sabato 14 febbraio 2009

Treglio in cammino - 4/195- 15 febbraio 2009 - Il LEBBROSO: ieri e oggi


Nel mondo da due anni si muore di meno. In Italia, i nuovi casi sono stabili
e l’efficacia delle terapie consente di vivere più a lungo. Ma i rischi di infettività
e di esclusione sociale dei malati di Aids non diminuiscono.

SI CURA LA MALATTIA
NON ANCORA LO STIGMA
Riccardo ha cercato il virus, Maria ha dovuto cambiare caffè...


...lo stigma che appiccica addosso a una vita, quello è duro da cancellare, agli occhi di chi viene a sapere. E che purtroppo – non c’è medicina che agisca sui pregiudizi – continua ad associare virus a colpa, implicitamente “condannando” chi ne è portatore.

Riccardo lo sa. Non se ne lascia condizionare più di tanto, ma lo sperimenta ogni giorno. E’ sieropositivo dal 1991. A Riccardo, a dire il vero, il morbo non è capitato tra capo e collo.
Lui il virus l’ha cercato. Apposta. «Avevo una moglie sieropositiva, che ora purtroppo non c’è più, e un figlio che è nato sieropositivo. Io ero sano.
Non mi sembrava giusto nei loro confronti, mi sentivo in imbarazzo. Come condividere pienamente l’amore per mia moglie e il mio bambino, rimanendo così distante da loro? Così ho deciso di continuare ad avere rapporti con mia moglie, finché anch’io sono diventato sieropositivo».
La vita non è stata tenera con Riccardo. Ma lui non sembra curarsene.
«La vita? Va vissuta fino in fondo e al meglio possibile. Alla fine che differenza c’è tra noi e un cosiddetto “normale”? Non siamo “normali” anche noi? Ognuno ha pregi e difetti: ama, odia, ragiona, si arrabbia esattamente come le persone che vivono fuori di qui. Il problema è che l’Hiv è visto ancora come una colpa, che alcune categorie di persone devono espiare».

Maria è invece una delle ultime arrivate al “Gabrieli”. «Io sto abbastanza bene fisicamente – racconta –; sono qui perché ho ancora bisogno di cure dopo un ricovero in ospedale, ma la terapia mi permette di vivere decentemente». Il sogno di Maria è una casetta tutta sua. E magari un lavoretto, per potersi mantenere. Ma senza che nessuno sospetti della malattia. «Se qualcuno viene a sapere che sei sieropositiva sei finita... Gente che fino al giorno prima ti salutava, ora fa di tutto per non incrociare lo sguardo. E nessuno, dico nessuno, ti da più la mano per paura di essere contagiato. Io ho cambiato bar. Dove andavo prima, avevano cominciato a darmi il caffè nella tazzina usa e getta...
Sono queste le cose che fanno più male: con la malattia si impara a convivere. Con i comportamenti delle persone no».


Ettore Sutti
Italia Caritas, 10/2008



1 commento:

Emanuele ha detto...

Mi piace molto la preghiera del lebbroso, di Simeone il teologo. Mi sembra che rende bene l'idea dello stato d'animo non solo di chi guarisce da una malattia fisica, ma soprattutto di chi incontra il Signore.

Invece non condivido affatto (ma la rispetto) la scelta di Riccardo, di farsi contagiare la malattia per "condividere pienamente l'amore per sua moglie e il suo bambino". Secondo me amare pienamente e condividere lo stato d'animo di chi soffre, cioè amare in modo cristiano, non implica farsi contagiare le loro malattie, cioè andarsele a cercare. Ci sono tanti missionari, ad esempio, che impiegano tutta la loro vita al servizio degli ammalati, dando una grande testimonianza di amore veramente evangelico senza per questo andare a cercare un contagio, anzi per potersi prendere cura di questi ammalati penso che cercano di conservare la loro salute e tutte le loro energie fisiche, proprio per spenderle al loro servizio. Anche perché la salute è un prezioso dono di Dio, un vero e proprio talento da impiegare e far fruttificare (come fa Riccardo a dire che non gli sembrava giusto essere in salute, rispetto alla moglie che stava male?). Ad ogni modo non credo che la scelta di Riccardo sia da prendere come esempio di ciò che significa l’amore cristiano. Nè tanto meno da imitare!