, né di amore per il padre, ma un atteggiamento
assolutamente egoista e interessato. Ha sperperato il padre e ora ne vorrebbe
consumare anche le briciole. Non si chiede cosa vive e prova il padre, non pensa
al suo dolore, egli ora vede il «padre» come «padrone»: i salariati stanno meglio
di lui. Preferisce vivere da schiavo sazio, piuttosto che da libero affamato. Egli tor -
na per sé, non torna per amore del padre.
- Anche se la motivazione iniziale di un comportamento spesso non è autentica,
può, però, camminando, specifcarsi e diventare genuina: importante è arrivare
alla fne del percorso e valutare nell’insieme. Una conversione può iniziare in
modo improprio, ma può raggiungere vertici inauditi. Il fglio non torna perché
spinto da motivazioni alte o dal pentimento della sua scellerata scelta e nello
stesso tempo non si accorge che è la forza dell’amore del padre a chiamarlo e a
spingerlo a tornare a casa. È il padre a salvarlo e tenere in vita l’esile flo della relazione
affettiva che lo strapperà dal paese lontano, lo scollerà dal padrone dei
porci e lo riporterà nell’alleanza del tempio dove potrà di nuovo diventare membro
del suo popolo e fglio del comandamento; è la forza della presenza invisibile
del padre che gli fa riprendere la strada del ritorno.
- Il padre non lo vede ancora fsicamente, ma da lontano lo «sente» perché
non ha cessato di avere nel cuore quel fglio insensato. Gli corre incontro e gli
«casca sul collo» (Lc 15,20), cioè gli si butta addosso coprendolo tutto con il suo
corpo. Il verbo greco deriva da epipìpto, verbo onomatopeico che signifca «mi
getto, cado su, scendo sopra» ed esprime irruenza decisa e improvvisa, come se
«precipitasse». Immediatamente prima, il testo dice una cosa straordinaria, perché
spiega il motivo per cui il padre va all’assalto del fglio, investendolo con la
sua persona. Il verbo usato, intraducibile, esplanghnìsthe, viene tradotto poveramente
con «commosso». In greco, splànghna traduce l’ebraico rahamìm, che indica
l’utero materno in procinto di schiudersi per generare. L’idea espressa è la seguente:
il padre riprende quel fglio che gli ha preso la vita e che ora ritorna senza dignità,
lo riaccoglie nel suo ventre paterno/materno e lo rigenera di nuovo.
- Il fglio prova a ripetere il discorsetto che aveva mandato a memoria, ma non
fa in tempo a pronunciarlo perché è invaso dalla valanga della paternità che
strozza anche l’imperfezione della motivazione del fglio. Non è fglio che ritorna
o si pente, ma è il padre che ora lo riprende, alla lettera «lo fa risorgere». Il padre
non ha bisogno delle parole del fglio: gli basta l’amore delle sue viscere. Per la
cultura orientale un padre, o chiunque eserciti l’autorità, che si mette a correre
perde la faccia e la sua credibilità. Il padre non si preoccupa di sé, della sua credibilità
o del suo onore, ma solo del fglio che solo il suo amore ha portato alla
vita. Il fglio prova ad impietosire il padre con la poesia che ha imparato a memoria,
ma il padre non lo lascia fnire e se lo abbraccia, rigenerandolo nuovamente
alla vita. Non è mai padri/madri per caso!
- Segue la gioia, che connota il rito dell’investitura attraverso tre gesti: anello,
veste e calzari sono i simboli che porta l’erede legittimo: l’anello reintroduce nell’eredità,
la veste ridona la dignità di fglio e i calzari restituiscono l’autorità del
comando. Il fglio che non aveva e non avrebbe più alcun diritto, riceve di nuovo
tutto, solo per grazia e per amore.
- Il fglio maggiore, che il testo greco defnisce presbýteros, «più anziano», è peggiore
del fratello minore: è più lontano lui da suo padre che non il fratello che si
è allontanato di casa. Questi se n’era andato lontano fsicamente, mentre il maggiore,
pur stando fsicamente in casa, è sempre stato lontano col cuore, aspettando
che il padre morisse per ereditare la «roba». Tra i due fgli degeneri, il peggiore
è l’anziano, modello di ogni perbenismo interessato e della religione del dovere
che non conosce alcun affato d’amore e di compassione.
- Egli scarica sul padre la sua taccagneria: lui che poteva prendere tutti i capretti
che voleva e quando voleva, non lo ha preso per non impoverire la sua «roba»
e ora accusa il padre della sua grettezza. Forse ha gioito quando il fratello è scappato
via; ora è arrabbiato per il suo ritorno, fno al punto che non vuole entrare
in casa e partecipare alla festa del ritorno. Strano comportamento dei due fgli: il
minore che sembra più spericolato esce ed entra da casa, mentre il maggiore, che
formalmente è sempre in casa, era e rimane fuori, tanto che ancora una volta è il
padre a dovere andargli incontro.
- Il fglio anziano è geloso della salvezza del fratello, che non riconosce come
tale perché non lo chiama mai «mio fratello», ma lo indica sempre come «questo
tuo fglio», fglio del padre: si sente estraneo in casa e sente gli altri estranei a sé
stesso. Il padre, invece, lo rimanda sempre alla fraternità: «questo tuo fratello». A
lui però non importa che il fratello si salvi, gli preme salvare la proprietà di cui è
avido guardiano. Il padre va incontro anche a lui che resta fuori della casa e il testo
ci lascia sospesi, lasciandoci l’amaro in bocca nel timore che quel fglio si sia
rifutato di entrare alla festa della vita.
Questa parabola richiama altre parabole del vangelo: i due fratelli dai
comportamenti rovesciati, quando il padre li manda nella vigna e uno dice no e
poi obbedisce, l’altro dice sì, ma poi non obbidisce (cf. Mt 21,28-31); il fariseo e il
pubblicano al tempio, ove questi in fondo al tempio chiede perdono, mentre il
primo si gonfa di vanagloria (cf. Lc 18,9-14). Un altro elemento che attraversa la
parabola è il capovolgimento delle situazioni: il minore prende il posto del maggiore,
la grazia subentra al diritto. Il procedimento secondo cui il fglio minore subentra
al fratello maggiore ribaltando i diritti naturali della primogenitura è una
costante nella Bibbia tanto da formarne una ossatura. Il comportamento di Dio è
la rivoluzione dei sistemi su cui si regge il mondo degli uomini: chi non ha diritto, è
accolto; chi è escluso, è accettato; chi è condannato, è salvato; chi non conta vale e chi
crede di contare è espulso. È una legge che pervade tutta la Scrittura attraverso celebri
coppie di fratelli: Caino ed Abele (Gen 4,1-20); Esaù e Giacobbe (Gen 25,19-
34); Zerach e Perez (Gen 38); Manasse ed Efraim (Gen 48,14-20); Davide e i suoi
sette fratelli (1Sam 16,1-13). Il cantico di Maria, il Magnifcat, è il punto di arrivo di
questo percorso di salvezza: «ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a
mani vuote i ricchi» (cf. Lc 1,53).
L’insegnamento della parabola non riguarda il rituale di penitenza che di solito si
fa nella Quaresima, prendendo come modello di conversione il «fgliol prodigo»,
che è anche una violenza sul testo. Esso invece riguarda la natura stessa della fede
radicata nella cristologia: con la venuta di Cristo non possono più esistere zone
di emarginazione o categorie di persone escusse. Coloro che sembrano fuori
sono parte dell’amore del Padre e pertanto nella chiesa ci deve essere posto per
tutti, senza esclusione di lingua, popolo, cultura, civiltà. La discriminante è la fede
nel Padre di Gesù Cristo che si svela anche come Madre. Se siamo cristiani non
possiamo che fare una cosa sola: andare sulle strade del mondo e fare come il padre
della parabola lucana perché la Chiesa di Cristo è la casa di tutti, di tutta l’umanità.
L’universalità della fede si traduce nella fecondità dell’amore sconfnato,
un amore senza ragioni e senza paure.
- pro manuscripto -
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La Parola che si fa vita
Approfondiamo la Parola domenicale: IV domenica di quaresima C - 7 marzo 2010
Parola che si fa Vita
Alcuni brani biblici a commento della Parola domenicale:
ci aiutano ad accoglierla come avvenimento di salvezza nella nostra vita.
Gàlati 4,6-9; 5,1.13-2
Gàlati 4,6-9; 5,1.13-2
Siamo figli di Dio. In noi il suo Spirito grida: Padre!
1Giovanni 4,8-21
1Giovanni 4,8-21
Dio è amore!
Osèa 11,1-9
Osèa 11,1-9
Io amai Israele e dall’Egitto richiamai mio figlio.
Romani 8,1-13
Avete ricevuto in dono uno spirito da figli
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La Parola che si fa vita
Agenda settimanale: 15 - 21 marzo 2010
Agenda settimanale
15 - 21 Marzo 2010
* * *
Lunedì 15, ore 21.00: Messa a Paglieroni
Martedì 16, ore 18.30: Messa in S. Giorgio
ore 21.00: Consiglio affari economici
Mercoledì 17
ore 21.00: Catechesi comunitaria
Giovedì 18, ore 18.30: Messa in chiesa p.e
Venerdì 19 - San Giuseppe
ore 18.00: Via Crucis
ore 18.30: Messa in chiesa p.le
ore 21.00: Preparazione al Matrimonio
Sabato 20
ore 15.00: Gruppo Nazaret
GENITORI ed EUCATORI
ore 15.30: Curia di Lanciano:
“Educare all’amore” (E. Aceti)
V Domenica di Quaresima C
ore 18.30: Messa in chiesa p.le
Domenica 21
ore 9.00: Messa in san Giorgio
ore 11.00: Messa in chiesa p.le
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Una comunità che celebra: La liturgia domenicale della IV Domenica di Quaresima C - 14 marzo 2010
GESU’ il FIGLIO, fa festa per noi con il PADRE
La 4a domenica di Quaresima è improntata al tema della gioia. Anticamente in questo
giorno si interrompeva il digiuno che caratterizzava la Quaresima perché segna la metà
del cammino penitenziale. La prima parola della liturgia è «Laetare, rallegrati!», che apre
l’antifona d’ingresso, tratta da due versetti del Terzo Isaia (Is 66,10-11). Il tema della
gioia è anche il cuore della parabola del «padre di due figli» ribelli, riduttivamente conosciuta
come parabola del figliol prodigo. Al brano di Lc si potrebbero dare molti titoli,
nessuno dei quali ha esaurito la prospettiva del racconto evangelico; quello però
che si può dire con certezza è che questa parabola contiene il cuore del messaggio
evangelico e si potrebbe sintetizzare come «annuncio di gioia» perché il comportamento
di Gesù è scandaloso agli occhi del perbenismo moralistico e puritano: egli accoglie,
s’intrattiene e parla e mangia con la feccia dell’umanità del suo e di ogni tempo.
Tutti/e coloro che erano al suo tempo condannati, evitati, emarginati, vilipesi, violati e
odiati diventano i privilegiati del suo vangelo, i beniamini della sua predicazione di un
messaggio pieno di speranza e di gioia. Il tema della gioia, infatti, percorre l’intero capitolo
15 di Lc dall’inizio alla fine, ricorrendo ben otto volte (cf. Lc 15,5-
6.7.9.10.23.24.32).
Le lettura di questa liturgia sono caratterizzate dal «ritorno a casa»: il popolo d’Israele
torna a casa, cioè prende possesso della promessa dell’alleanza dopo 400 anni di esilio
in terra di Egitto e 40 anni di peregrinazione nomade nel deserto; il figlio più giovane
della parabola lucana lascia la casa e va in esilio in terra lontana, che scambia per terra
della sua libertà, confondendo, come i suoi antenati, la libertà con le cipolle e i cocomeri
d’Egitto (cf. Nm 11,5-6), barattando la realtà della sua casa e di suo padre con ciò
che è lontano e che ancora non esiste, se non nella sua immaginazione. Lontano dal
padre, però, egli perde il residuo di libertà che aveva e sperimenta la schiavitù, scivolando
fino all’abisso dell’impurità totale, ritrovandosi a pascolare i porci che la Toràh
proibisce di mangiare e di toccare perché «immondi» (cf. Dt 14,8). Il figlio ormai schiavo
ha nostalgia non della casa di suo padre, ma del benessere che in essa aveva sperimento;
egli non torna per amore del padre che vede come padrone, ma per necessità,
per sfamare la fame (cf. Lc 15,17). Anche se con motivazione insufficiente, torna a
casa, spinto non dalla sua disposizione del cuore, ma dalla forza del padre che non lo
ha mai abbandonato e che come una calamita lo attrae a sé sempre di più. La chiave
del «ritorno a casa» dovrebbe essere la consapevolezza del proprio stato come situazione
di malessere e rimpianto di ciò che si è perduto e volere riprendere le relazioni
spezzate. La Bibbia definisce ciò come «conversione», che in ebraico deriva dal verbo
shûb che contiene l’idea del cambiamento di rotta, dopo una discussione a cui segue un
giudizio. Da esso deriva il sostantivo teshuvàh, che letteralmente significa «risposta»,
dopo aver preso coscienza della realtà e dopo avervi ragionato.
Nella 2a lettura Paolo fa un passo avanti e definisce la «conversione/ritorno» come «ri -
conciliazione», usando il verbo katallàsso, che indica una successione temporale di cambiamento.
Nella lettura di oggi il verbo ricorre tre volte, più due volte con il sostantivo
katallagê, «cambiamento/riconciliazione». In 2Cor 5,20 si trova con un significato particolare,
perché Paolo usa il verbo passivo, «lasciatevi riconciliare», radicando l’intervento
decisivo del cambiamento non nello sforzo o nella volontà della persona, ma nella
natura stessa di Dio, perché è lui che converte, che cambia, che riconcilia (cf. 2Cor
5,18-20). La conversione non è un atteggiamento morale basato sulla volontà, ma una
disponibilità ad entrare nella riconciliazione come opera di Dio per mezzo di Gesù
Cristo. Il profeta Geremia avrebbe usato l’immagine della creta nelle mani del vasaio
che la modella e rimodella finché non trova la forma giusta (cf. Ger 18,6; Sir 33,13). La
conversione, come la intende Paolo, è un atto cristologico e da parte dell’uomo
acquista il senso antropologico di disponibilità all’incontro che genera il cambiamento
(cf. 2Cor 5,17-18). Nella stessa parabola lucana c'è, al centro, questa visione teologica,
che ha permesso ai giudeo-cristiani di accogliere i credenti provenienti dal mondo
pagano. L’accoglienza incondizionata di ogni uomo e donna è conseguenza diretta
della fede nel Dio di Gesù Cristo che non fa differenza tra «giudei e greci». Una sola è
la discriminante: accogliere o rifiutare Cristo (cf. Gv 3,18).
La Quaresima è il tempo dell’accoglienza di Dio che non guarda la nostra etnia, la nostra
cultura, le nostre condizioni personali: egli irrompe nella nostra vita e ci chiede di
accettare la scommessa dell’amore. Chi ama cambia se stesso per adeguarsi alla persona
amata alla quale non chiede alcunché come contropartita, ma solo la gioia di la -
sciarsi amare. Solo chi ama sa abituarsi al cambiamento e sa viverlo come atto d’amore
che noi sperimentiamo nell’Eucaristia e che anticipiamo come premessa e promessa
del mondo futuro che è la dimensione dello Spirito Santo che invochiamo.
Invocazione penitenziale
Signore, lontani da te e soli ci siamo smarriti; abbi pietà di noi.
Signore pietà!
Cristo, come figli ribelli ci siamo allontanati dal Padre e siamo divenuti schiavi; abbi pietà di noi. Cristo pietà!
Signore, non siamo capaci di perdonare gli altri quando sbagliano;
abbi pietà di noi.
Signore pietà!
Preghiera dell’Assemblea
+ O Dio, Padre buono e grande nel perdono, accogli nell'abbraccio del tuo amore i figli che tornano a te con tutto il cuore. Ricoprili delle splendide vesti di salvezza, perché possano gustare la tua gioia nella cena pasquale dell'Agnello, Gesù Cristo… Amen!
LITURGIA DELLA PAROLA
Dal libro di Giosuè
5, 9...12
In quei giorni. Il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l'infamia d'Egitto». Gli Israeliti si accamparono a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico (…) Il giorno dopo gli Israeliti non ebbero più manna; quell'anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. Parola di Dio!
Salmo responsoriale - 33
R./ Bonum est confidere in Domino. Bonum sperare in Domino!
1. Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
2. Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.
3. Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 5, 17...21
Fratelli e sorelle. Se uno è unito a Cristo è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo ed ha affidato a noi l’annuncio della riconciliazione con lui. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori, per mezzo nostro è Dio stesso che ci esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Cristo non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché per mezzo di lui noi potessimo ritrovare un nuovo rapporto con Lui.
Parola di Dio!
Gloria e lode a te, Signore Gesù!
Mi alzerò e andrò da mio Padre e
gli dirò: Padre, ho peccato davanti a te.
Gloria e lode a te, Signore Gesù!
+ Dal vangelo secondo Luca
15, 1-3.11-32
Gli esattori delle tasse e la gente di cattiva reputazione si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo. I farisei e i maestri della Legge mormoravano: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Allora egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi il patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sue sostanze.
Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gli dava nulla.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti dipendenti di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Ritornerò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati. Si mise in cammino verso suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio che ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Parola del Signore!
Professione di Fede - Simbolo Apostolico
Io credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen.
la Parola si fa Preghiera
+ Fratelli e sorelle, Gesù oggi ci annuncia e ci comunica la misericordia del Padre, il perdono che tutti cerchiamo. Uniti a tutti i credenti in Cristo preghiamo: - Accoglici in te, o Padre!
- La Chiesa manifesti sempre il cuore del Vangelo: la misericordia del Padre verso ogni essere umano, preghiamo.
- I governanti, con coraggio e costanza, promuovano sempre la pace al di là di ogni conflitto e rivalità tra i popoli, preghiamo.
- I giovani sappiano di poter trovare sempre nei genitori persone che li attendono con pazienza e fiducia, preghiamo.
- I genitori, di fronte alle scelte dei figli non si scoraggino, ma diano fiducia e liberi orientamenti, con responsabilità e speranza, preghiamo.
- In questa quaresima, lo Spirito santo ci aiuti a riscoprire il sacramento del Perdono, fonte di riconciliazione tra noi, preghiamo.
dalla Parola all’ Eucaristica
Ti ringraziamo, o Padre che ci ami senza limiti, per il Pane che in abbondanza ci doni quando torniamo a te: è il corpo di Gesù, nostro fratello maggiore. Nel tuo Spirito ci rallegriamo e facciamo festa, perché eravamo morti e ci hai riportati alla Vita. Ora e per sempre. Amen!
Preghiera Eucaristica - Acclamazioni
+ Prendete, e mangiate… e bevetene tutti…
- Grazie, Gesù che ci vuoi bene!
+ Mistero della fede!
- Tu ci hai rendenti con la tua Croce
e la tua Risurrezione.
Salvaci, o Salvatore del mondo!
alla Comunione
“Rallegrati, figlio mio, perché tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
La 4a domenica di Quaresima è improntata al tema della gioia. Anticamente in questo
giorno si interrompeva il digiuno che caratterizzava la Quaresima perché segna la metà
del cammino penitenziale. La prima parola della liturgia è «Laetare, rallegrati!», che apre
l’antifona d’ingresso, tratta da due versetti del Terzo Isaia (Is 66,10-11). Il tema della
gioia è anche il cuore della parabola del «padre di due figli» ribelli, riduttivamente conosciuta
come parabola del figliol prodigo. Al brano di Lc si potrebbero dare molti titoli,
nessuno dei quali ha esaurito la prospettiva del racconto evangelico; quello però
che si può dire con certezza è che questa parabola contiene il cuore del messaggio
evangelico e si potrebbe sintetizzare come «annuncio di gioia» perché il comportamento
di Gesù è scandaloso agli occhi del perbenismo moralistico e puritano: egli accoglie,
s’intrattiene e parla e mangia con la feccia dell’umanità del suo e di ogni tempo.
Tutti/e coloro che erano al suo tempo condannati, evitati, emarginati, vilipesi, violati e
odiati diventano i privilegiati del suo vangelo, i beniamini della sua predicazione di un
messaggio pieno di speranza e di gioia. Il tema della gioia, infatti, percorre l’intero capitolo
15 di Lc dall’inizio alla fine, ricorrendo ben otto volte (cf. Lc 15,5-
6.7.9.10.23.24.32).
Le lettura di questa liturgia sono caratterizzate dal «ritorno a casa»: il popolo d’Israele
torna a casa, cioè prende possesso della promessa dell’alleanza dopo 400 anni di esilio
in terra di Egitto e 40 anni di peregrinazione nomade nel deserto; il figlio più giovane
della parabola lucana lascia la casa e va in esilio in terra lontana, che scambia per terra
della sua libertà, confondendo, come i suoi antenati, la libertà con le cipolle e i cocomeri
d’Egitto (cf. Nm 11,5-6), barattando la realtà della sua casa e di suo padre con ciò
che è lontano e che ancora non esiste, se non nella sua immaginazione. Lontano dal
padre, però, egli perde il residuo di libertà che aveva e sperimenta la schiavitù, scivolando
fino all’abisso dell’impurità totale, ritrovandosi a pascolare i porci che la Toràh
proibisce di mangiare e di toccare perché «immondi» (cf. Dt 14,8). Il figlio ormai schiavo
ha nostalgia non della casa di suo padre, ma del benessere che in essa aveva sperimento;
egli non torna per amore del padre che vede come padrone, ma per necessità,
per sfamare la fame (cf. Lc 15,17). Anche se con motivazione insufficiente, torna a
casa, spinto non dalla sua disposizione del cuore, ma dalla forza del padre che non lo
ha mai abbandonato e che come una calamita lo attrae a sé sempre di più. La chiave
del «ritorno a casa» dovrebbe essere la consapevolezza del proprio stato come situazione
di malessere e rimpianto di ciò che si è perduto e volere riprendere le relazioni
spezzate. La Bibbia definisce ciò come «conversione», che in ebraico deriva dal verbo
shûb che contiene l’idea del cambiamento di rotta, dopo una discussione a cui segue un
giudizio. Da esso deriva il sostantivo teshuvàh, che letteralmente significa «risposta»,
dopo aver preso coscienza della realtà e dopo avervi ragionato.
Nella 2a lettura Paolo fa un passo avanti e definisce la «conversione/ritorno» come «ri -
conciliazione», usando il verbo katallàsso, che indica una successione temporale di cambiamento.
Nella lettura di oggi il verbo ricorre tre volte, più due volte con il sostantivo
katallagê, «cambiamento/riconciliazione». In 2Cor 5,20 si trova con un significato particolare,
perché Paolo usa il verbo passivo, «lasciatevi riconciliare», radicando l’intervento
decisivo del cambiamento non nello sforzo o nella volontà della persona, ma nella
natura stessa di Dio, perché è lui che converte, che cambia, che riconcilia (cf. 2Cor
5,18-20). La conversione non è un atteggiamento morale basato sulla volontà, ma una
disponibilità ad entrare nella riconciliazione come opera di Dio per mezzo di Gesù
Cristo. Il profeta Geremia avrebbe usato l’immagine della creta nelle mani del vasaio
che la modella e rimodella finché non trova la forma giusta (cf. Ger 18,6; Sir 33,13). La
conversione, come la intende Paolo, è un atto cristologico e da parte dell’uomo
acquista il senso antropologico di disponibilità all’incontro che genera il cambiamento
(cf. 2Cor 5,17-18). Nella stessa parabola lucana c'è, al centro, questa visione teologica,
che ha permesso ai giudeo-cristiani di accogliere i credenti provenienti dal mondo
pagano. L’accoglienza incondizionata di ogni uomo e donna è conseguenza diretta
della fede nel Dio di Gesù Cristo che non fa differenza tra «giudei e greci». Una sola è
la discriminante: accogliere o rifiutare Cristo (cf. Gv 3,18).
La Quaresima è il tempo dell’accoglienza di Dio che non guarda la nostra etnia, la nostra
cultura, le nostre condizioni personali: egli irrompe nella nostra vita e ci chiede di
accettare la scommessa dell’amore. Chi ama cambia se stesso per adeguarsi alla persona
amata alla quale non chiede alcunché come contropartita, ma solo la gioia di la -
sciarsi amare. Solo chi ama sa abituarsi al cambiamento e sa viverlo come atto d’amore
che noi sperimentiamo nell’Eucaristia e che anticipiamo come premessa e promessa
del mondo futuro che è la dimensione dello Spirito Santo che invochiamo.
Invocazione penitenziale
Signore, lontani da te e soli ci siamo smarriti; abbi pietà di noi.
Signore pietà!
Cristo, come figli ribelli ci siamo allontanati dal Padre e siamo divenuti schiavi; abbi pietà di noi. Cristo pietà!
Signore, non siamo capaci di perdonare gli altri quando sbagliano;
abbi pietà di noi.
Signore pietà!
Preghiera dell’Assemblea
+ O Dio, Padre buono e grande nel perdono, accogli nell'abbraccio del tuo amore i figli che tornano a te con tutto il cuore. Ricoprili delle splendide vesti di salvezza, perché possano gustare la tua gioia nella cena pasquale dell'Agnello, Gesù Cristo… Amen!
LITURGIA DELLA PAROLA
Dal libro di Giosuè
5, 9...12
In quei giorni. Il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l'infamia d'Egitto». Gli Israeliti si accamparono a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico (…) Il giorno dopo gli Israeliti non ebbero più manna; quell'anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. Parola di Dio!
Salmo responsoriale - 33
R./ Bonum est confidere in Domino. Bonum sperare in Domino!
1. Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
2. Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.
3. Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 5, 17...21
Fratelli e sorelle. Se uno è unito a Cristo è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo ed ha affidato a noi l’annuncio della riconciliazione con lui. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori, per mezzo nostro è Dio stesso che ci esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Cristo non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché per mezzo di lui noi potessimo ritrovare un nuovo rapporto con Lui.
Parola di Dio!
Gloria e lode a te, Signore Gesù!
Mi alzerò e andrò da mio Padre e
gli dirò: Padre, ho peccato davanti a te.
Gloria e lode a te, Signore Gesù!
+ Dal vangelo secondo Luca
15, 1-3.11-32
Gli esattori delle tasse e la gente di cattiva reputazione si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo. I farisei e i maestri della Legge mormoravano: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Allora egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi il patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sue sostanze.
Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gli dava nulla.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti dipendenti di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Ritornerò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati. Si mise in cammino verso suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio che ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Parola del Signore!
Professione di Fede - Simbolo Apostolico
Io credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra; e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen.
la Parola si fa Preghiera
+ Fratelli e sorelle, Gesù oggi ci annuncia e ci comunica la misericordia del Padre, il perdono che tutti cerchiamo. Uniti a tutti i credenti in Cristo preghiamo: - Accoglici in te, o Padre!
- La Chiesa manifesti sempre il cuore del Vangelo: la misericordia del Padre verso ogni essere umano, preghiamo.
- I governanti, con coraggio e costanza, promuovano sempre la pace al di là di ogni conflitto e rivalità tra i popoli, preghiamo.
- I giovani sappiano di poter trovare sempre nei genitori persone che li attendono con pazienza e fiducia, preghiamo.
- I genitori, di fronte alle scelte dei figli non si scoraggino, ma diano fiducia e liberi orientamenti, con responsabilità e speranza, preghiamo.
- In questa quaresima, lo Spirito santo ci aiuti a riscoprire il sacramento del Perdono, fonte di riconciliazione tra noi, preghiamo.
dalla Parola all’ Eucaristica
Ti ringraziamo, o Padre che ci ami senza limiti, per il Pane che in abbondanza ci doni quando torniamo a te: è il corpo di Gesù, nostro fratello maggiore. Nel tuo Spirito ci rallegriamo e facciamo festa, perché eravamo morti e ci hai riportati alla Vita. Ora e per sempre. Amen!
Preghiera Eucaristica - Acclamazioni
+ Prendete, e mangiate… e bevetene tutti…
- Grazie, Gesù che ci vuoi bene!
+ Mistero della fede!
- Tu ci hai rendenti con la tua Croce
e la tua Risurrezione.
Salvaci, o Salvatore del mondo!
alla Comunione
“Rallegrati, figlio mio, perché tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Lasciatevi riconciliare con Dio Padre: la nostra Quaresima 2010
un abbraccio senza fine
Questa è la nostra storia, di ciascuno di noi, di ogni uomo; la storia di Dio e di Gesù. Non riguarda gli altri, o una categoria speciale di persone!
Non è nemmeno un racconto commovente ed edificante di morale familiare per insegnare ai genitori ad essere pazienti e remissivi ad oltranza con i loro figli, anche nei momenti e nei periodi di ribellione.
Gesù vuole semplicemente dirci come è Dio nei nostri riguardi, con tutti… con ogni uomo: è un Padre così! Non è un comportamento eccezionale in una situazione straordinaria.
E’ l’agire folle di chi ama sragionatamente.
E noi siamo tutti figli così… un po’ il minore e un po’ il maggiore, secondo le situazioni e gli stati d’animo.
Di fronte allo scandalo dei farisei e dei maestri della Legge mosaica, Gesù giustifica, in questo modo, il suo comportamento inaccettabile e provocatorio: accoglie la gente di cattiva reputazione e mangia con persone di malaffare. Gesù lo fa sapendo di scandalizzare, ma non può fare diversamente perché lui, nostro fratello maggiore, vuole condividere con noi la festa del suo essere figlio amato dal Padre.
Questa festa della comunione con il Padre e con tutti, che per noi non sono più “gli altri”, estranei o conoscenti, rivali o addirittura nemici, ma diventano fratelli e sorelle. Tutti figli di un unico Padre diventiamo fratelli tra noi: un punto di arrivo che ha come avvio un dono gratuito e abbondante. Non possiamo pretendere di esserci simpatici, o di condividere qualche affinità… ci chiede di amarci come lui ci ha amati. Solo perché lui me lo chiede e lo ha fatto per primo, io posso provare a farlo con gli altri.
TUTTI eravamo morti e siamo
tornati in vita, eravamo perduti
e siamo stati ritrovati…
FACCIAMO FESTA!
Questa è la nostra storia, di ciascuno di noi, di ogni uomo; la storia di Dio e di Gesù. Non riguarda gli altri, o una categoria speciale di persone!
Non è nemmeno un racconto commovente ed edificante di morale familiare per insegnare ai genitori ad essere pazienti e remissivi ad oltranza con i loro figli, anche nei momenti e nei periodi di ribellione.
Gesù vuole semplicemente dirci come è Dio nei nostri riguardi, con tutti… con ogni uomo: è un Padre così! Non è un comportamento eccezionale in una situazione straordinaria.
E’ l’agire folle di chi ama sragionatamente.
E noi siamo tutti figli così… un po’ il minore e un po’ il maggiore, secondo le situazioni e gli stati d’animo.
Di fronte allo scandalo dei farisei e dei maestri della Legge mosaica, Gesù giustifica, in questo modo, il suo comportamento inaccettabile e provocatorio: accoglie la gente di cattiva reputazione e mangia con persone di malaffare. Gesù lo fa sapendo di scandalizzare, ma non può fare diversamente perché lui, nostro fratello maggiore, vuole condividere con noi la festa del suo essere figlio amato dal Padre.
Questa festa della comunione con il Padre e con tutti, che per noi non sono più “gli altri”, estranei o conoscenti, rivali o addirittura nemici, ma diventano fratelli e sorelle. Tutti figli di un unico Padre diventiamo fratelli tra noi: un punto di arrivo che ha come avvio un dono gratuito e abbondante. Non possiamo pretendere di esserci simpatici, o di condividere qualche affinità… ci chiede di amarci come lui ci ha amati. Solo perché lui me lo chiede e lo ha fatto per primo, io posso provare a farlo con gli altri.
TUTTI eravamo morti e siamo
tornati in vita, eravamo perduti
e siamo stati ritrovati…
FACCIAMO FESTA!
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