sabato 13 febbraio 2010

Approfondiamo la Parola domenicale: le lectio del prete Carmine Miccoli

Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)
LECTIO DIVINA

“Beati voi, poveri... ma guai a voi, ricchi!” (cf. Lc 6,20.24)

P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare
la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnovamento
dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto
nei secoli dei secoli. A.: Amen.

L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca
(Lc 6,17-26; trad. CEI 2008; tra [ ] le parti omesse dalla liturgia).

17 Gesù, disceso con loro [=i Dodici, cf. 6,12-16], si fermò in un luogo pianeggiante.
C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da
Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne, [18 che erano venuti per ascoltarlo ed
essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri
venivano guariti. 19 Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza
che guariva tutti.] 20 Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi,
poveri, perché vostro è il regno di Dio. 21 Beati voi, che ora avete fame, perché sarete
saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. 22 Beati voi, quando gli uomini vi
odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro
nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23 Rallegratevi in quel giorno ed
esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti
agivano i loro padri con i profeti. 24 Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto
la vostra consolazione. 25 Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a
voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. 26 Guai, quando tutti gli uomini
diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

Note di esegesi per la comprensione del testo

Se dovessimo usare una espressione moderna per defnire il discorso programmatico
di Gesù, meglio conosciuto come discorso della montagna nella versione di
Mt e discorso della pianura nella versione di Lc, potremmo dire esso è la carta costituzionale
della nuova realtà che Gesù propone, il Regno di Dio. Da essa non si
può prescindere perché si svuoterebbe completamente ogni ambito di vita conseguente:
non avrebbe senso la Chiesa, non avrebbe senso la predicazione, perché
il vangelo sarebbe solo propaganda in funzione di un «sistema» di condizionamento.
In uno Stato democratico, il codice penale e quello civile hanno senso
perché raffgurano e attuano nelle diverse circostanze della vita la dimensione e
la prospettiva di «comunità» descritta nella Costituzione che contemporaneamente
esprime l’orizzonte di una società e ne delimita i confni. Essa non è fatta
di norme, ma di principi fondamentali in cui si riconoscono uomini e donne di
estrazioni culturali diverse. La Costituzione è la carta di identità di un popolo che
non è la somma di tanti individui, ma la convergenza di tutti i desideri di libertà
espressi dalle singole persone.
In Mt Gesù pronuncia cinque discorsi, corrispondenti ai cinque libri della Toràh
che la tradizione attribuisce a Mosè, di cui quello che contiene le beatitudini è il
primo ed è collocato sul monte per meglio equiparare Gesù a Mosè. Nella nuova
economia di salvezza, è Dio stesso che per bocca di Gesù parla direttamente non
al solo Israele, ma all’umanità intera. In Lc Gesù non fa cinque discorsi, ma compie
un solo, lungo viaggio che parte della Galilea, terra d’Israele equiparata a quella
dei pagani («Galilea delle Genti», cf. Is 8,23; Mt 4,15), e ha come mèta la città santa
dove si compie il destino di Israele e quello di Dio: lungo questo viaggio Gesù
insegna e opera, parla e agisce. Il discorso programmatico del Regno è collocato
dentro questo viaggio.
Il testo del vangelo di oggi fa parte di una sezione molto più ampia, che inizia in
Lc 6,12 e si conclude in 7,17: tutta la sezione comprende sei unità letterarie più
piccole così strutturate1: a. (6,12-19) vocazione dei Dodici, chiamati a insegnare e a
guarire come Gesù; b. (6,20-26) quattro beatitudini e quattro “guai” (maledizioni);
c. (6,27-38) vocazione dei discepoli, chiamati ad agire con gli esseri umani come il
Padre; d. (6,39-49) la parabola dell’albero e dei frutti (centro della sezione); e. (7,1-
10) a Cafarnao (nord di Tiberiade): Gesù guarisce il servo del centurione pagano;
f. (7,11-47) a Naim (sud-est di Nàzaret): Gesù guarisce la fglia della vedova ebrea.
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1 Per lo schema, cf. R. MEYNET, Il Vangelo secondo Luca. Analisi retorica, Roma 1994, 209-237.
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Ognuna di queste sotto unità a sua volta si suddivide ancora in altri segmenti letterari
che ci permettono di vedere l’articolazione del pensiero dell’evangelista
che aveva un suo obiettivo preciso nello scrivere in questo modo.
La vocazione dei Dodici avviene prima sia delle dichiarazioni programmatiche che
della vocazione dei discepoli, tra i quali evidentemente vi è una differenza. I Dodici
sembrano acquisire fn da subito, nei Sinottici, un compito di primo piano: essi
devono vedere ciò che poi dovranno testimoniare, come garanti della fede della
comunità. Ciò spiega perché la fede in Gesù può essere defnita correttamente
come «fede apostolica», perché si fonda sulla parola di coloro che hanno visto
Gesù e garantiscono con la loro vita e la loro coerenza di testimoni che egli è
Dio. I Dodici devono imitare Gesù, che li associa a sé nello stesso ministero di insegnare
e guarire; in un certo senso essi prolungano Gesù nella storia. I discepoli
sono chiamati invece ad uniformare il loro comportamento su quello di Dio, perché
è attraverso la loro vita che egli si può rendere visibile agli altri esseri umani.
Gli uni (Dodici) e gli altri (discepoli) vivono di coerenza interna, perché sono i
frutti che permettono di riconoscere l’albero e la sua specie. Il frutto che porta
chi segue Gesù è la guarigione dell’umanità senza più alcuna distinzione, ebrea o
pagana: tutti partecipano ormai della stessa grazia, in vista dello stesso risultato, la
vita piena. Il servo del centurione romano e il fglio della vedova sono solo due
segni della nuova umanità che sorge sulle parole di Cristo.
La preoccupazione universalistica di Lc emerge anche dall’ambientazione geografca
(Lc 6,17). Da questo versetto emergono diversi elementi che è bene sottolineare:
a. Gesù discende (gr.: katabàs, da katabàino, “discendo”): si esprime l’idea dell’abbassamento
di Dio, dall’alto verso il basso; Lc usa lo stesso verbo che la LXX usa
per Mosè che scende verso il popolo (cf. Es 19,10.21). Si noti che come in Es
19,20 sia Dio che discese, mentre Mosè, convocato da Dio, salì sul monte. Il processo
di un Dio che «scende» verso gli uomini è inconcepibile nella concezione
orientale della «divinità» che sta sempre «in alto» per non contaminarsi con «il
basso» degli umani. Il Dio di Mosè invece si rende «prossimo» del suo popolo e
cammina con loro (Dt 20,4; 31,6; Is 52,12); con Gesù addirittura s’immerge nell’umanità
affitta e sofferente fno a diventare una cosa sola con essa perché non
solo si avvicina, ma la tocca, diventando impuro tra gli impuri (cf. Lc 5,13; 7,14.39).
b. Gesù discende con loro: sono i Dodici che egli sceglie in Lc 6,13-16. Nell’AT Dio
scendeva attorniato dagli «eserciti» della natura come tuoni, lampi, nubi, ecc. (Es
19,16; 20,18), ora è in compagnia di Dodici discepoli, rappresentanti delle dodici
tribù di Israele, che hanno la funzione di testimoni autorevoli perché tutto sia giuridicamente
valido come stabilisce la Toràh alla presenza di «due o tre testimoni»
(Dt 17,6; 19,15; Mt 18,16; 2Cor 13,1; 1Tm 5,19). È il principio dell’autorità nella
Chiesa e il senso della sua funzione di garanzia della testimonianza: il ministero
non esiste per se stesso o in funzione della sua affermazione, ma solo ed esclusivamente
come testimone della Presenza.
c. Vi è una folla di discepoli e una moltitudine di popolo, abbastanza inverosimile all’inizio
della predicazione di un giovane rabbi ancora sconosciuto: questo dimostra
che il racconto è una proiezione «dal dopo al prima», dal momento che il
vangelo è scritto dopo la Pasqua alla luce della quale tutto s’illumina. La «moltitudine
del popolo» proviene «da tutta la Giudea e da Gerusalemme», cioè dall’estremo
sud-est della Palestina, ma anche «dal litorale di Tiro e Sidone» in Siria,
cioè a nord-ovest, fuori della Palestina. Storicamente è una esagerazione inverosimile
(«tutta» la Giudea; cf. Lc 7,17; 23,5; Mt 3,5). Tiro e Sidone sono città pagane
che sono assunte nei Vangeli come modelli di fede a confronto dei «religiosi»
Giudei che invece si comportano come pagani (cf. Lc 10,13-14; Mt 11,21-22;
15,21; Mc 3,8; 7,24.31). Lc ha una visione teologica della storia umana e la presenta
come teatro dell’intervento di Dio per cui non è più possibile separare la vita
di Dio da quella dell'umanità. In questo contesto, Lc inserisce la nascita di Gesù
nel cuore degli avvenimenti dalla storia profana (cf Lc 2,1-5).
d. Prima di mettersi a parlare per insegnare, Gesù «alzati gli occhi verso i suoi discepoli,
diceva», eppure c’è anche la «moltitudine di popolo». Il senso di questa annotazione
è che l’insegnamento di Cristo può restare lettera morta, vane parole
se non si è discepoli, se non si è disposti ad ascoltarlo con le fbre dell’anima.
Non basta avere qualcosa da dire per essere maestri, bisogna che qualcun altro si
ponga in atteggiamento di «discepolo» e instauri una relazione di conoscenza. È il
senso della mediazione: nessuno di noi può da solo capire il senso e la direzione
del cammino; tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia da specchio, da verifca.
Il maestro non è per se stesso, ma solo in relazione ad un discepolo. Molti
che oggi esercitano l’autorità, nella Chiesa o in una comunità o anche in famiglia,
sono semplicemente caricature, gente che crede nel proprio cipiglio autoritario:
hanno una tale considerazione di sé da non accorgersi di essere soli col loro potere
senza autorevolezza. A guardare dall’esterno, spesso viene da pensare che la
gerarchia ecclesiastica somigli ad un pastore senza pecore: essa parla e nessuno
l’ascolta, scrive astrusi documenti magisteriali che nessuno legge e intanto il popolo
va per conto suo. Bisogna credere per ascoltare, bisogna amare per riconoscere
e bisogna servire per essere credibili.
Lc 6,20-26 riporta quattro beatitudini e quattro guai, strutturati in una corrispondenza
esemplare. Gesù storicamente deve avere usato questo stile, secco, asciutto
e tagliente, che rispecchia la predicazione dei profeti dell’AT2. Il contenuto dell’insieme
è evidente anche ad una lettura superfciale: Gesù inaugura uno nuovo
modo di esercitare la giustizia che non si basa più sulle apparenze e sulla religionemercato
che crede di potere comprare Dio con le buone azioni o con la materialità
dei riti, ma che esige la disponibilità del cuore per rischiare il coinvolgimento
totale in un incontro di vita che cambia l’esistenza.
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2 Per «beati», cf. Is 32,20; Sal 2,12; 84[83],5-6, ecc.; per «guai», cf. Am 5,18; Is 5,8; Ez 13,18;
Sof 2,5, ecc.
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Non sono più le cirostanze esteriori che determinano il rapporto con Dio, ora è necessario ascoltare le condizioni del Regno e scegliere di aderirvi con l’assenso che sgorga dall’intimo
dell’essere. Scegliere di seguire Gesù e il suo insegnamento signifca compiere
una scelta che porta naturalmente alla persecuzione, perché la logica del vangelo
è opposta a quella del sistema-mondo che, sentendosi minacciato, opera due
reazioni: cerca di comprare la Chiesa con regali, offerte, promesse, onori e
scambi oppure, se non riesce ad «addomesticare» il nemico, lo combatte con la
persecuzione e la calunnia. Questo comportamento è esplicito ed evidente nel
mondo della politica che cerca disperatamente il consenso delle gerarchie
ecclesiastiche per avere il dominio dei credenti in cambio di favori nel campo
della scuola privata, delle facilitazioni fscali, di leggi specifche che toccano
materie «sensibili».
Le beatitudini annunciano un ribaltamento della situazione, caro a Lc che lo aveva
annunciato già nel cantico di Maria, il Magnifcat, dove la donna di Nàzaret fa una
scelta di campo sull’esempio del suo Dio, che si schiera dalla parte degli umili e
dei poveri, scalzando i potenti e i ricchi (cf. Lc 1,52-53). Di fronte a questa pagina,
non esiste, né può esistere “distinguo”: Gesù non pone il ricco e il povero sullo
stesso piano, ma oppone due prospettive, due orientamenti di vita, due visioni di
progettazione. Il ricco è sazio e autosuffciente perché colmo di «materia prima»,
tanto che ancora oggi si dice che con i soldi tutto si può comprare, anche gli esseri
umani; il povero non ha difese e deve fdarsi degli altri perché per la sua condizione
deve aprirsi al mondo esterno e questo spiega perché i poveri possono
essere più ospitali, generosi, liberi.
Spesso si accusa la Chiesa di predicare ai poveri la rassegnazione «qui, in questo
mondo», favorendo così i ricchi e rimandando la consolazione nel mondo a venire,
«nel Regno dei cieli». Che sia stata questa la natura della predicazione corrente,
non c’è dubbio, ma non è questa la dimensione del Vangelo: tra l’«ora» e il
«Regno di Dio e quel giorno» non c’è un rapporto temporale, ma un rapporto di
qualità che si vive «adesso, qui», nella Storia, come premessa e anticipo del Regno
che sarà. Regno di Dio non signifca «oltre la morte», ma signifca il «versante di
Dio», la prospettiva, il fne che è ora nella storia di ciascuno/a. Ognuno di noi è
chiamato «adesso» a scegliere tra il bene e il male, tra la ricompensa immediata e
la prospettiva dell’insieme. In questo senso, l’uso che facciamo dei beni della terra
deve essere «povero», perché dobbiamo pensare che dopo di noi altre generazioni
si affacceranno sulla soglia della porta del mondo e delle sue risorse. Il credente
è colui che vive l'«adesso» del Vangelo nel contesto di una visione d’insieme:
quello che è ieri ci appartiene, perché da esso proveniamo; quello che è il domani
ci appartiene, perché ad esso andiamo e non da soli, perché andiamo incontro
all’umanità che avanza dal futuro. Il cristiano è colui che, se dovesse vivere
nella ricchezza e nel benessere, li regola e li sente come dimensione comunitaria,
come prospettiva di salvezza universale nella condivisione e nella sobrietà. Una
Chiesa equidistante tra ricchi e poveri è una Chiesa che tradisce il Vangelo; se poi
gli uomini di Chiesa - e segnatamente la gerarchia - cerca e contratta appoggi o
connivenze con i ricchi per avere risultati sul piano sociale, politico o legislativo,
non solo tradisce il suo mandato, ma rinnega quel Dio che l’ha scelta come
«segno e sacramento di salvezza universale» (cf. Lumen Gentium, 1). Gesù non ha
chiamato la Chiesa ad essere diplomatica, ma solo profetica e il profeta deve fare
una scelta di campo; egli non può stare con chiunque, ma solo con i poveri,
perché di essi è il Vangelo di Gesù e il Regno dei cieli. Il nucleo del pensiero di Lc
è tutto qui: chi è pieno di cose e di se stesso non è in grado di scendere nelle
profondità del proprio essere, perché egli è pago di ciò che sperimenta
superfcialmente. Il povero fa l’esperienza della solitudine perché è privo di cose,
spesso anche del necessario; la sua solitudine, cioè la comprensione della sua
consistenza, lo rende disponibile all’incontro, perché egli sa che può solo ricevere
e in questo atteggiamento interiore è capace di profondità inaudite nello spirito.
Il povero non è beato in quanto misero e il ricco non è maledetto in quanto
possidente, ma l’uno e l’altro sono misurati in ragione della loro consistenza
interiore che, se autentica, li condurrà alla condivisione e alla partecipazione non
solo dei beni, ma anche e specialmente della vita, nella prospettiva dell'amore
solidale e liberante di Dio.

- pro manuscripto -

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