venerdì 6 novembre 2009

Le lectio del prete Carmine Miccoli

Note di esegesi per la comprensione del testo
Marco 12, 38-44


La protagonista del brano del Vangelo che abbiamo letto è una vedova, una donna
che per la cultura dell’epoca è insignifcante, giuridicamente irrilevante. La vedova
appartiene ad una categoria marginale, al limite della schiavitù, perché una vedova
che non avesse una qualche forma di protezione poteva essere preda di chiunque.
La donna del vangelo, oltre ad essere anonima, è descritta in una serie di
contrasti. Il brano si divide in due parti: la maledizione agli scribi che derubano le
vedove (vv. 38-40); la benedizione della vedova che offre la sua vita, anche se non
ha nulla se non la sua povertà (vv. 41-44). Queste due parti sono, nell’economia di
Mc, un commento alla parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-9): il Regno di Dio
viene tolto ai capi del popolo e ai responsabili del culto e viene dato ai poveri,
che fnora non ne avevano diritto perché erano stati dichiarati impuri. La vedova,
al v. 42, viene detta «povera»: in greco si usa la parola ptochê, lo stesso termine
che è usato nella prima beatitudine (Mt 5,3). La traduzione esatta di questo termine
in italiano è «pitocco»1, essere pauroso e insignifcante. È una rivoluzione
radicale, un capovolgimento totale, che noi abbiamo purtroppo annacquato in
uno spiritualismo di maniera, per toglierci da ogni coinvolgimento umano e per
impedirci di fare scelte di conversione sociale e spirituale. Il cristianesimo è tutto
qui, perché qui è il volto del Dio di Gesù: o si fa la scelta della povertà come dimensione
e condizione della visibilità di Dio, o possiamo fare feste, liturgie, raduni
e manifestazioni, ma restiamo fuori dal cuore stesso del vangelo delle beatitudini.
La povertà non è una mera categoria sociale, ma una dimensione dello spirito che
ci porta ad incarnarci nella storia sull’esempio di Gesù e ad assumere tutte le povertà
materiali per trasformarle in sacramento di condivisione e di fede.
L’antitesi ricco-povero, che è una caratteristica della predicazione di Gesù (cf. Lc
6,20-24), qui si materializza nel binomio scriba-vedova, con una serie di contrasti
che servono a mettere in risalto le fgure e i contenuti che esprimono. Gli scribi
amano2 la visibilità e sono ossessionati dalle vesti sontuose per essere visti e
osannati dalle piazze (v. 38); alla loro ostentazione non può corrispondere la giustizia
interiore, perché essi, proprio perché hanno potere, lo esercitano per i loro
interessi anche a scapito della Toràh, che imponeva di non maltrattare l’orfano e
la vedova (Es 20,21) e di renderli partecipi delle decime offerte per il culto (Dt
14,29). Gli scribi, che pretendevano di rappresentare l’autorità di Dio, avrebbero
dovuto proteggere coloro che Dio protegge, ma divorando le case delle vedove
si escludono dall'allenza con Dio perché hanno perduto la loro autorità di guide
religiose. Essi, infatti, non pregano, ma ostentano di fare lunghe preghiere (v. 40)
perché ormai vivono solo per se stessi e per alimentare il culto della loropersonalità.
Per Gesù è la vedova che rappresenta degnamente Dio e ne esprime il volto.
Dio si è paragonato al seminatore, al vignaiolo, al pastore, e ora si paragona ad
una donna, per giunta vedova e povera. Il testo è imbarazzante anche per la nostra
mentalità e la nostra religiosità3; se qualcuno avesse qualche dubbio non deve
fare altro che leggere in sinossi questo racconto con l’inno alla «svuotamento»
(gr. kènosi) di Dio della lettera ai Filippesi (Fil 2,5-11). La vedova ha «gli stessi sentimenti
che furono di Gesù Cristo», perché ella imita Dio non solo nel suo comportamento,
ma anche nel suo essere. A differenza degli scribi che vivono sdoppiati,
la vedova è ciò che appare e appare ciò che è nel suo intimo, in un’unica armonia.
Se Dio ci avesse dato solo ciò che gli avanzava, sarebbe stato meglio rappresentato
dai ricchi i quali danno, ieri come oggi, solo del loro superfuo. Dio al
contrario ha dato a noi solo ciò che è, il suo necessario, tutto se stesso. Nel testo
di Paolo, per descrivere il comportamento di Dio, al v. 7 si usa un termine sconvolgente,
in greco ekènosen, che signifca «si svuotò, tolse il pieno» (cf. 1Cor 1,17),
e quindi anche «si distrusse» (cf. 1Cor 9,15)4. Nell’incarnazione di Gesù, Dio non
ci dà qualcosa di sé come la vita, la grazia, la gloria, ma va oltre: svuota, annulla se
stesso e si dona tutto a noi, esattamente come fa la vedova che non prende una
moneta per offrirla al Tempio, ma offre l’unica moneta che ha, il necessario per la
sua sopravvivenza 5.
Questa pagina di vangelo dovrebbe aiutarci a purifcare l’immagine stessa di Dio, a
rivedere la teologia che si nutre di un «dio astratto», staccato dal Dio che si manifestato
negli atti, nei gesti e nelle scelte di Gesù di Nazareth, il quale è venuto a
dire con chiarezza e senza possibilità di equivoci che Dio è tale solo se serve
(Mc 10,45), solo se si mette in ginocchio per lavare i piedi degli uomini e delle donne
(Gv 13,1-5), senza distinzione di cultura, di religione e di popolo, con una
preferenza esclusiva e carica di tenerezza per i più disprezzati e oppressi. Egli è
un Dio che assume a sua immagine la fgura di una donna, che è l’emblema del
servizio puro, gratuito, amorevole e vitale. Per Gesù, la vedova povera è la
profezia che il modo di essere proprio di Dio è la povertà che si fa amore totale
e capace di generare a nuova vita.

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1 Il verbo ptochéo, che signifca «mendicare, accattare», ha una connotazione di paura, spavento
(ptôs), ripresa anche dal termine italiano, piuttosto desueto.
2 La versione italiana traduce con «amano» il verbo greco thèlo, che signifca «voglio, bramo
» e quindi esprime una decisione consapevole della volontà, una ricerca ossessiva del
plauso e del consenso.
3 La versione della Bibbia CEI nell'edizione del 1971 non dice nulla a riguardo di questo
brano; la revisione del 1997 riporta invece questa spiegazione: «La fgura della vedova, che
versa la sua misera offerta nel tesoro del Tempio, vuole illustrare il comandamento dell’amore di
Dio. Dio attende una fede semplice, aliena da ogni calcolo, pronta a mettere in gioco la propria
vita». È una interpretazione moralistica, non esegetica: qui non si tratta del comandamento
dell’amore, ma del comportamento di Dio e della testimonianza degli esseri umani, manifestato
quindi dalla vedova più che da coloro che dovrebbero rappresentarlo.
4 Per descrivere l’incarnazione, Gv 1,14 usa il verbo eskênosen (dal greco skenòo, che signifca
«fsso la tenda, la dimora»). I due verbi (kenòo, «mi svuoto» e skenòo, «pianto la tenda»)
hanno la stessa radice semantica e sono in relazione di senso tra loro. Lo svuotarsi di Dio
è farsi umano: Dio deve abbassarsi per entrare nella nostra dimensione, deve svuotarsi
per adeguarsi alla nostra portata. Lo svuotamento di Dio altro non è che la natura umana
trasformata in luogo sacro della sua Shekinàh (dimora, presenza). Se si vuole incontrare lo
Spirito di Dio, bisogna vivere la stessa esperienza di Dio: immergersi nell’umano, che è il
luogo privilegiato che manifesta e svela il volto del Dio di Gesù.
5 «Due spiccioli»: il lèpton o spicciolo era la più piccola moneta ebraica (Lc 12,42; Lc 21,2;
12,59) e corrispondeva a due soldi; due spiccioli corrispondevano ad un quadrante, la
moneta più piccola del mercato romano. La paga giornaliera di un operaio era di un denaro,
che corrispondeva a sedici soldi: l’offerta della vedova corrispondeva quindi ad un
quarto di paga giornaliera di un operaio, appena suffciente per sopravvivere.

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