domenica 11 luglio 2010

Le Lectio del prete Carmine Miccoli - Luca 10, 25-37

“Va' e anche tu fa' così” - Luca 10,37

O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza
per farci ascoltare la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà.
Fa’tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua
e perché non troviamo condanna nella tua parola, letta, ma non accolta,
meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita, contemplata, ma non realizzata,
manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e a guarire i nostri cuori.
Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnovamento
dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo,
Dio benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 10,25-37 (trad. CEI 2008).

25 Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro,

che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26 Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto

nella Legge? Come leggi?». 27 Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo

cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come

te stesso». 28 Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». 29 Ma quello, volendo

giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30 Gesù riprese: «Un uomo scendeva

da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via

tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso,

un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre.

32 Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano,

che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino,

gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo

portò in un albergo e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, tirò fuori due denari e

li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pa -

gherò al mio ritorno”. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è

caduto nelle mani dei briganti?». 37 Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui».

Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».


Note di esegesi per la comprensione del testo

Il brano di vangelo ci permette di entrare nel cuore stesso di Dio, facendoci vivere

la proposta che ci viene oggi dal racconto del «Samaritano che soccorre un

Giudeo». Di fronte a questa affermazione, oggi nessuno reagisce, perché abbiamo

perso il contesto giudaico del testo per cui facilmente trasformiamo l’atteggiamento

del Samaritano in un atteggiamento morale. Immaginate, invece, un ebreo

ortodosso degli insediamenti che si prende cura di un palestinese ferito dall’esercito

israeliano e lo porta in un ospedale, sfdando l’opinione corrente: è questa

una pallida idea di quello che Gesù vuole raccontare con questa pagina di Lc. Dall’altra

parte proviamo un senso di disgusto nei confronti del sacerdote e del levita

che fanno al fgura dei cattivi. Eppure non è così, perché noi non conosciamo la

Scrittura e l’ambiente dove è nata. Per capire il brano di oggi bisogna inserirlo nel

suo contesto che ci svela tre momenti decisivi:

1. Lc 10,21-24: dopo l’invio dei Dodici senza frutto (Lc 9,1-6.10) e dopo l’invio

dei Settantadue e il loro successo (Lc 10,1-12), Gesù dichiara la beatitudine

degli Apostoli perché in quanto piccoli e insignifcanti sono più privilegiati

dei «dotti e dei sapienti» perché sono ammessi al mistero del

Regno di Dio. Da una parte Gesù «loda» il Padre che si rivela i «piccoli»

e dall’altra dichiara «beati» i piccoli che sanno vedere oltre il già noto.

Dio non sta dalla parte dei «sapienti e dei dotti» che credono di vedere,

mentre sono accecati dalla loro presunzione: infatti «un dottore della

Legge si alzò per metterlo alla prova» (Lc 10,25), non per incontrarlo o

per capire.

2. Lc 10,25-28: discussione sul comandamento più grande, che non si trova

al suo posto qui, perché deve essere stato pronunciato a Gerusalemme

nel contesto dell’ultima settimana, quando il confronto con il potere uffciale

diventa estremo e decisivo fno alla morte (cf. Mt 21,1.22,34-40).

L’inserimento del brano sul comandamento dell’amore, in questo contesto

lucano, spezza l’unità del racconto perché alla domanda del dottore

della Legge «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29), Gesù risponde «come» si

deve amare non il prossimo, ma il nemico.

3. Lc 10,29-37: la parabola vera e propria del Samaritano, che non è un insegnamento

morale, ma la descrizione della natura di Dio. Forse alla base

del racconto di Lc c’è 2Cr 28,15, dove alcuni Samaritani usano pietà verso

i Giudei, esattamente come il Samaritano della parabola lucana. Se le cose

stanno così, ci troviamo anche qui davanti un midràsh cristiano del

racconto del libro delle Cronache1. Con questa parabola, Lc invita a

imitare Dio nel suo essere più profondo che Mt codifcherà nel discorso

della montagna: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre

vostro celeste» (Mt 5,48).

Il dottore della Legge è lo specialista della Parola, colui che la interpreta anche in

nome di Dio. Possiamo dire che è il rappresentante della religiosità uffciale. Egli

«si alzò per metterlo alla prova» (Lc 10,25), come dice la traduzione addolcendo

alquanto il signifcato letterale dei due verbi. Il primo verbo greco è anèste e indica

l’atto del sorgere o risorgere (cf. Mc 5,42), dunque un atteggiamento solenne, di

autorità perché egli «sta in piedi» come colui cha ha l’ultima parola, consapevole

del proprio ruolo di «dottore della Legge». Il secondo verbo dice lo scopo del

«sorgere, risorgere»: il verbo ekpeiràzon è un participio presente con valore fnale

ed esprime un’azione continua; è il verbo della tentazione del diavolo oppure

degli scribi e dei farisei e qui del dottore della Legge. Nel NT ricorre 27 volte e

sempre nel senso di «tento» come attività demoniaca. Il testo della traduzione liturgica

è povero e non esprime la drammaticità che sottolinea Luca, che dice: «Si

alzò in piedi e continuando a tentarlo, disse...». Bisogna mettere in evidenza questa

persistenza diabolica, di cui è facile cogliere il sottofondo: il rappresentante uffciale

della religione, colui che dovrebbe mediare la volontà di Dio, è equiparato

a satana e ne diventa strumento effcace. Il suo dire è diabolico perché non mira

a conoscere o a relazionarsi, ma ad indurre ad agire demoniacamente. È interes -

sante, infatti, seguire lo svolgimento del racconto, col suo sottofondo anche umoristico.

Il «dottore» chiede cosa deve fare per «ereditare la vita eterna» (Lc

10,25): il suo orizzonte è rivolto oltre la storia, verso l’eternità. Forse perché

pensa che qui sulla terra egli è nel giusto: vive nel Tempio, osserva i comandamenti,

cioè tutte le prescrizioni e vuole assicurarsi anche un posto al sole oltre la

morte. Vuole avere l’ultima parola anche da morto, determinando così il giudizio

di Dio. Attestarsi sull’orizzonte della vita eterna, signifca estraniarsi dalla storia e

dalla responsabilità che Dio stesso ci ha dato nel tempo in cui viviamo sulla terra

in marcia verso il Regno di Dio che è la trasformazione di ciò che abbiamo vissu-

1 «Alcuni uomini, designati per nome, si presero cura dei prigionieri. Quanti erano nudi li

rivestirono e li calzarono con capi di vestiario presi dal bottino, diedero loro da mangiare

e da bere, li medicarono con unzioni; quindi, trasportando su asini gli inabili a marciare, li

condussero a Gerico, città delle palme, presso i loro fratelli. Poi tornarono a Samarìa»

(2Cr 28,15). Il midràsh è un metodo esegetico che appartiene alla tradizione giudaica, iniziato

durante l’esilio di Babilonia e sviluppatosi nei secoli successi; al tempo di Gesù era

un modo usuale di leggere e commentare la Scrittura. Il metodo è semplice: si basa sul

principio di «leggere la Scrittura attraverso la stessa Scrittura», mettendo in relazione parole,

frasi, testi uguali o anche solo assonanti per fare emergere signifcati nuovi e profondi.

to, ma senza limiti. È il solito modo di procedere: si distingue tra «vita terrena» e

«vita eterna», pretendendo di dare a quest’ultima una primogenitura in contrasto

con la prima, come la «vita terrena» fosse una maledizione di Dio che dobbiamo

sopportare. Questa visione non ha nulla da spartire con il messaggio del vangelo.

Con questa mistifcazione si è creata una frattura invincibile tra la vita di qua e la

vita di là. È bene dirlo una volta per tutte, con chiarezza e senza equivoci: per la

rivelazione cristiana, la vita eterna non esiste, come per la Bibbia non esiste l’anima.

Esiste una sola vita incarnata nella persona viva che è la stessa quando vive di

qua e quando continuerà a vivere di là, oltre la soglia della morte. La vita dopo la

morte è un prolungamento, trasfgurato, dell’unica vita che Dio ci ha chiamato a

vivere. Nel giudizio universale non saremo giudicati sulla vita oltre la morte, ma

sulla qualità di relazioni che abbiamo vissuto prima della morte, fondate sull’amore

(cf. Mt 25,31-46). Gesù, attraverso un processo psicologico, sventa la tentazione

del Dottore della Legge e lo riporta alla sua dimensione di verità. La risposta

di Gesù è sferzante e si svolge in due momenti:

a. «Che cosa sta scritto nella Toràh?» (Lc 10,26). Fare una domanda simile ad uno

specialista della Legge, signifca metterlo davanti alla sua responsabilità perché è

come se gli dicesse che lui non conosce la Legge. Il verbo che Gesù usa in greco

è un perfetto indicativo passivo e questa volta la traduzione italiana è esatta:

«Che cosa sta scritto», cioè in modo permanente e defnitivo? Tradotto in altro

modo signifca: «Hai mai preso in mano la Toràh, quella di Dio, e non le tue opinioni

che derivi dalle tradizioni?». Gesù si riferisce al fatto che il dottore conosce

bene la «tradizione», come il Talmùd o la Mishnàh orali e tutte le loro minuziosissime

prescrizioni fatte passare spesso per Toràh, cioè Parola di Dio, mentre erano

solo tentativi degli uomini di capire o agire. Quando le tradizioni umane prendono

il sopravvento sulla Parola di Dio, Dio tace ed è rintanato in un cantuccio, perché

gli uomini presumono di prendere il suo posto, perpetuando la tentazione di

Adamo ed Eva, come anche Gesù insegna: «Siete veramente abili nel rifutare il

comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (cf. Mc 7,9).

b. «Come leggi» (Lc 10,26). Non basta prendere in mano la Toràh, non basta conoscerla

a memoria, bisogna anche comprenderla, farla propria, interiorizzarla.

«Come» vuol dire: con quale criterio, mediazione, ideologia, presupposto e strumenti

leggi la Parola? Non basta leggere la Scrittura, bisogna leggere la sua mens

nel contesto in cui l’ha scritta l’autore. Qui c’è la frattura tra esteriore e interiore,

tra fare le cose e capirle, tra andare a Messa e parteciparvi, tra religione e fede.

La risposta del «dottore» è esatta, formalmente, perché cita il catechismo come

lo insegnava lui, ad uso e consumo suo, credendo di trovarsi nel cuore della fede

di cui si sente garante (Lc 10,27a; cf. Dt 6,5). Non basta, perché egli conosce anche

il seguito che si sviluppa sul piano sociale (Lc 10,27b; cf. Lv 19,18). Quante volte

abbiamo «sentito» questo passo e ne siamo rimasti ammirati! Eppure a scendere

in profondità c’è qualcosa di sinistro che Gesù metterà in luce, smascherandolo. Il

«dottore» afferma due «amori» con qualità diverse: uno per Dio che deve essere

totale, l’altro per il prossimo che deve essere «come te stesso», cioè limitato,

secondo le possibilità, agli appartenenti al suo popolo. Da qui nasce un duplice

atteggiamento religioso e di conseguenza un comportamento di partecipazione

sociale, ma circoscritto ai soli fedeli d'Israele. Siamo in grado di giustifcare il

nostro strabismo religioso perché tanto, poi, tutto si aggiusta nell’altra vita, in

quella che pomposamente chiamiamo «vita eterna».

La parola «prossimo», al tempo di Gesù, aveva un signifcato specifco: non signifca

l'«altro» in senso generale, ma «l’aderente, il confnante, l’attiguo», cioè

l’appartenente al clan, alla famiglia, alla tribù; è uno «dei nostri». Nella parola non

è compreso lo straniero, l’estraneo. Gesù farà esplodere questo signifcato modifcando

il termine di paragone: non più «ama il prossimo tuo come te stesso»,

ma: «Un comandamento nuovo do a voi affnché vi amiate gli uni gli altri, come

[io] amai voi, perché anche voi vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,34). La misura dell’amore

non siamo più noi con il nostro limite e incapacità, ma la persona stessa

di Dio, perché compito della nostra testimonianza nel mondo è «imitare Dio»

nell’essere e nell’agire (Mt 5,48). La novità che porta Gesù non è l’abolizione o il

superamento della Toràh, ma farne esplodere le possibilità che in essa sono contenute

(cf. Mt 5,17). Lo stile di Gesù è simile a quello di Socrate: conduce l’interlocutore

a rendersi conto da sé delle sue contraddizioni. Non contesta apparentemente

l’affermazione formale, ma lo invita a mettere in pratica quello che ha

appena detto, dicendogli: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (Lc 10,28). Non

lo ha giudicato, non gli ha detto che è cattivo, non gli ha rinfacciato di essere ot -

tuso; gli ha solo detto: sii te tesso, se vuoi vivere. Il dottore chiedeva notizie sulla

«vita eterna» (zoên aiônion), Gesù lo rimanda soltanto alla dinamicità della vita

perché, nella risposta, infatti, usa il verbo e non il sostantivo: «Fai questo e vivrai

(zêsei)». Il dottore capisce perfettamente, ma da uomo religioso e scaltro, abituato

a manipolare gli altri, cerca di uscire dall’angolo del suo disagio e cambia discorso.

L’evangelista è esplicito: «volendo giustifcarsi» (Lc 10,29), chiede spiegazioni

sul «suo prossimo», che è una richiesta comica sulla bocca di uno specialista

della Legge; probabilmente egli ha inteso perfettamente lo scopo che Gesù voleva

raggiungere e prende tempo, cerca una scappatoia. Gesù non risponde con un ragionamento,

ma con una parabola, lineare e dirompente, quasi blasfema per gli

uditori del tempo di Gesù. Noi oggi leggiamo questa pagina senza problema, perché

non ne comprendiamo il contenuto rivoluzionario per gli uomini e per l’immagine

che ci facciamo di Dio: travolge la religiosità tradizionale e apre una prospettiva

nuova sul volto di Dio.

Proviamo a capire più profondamente. Gerusalemme era collocata su due colline,

quella del Tempio e quella di Sion: essa si trova a circa 800 m sopra il livello del

mare, mentre Gerico che dista circa 38 km si trova invece a 390 m sotto il livello

del mare, con dislivello di quasi 1.200 metri in pochi chilometri lungo una strada

che è un continuo sali-scendi. Gesù narra la disavventura, forse un fatto di cronaca

nera recente: un passeggero, che forse è di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme,

viene assalito da un banda, derubato e picchiato. La morte è certa col

caldo e la depressione dovuti al dislivello. Non ha nemmeno la forza di gridare;

può solo pregare dolente il suo Dio di lasciarlo morire presto. Un altro elemento

essenziale per la comprensione della parabola è il personaggio principale: il Samaritano.

Tra Samaritani e Giudei vi è una inimicizia ancestrale: l’odio è radicato e risale

almeno al dopo esilio, al tempo di Neemìa (sec. IV a.C.), quando ai Samaritani

è proibito di offrire sacrifci al tempio e ai Giudei di sposare una Samaritana. Eppure

il Talmùd insegna che i Samaritani sono scrupolosi più dei Giudei nell’osservare

la Toràh2. Se un Giudeo offende un altro Giudeo chiamandolo «samaritano»,

commette un delitto punito con «i quaranta colpi meno uno», cioè con trentanove

frustate.

Questo il quadro della situazione. Alla luce di queste informazioni possiamo capire

alcune cose. Dicendo che un Giudeo è stato soccorso da un Samaritano, Gesù

offende tutti i Giudei presenti ed è passibile di condanna. Non solo il suo paragone

è scandaloso, ma egli gli attribuisce le qualità che la religione riconosce solo a

Dio: «un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto vide e ne ebbe compassione

» (Lc 10,33). In italiano l’espressione è innocua, in bocca a Gesù è un insulto

per gli orecchi pudichi di chi ascolta borghesemente: in greco, Lc usa il verbo

esplanchnìsthe, che richiama l’ebraico rèchem, l’utero materno. Questo verbo

nella Bibbia indica solo la misericordia di Dio e quella che prova Gesù (cf. Mt

9,36; 14,14). In Lc questo verbo compare tre volte: per la risurrezione del fglio

della vedova di Naim (cf. Lc 7,13); per l’accoglienza del padre del fglio prodigo (cf.

Lc 15,20) e qui per il Samaritano. Tre situazioni di emarginazione e di impurità assoluta

esprimono per Lc la purità e la giustizia di Dio: «avere compassione», dal

punto di vista di Dio, signifca protendersi al bisogno dell’altro per rigenerarlo a

vita nuova.

Che la chiave di lettura sia di natura cristologica, lo si ricava da un altro dato: il

Samaritano non solo soccorre il malcapitato, ma fa di più. Al v. 35 promette il suo

«ritorno», che non avrebbe senso se la il racconto deve fnire con l’assistenza

dell’uomo ferito. Per Lc le cose non stanno così, perché il «ritorno» del Samaritano

è una promessa-anticipo (una prolèssi) del ritorno di Cristo, alla fne dei tempi,

quando assumerà su di sé il volto del Samaritano per espandere la misericordia di

Dio sull’umanità dolente che non sa come ritornare a Dio. Una cosa è certa: Cristo

non perderà nessuno «di quelli che mi hai dato» (Gv 18,9; cf. 6,30; 10,29;

17,12). Se il primo verbo, «avere compassione», è un’attitudine di Dio nella sua

relazione con l’umanità, il ritorno del Samaritano è un’evocazione del «ritorno di

Cristo» alla fne della Storia, come sigillo alla Storia che si apre al Regno. Che

questa sia l’interpretazione è spiegato anche dal fatto che il verbo usato da Lc,

epanèrchesthai, si trova in questo vangelo un’altra sola volta e con questo identico

signifcato escatologico (cf. Lc 19,15). Il Samaritano dunque è l’immagine di YHWH

2 Trattato Houl, 4a.

che si scuote nelle viscere di fronte ai suoi fgli/e ed è anche l’immagine di Gesù

che deve tornare per prendere possesso della Storia al suo compimento.

Possiamo capire lo scandalo che dovette provocare una simile parabola, specialmente

se il comportamento del Samaritano si confronta a quello di due Giudei

più che religiosi e praticanti, due specialisti del sacro e di Dio, quel Dio che hanno

relegato dentro un recinto di canti e di incenso, facendolo prigioniero della loro

religiosità: un sacerdote e un levita, addetto al servizio del tempio. Tutti e due forse

tornano a casa dopo il turno di servizio al tempio, quindi sono ancora in stato

di purità legale e religiosa. Se avessero toccato il «mezzo morto», che forse scambiano

per completamente «morto», avrebbero perso la loro purità. Non sono

cattivi e non pensano male, sono soltanto due ottimi praticanti e rigorosi osservanti

delle prescrizioni. Sono a disagio, ma devono scegliere, e nessuno gli ha insegnato

ad amare. Cosa fare? Tra il rischio di diventare impuri e la possibilità di incontrare

l’uomo, scelgono se stessi e la loro religiosità fatta di riti e rituali. Non

corrono il rischio: sia il sacerdote che il levita vedono il «mezzo morto» e sia l’uno

che l’altro passano oltre (Lc 10,31-32). I Giudei timorati di Dio «passano oltre

» in nome della loro religione che può anche uccidere quando è chiusa in se

stessa e non si protende al servizio della vita dell’umanità. Il Samaritano, nemico

dei Giudei, considerato indemoniato e impuro, invece, che non si sente legato a

rituali e a religioni artifciali, che corre il rischio di scegliere tra l’appartenenza ad

una setta religiosa e l’appartenenza ad una umanità senza barriere, scoprendo

così che Dio stesso è laico e nessuna religione può imprigionarlo. Egli, samaritano

di nascita e di cultura, diventa il volto compassionevole di Dio che si accosta e si

fa «prossimo» del suo nemico, anche dell’ebreo. Egli a rigore di logica avrebbe dovuto

ammazzarlo, perché uccidere un Giudeo sarebbe stato un suo vanto; al contrario,

lo carica sul suo cavallo e lo porta in una locanda, che successivamente i

Padri della Chiesa hanno identifcato con la Chiesa che cura e risana con i sacramenti

dell’olio e del vino. Il Samaritano rivela l’amore di Dio e diventa anche l’espressione

della Chiesa. Il Samaritano è simile al «pastore bello» che si fa carico

delle pecore maltrattate e sfruttate (cf. Gv 10,11-14) e al fglio del padrone della

vigna venuto a riscuotere la parte del padre (Lc 20,9-18). Come il fglio giunge

dopo i profeti che Dio ha mandato inutilmente, ora il Samaritano giunge dopo il

sacerdote e il levita che non hanno fatto il loro dovere, anzi non hanno esercitato

il loro diritto di soccorrere il povero in nome di Dio.

Quanti sentimenti sia agitano nel cuore leggendo questa parabola unica e rivoluzionaria

che ci spinge a buttare all’aria la religiosità di consumo e di convenienza,

quella che si nutre di processioni e di appariscenze, quella che crede di servire

Dio, invece ingrassa se stessa con riti e rituali che sono solo l’espressione della

vanagloria degli uomini addetti al sacro. Essi incensano se stessi e credono di

onorare Dio, solo perché sono talmente ubriachi di egocentrismo da avere fnito

di identifcare Dio con se stessi e il suo messaggio con le loro idee. È impressionante

vedere cardinali e prelati vestiti di tutto punto con abiti dorati, che incedono

come sopravvissuti àfani e trasognanti, mentre sono ammirati dagli esseri

umani, credendo così di dare gloria a Dio (cf. Mt 6,5; cf. Gv 12,43). Questo mondo

religioso è anche capace di uccidere in nome di Dio, magari convinti di fare la sua

volontà pur di avere le scene del mondo e l’ammirazione delle folle.

Al dottore che chiedeva notizie sulla vita eterna, Gesù lo rimanda all’uomo della

strada, a quello che ha bisogno di soccorso e di aiuto, all’uomo che giace mezzo

morto senza nemmeno un flo di voce per chiedere aiuto; al suo nemico, per vivere

un’avventura di vita e non una religione del rito. Se il cristiano vuole conquistare

la vita eterna, deve prima conoscere e imparare ad amare la vita terrena e

in essa, come il Samaritano, lasciarsi incontrare dall’escluso, dall’impuro, gli unici

che popolano la vita del Signore quando visse nella terra di Palestina. Uno straniero,

un nemico è l’unico a sapere rappresentare il vero volto amorevole di Dio.

Il dottore voleva scappare da se stesso tergiversando sulla nozione di

«prossimo», e Gesù lo costringe ad accorgersi da sé che il «prossimo» è il suo

nemico, è l’uomo senza etichetta perché il Dio dell’ebreo Gesù non è ebreo, non

è samaritano, non è cattolico, non è religioso: è soltanto Dio nella pienezza della

sua divina laicità. Il dottore è costretto a dire che il «vero prossimo» è colui che

ama senza contropartita, colui che si fa carico a perdere, colui che non ha steccati

e strutture di divisione, colui che accoglie senza badare agli usi, alle religioni e al

rischio (Mc 10,45). Di questo spirito è testimone credibile il Samaritano, mentre il

sacerdote e il levita, carichi di pratiche e sistemi religiosi ne sono la negazione,

non per cattiveria, ma per cattiva educazione, anzi per consuetudine e tradizione.

Sono troppo educati ad essere religiosi per essere capaci di umanità. Dove le tecniche

religiose della salvezza sono fallite, Cristo giunge come un Samaritano, disprezzato

(cf. Gv 8,48) e non accolto dai suoi che preferirono le tenebre alla luce

(cf. Gv 1,1-18). La parabola è dunque una descrizione di Dio e come spesso avviene

nel Vangelo, Dio si compiace di essere rappresentato adeguatamente da coloro

che la religione uffciale dichiara «immondi», come la donna peccatrice (cf. Lc

7,36-50), il lebbroso straniero (cf. Lc 17,11-19), il pubblicano nel tempio (cf. Lc

18,9-14), il pubblicano Zacchèo (cf. Lc 19,1-10), la vedova povera nel tempio (cf.

Mc 12,41-44) e la samaritana dai cinque mariti (cf. Gv 4,1-42). È un Dio veramente

strano, il Dio di Gesù e sarebbe interessante chiedersi: se venisse oggi dove e da

che parte starebbe? Non ci resta che andare nel mondo e fare anche noi lo stesso

se vogliamo vivere (cf. Lc 10,28).

- pro manuscripto -

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