venerdì 7 maggio 2010

Le lectio del prete Carmine Miccoli

“Vi lascio la pace, vi do la mia pace...” (cf. Gv 14,27)

Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Giovanni
(Gv 14,23-29; trad. CEI 2008; tra [ ] le parti omesse o aggiunte dalla liturgia).

[Gesù disse ai suoi discepoli:] 23 «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre
mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24 Chi non mi
ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre
che mi ha mandato. 25 Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi.
26 Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà
ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. 27 Vi lascio la pace, vi do la mia
pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non
abbia timore. 28 Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste,
vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. 29 Ve l’ho detto
ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

Segue la meditazione della Parola proposta dalla guida della celebrazione; dopo un momento personale di
silenzio per la lectio, si prosegue con la condivisione comune sulla Parola ascoltata. Al termine, ognuno
dei presenti può proporre un’intenzione di preghiera; ad ognuna, l’assemblea canta o risponde con un’acclama -
zione. Si conclude con la preghiera del Padre nostro… [e la benedizione finale].
Note di esegesi per la comprensione del testo
Il brano del vangelo di Gv è la conclusione dei «discorsi di addio» di Gesù durante
la cena pasquale (cf. Gv 13-16). La prima parte del brano è la risposta di Gesù a
Giuda Taddeo che chiede: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e
non al mondo?» (v. 22, qui assente). Giuda è deluso perché immaginava che Dio si
sarebbe manifestato in forma strepitosa al modo del Sinai e come aveva descritto
il profeta Ezechiele: Gesù risponde che Dio porrà la sua Shekinàh/Dimora in colui/
colei che osserverà e custodirà la sua parola. Questa affermazione sul «custodire
la parola» è continuamente ripetuta nei discorsi di addio (cf. Gv 14,15.21.23;
15,10.12.17). Il Dio di Gesù Cristo non ha più bisogno di un «luogo», ma ogni
cuore libero diventa il nuovo Tempio della sua Presenza. Sostiamo in ascolto di
questa parola, ripercorrendola lungo i vari versetti, per essere noi stessi luogo in
cui Dio compie la sua alleanza.
1. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Amare è osservare la parola
della persona amata. Il verbo osservare ha due signifcati: guardare con attenzione
e custodire, salvare. Noi siamo abituati ad «ascoltare» la parola, ma non a
guardarla, perché la consideriamo come uno strumento. La parola che noi pronunciamo
è la nostra anima che risuona, si esprime, si rende accessibile. Bisogna
avere rispetto per ogni parola, come per un essere vivente, composta di corpo
(le lettere) e di anima (il senso). La Mishnàh, nel trattato Pirqè Avòt (Massime dei
Padri), insegna che prima ancora di creare il mondo, Dio aveva creato dieci cose,
tra cui le «lettere dell’alfabeto» con cui avrebbe scritto le Tavole della Toràh (cf.
V,6). Gv dirà ancora di più: la Parola immortale prende corpo, anzi «carne» per essere
visibile e toccabile (cf. 1,14). Guardare attentamente la parola signifca entrare
in sintonia di vita e di sentimenti con la persona che la contiene. Allo stesso
modo custodire la parola signifca farsi carico della comunicazione con l’altro,
quasi come lo scrigno in cui conservare il tesoro prezioso che è la persona amata
fatta parola. Amare è diventare la parola che è l’altro/a, che a sua volta diventa
la perla preziosa per la quale vale la pena vendere tutto come il mercante della
parabola evangelica (Mt 13,45-46).
2. «Il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora
presso di lui». L’amore che si fa custodia e contemplazione esplode in
una relazione generativa: evoca la paternità/maternità, che a sua volta si trasforma
in dimora che dà accoglienza e riparo. Al tempo di Gesù, uno dei nomi con cui
veniva sostituito il nome di YHWH era Shekinàh, che noi traduciamo con Presenza,
ma che etimologicamente signifca «Dimora», cioè il luogo dove Dio può essere
incontrato e dove abita per srotolare la propria esistenza affettiva e relazionale
insieme al suo popolo. Dio assume le modalità umane: come noi ha bisogno di
uno spazio dove rendere visibili gli affetti e le relazioni; la nostra dimora è parte
di noi stessi, anzi essa è il prolungamento del nostro corpo perché diventa lo spazio
vitale dove noi siamo e ci sentiamo al sicuro. La dimora è il simbolo dell’utero
materno che si fa tenerezza generativa. Il brano di oggi vuole aiutarci a
rispondere alla nostra ricerca di Dio, per entrare in comunione con lui.
Guardando alla storia della salvezza codifcata nella Bibbia, assistiamo ad un
processo straordinario di spiritualizzazione, che va dalla povertà della Tenda del
deserto alla sontuosità del Tempio di Salomone per giungere nell’AT alla presenza
spirituale della Sapienza che si presenta come «casa» (Pr 9,1;14,1; cf. Sir 21,18), e
che nel NT diventa la dimora spirituale di Dio stesso nel cuore degli esseri umani
(cf. Gv 14,23).
a) Nell’AT durante il pellegrinaggio dall’Egitto alla Terra Promessa, la dimora per eccellenza
di Dio era la Tenda del Convegno (‘ohel mo’ed). Essa per necessità era mobile
e provvisoria, povera e spoglia, espressione sacramentale della fede come abbandono
e fducia da una parte e dall’altra come protezione e garanzia di comunione tra Dio e
il suo popolo.
b) Quando Israele divenne sedentario, la Tenda fu sostituita dal Tempio di Gerusalemme,
sognato da Davide e costruito da Salomone nel sec. X a.C. Il santuario è il segno
sacramentale della Presenza di Dio in mezzo al suo popolo e dovunque un Israelita
si trovi, per avere coscienza di sé basta che si volga in direzione di Gerusalemme
per trovare la sua dimensione e la sua pace.
c) Per Israele, Dio abita nel Tempio, che è il Santuario della «Shekinàh/Dimora»
(Gen 28,17; 1Sam 1,7.19; 5,4-5; Es 25,8; 1Re 6,8.11; 8,1-61); lo stesso Tempio, tuttavia,
è troppo materiale per contenere lo Spirito di Dio. Dio trasferisce la sua Sapienza
nell’anima dei giusti come afferma il Siracide (24,1-21).
d) I primi cristiani superano l’idea di un Dio localizzato in una costruzione di pietra
(cf. At 2,46; 3,1; 5,21-42; Lc 24,53) e danno forma defnitiva all’insegnamento sapienziale,
perché Dio ora è presente in ciascuna celebrazione da parte della sua assemblea
(1Cor 6,19-20; Rm 8,9; 1Ts 4,4-8; 2Cor 6,16-17; Ef 2,19-22), dovunque si raduni la comunità
orante. Dopo la risurrezione, al Tempio di pietra e alla Sapienza succede lo
Spirito del Risorto che è il garante della Shekinàh/Dimora di Dio nei suoi fgli/e, chiamati
a renderlo visibile nella condivisione del dono messianico della pace (shalom),
che è la somma di tutti di doni di Dio.
Amare è dimorare con la persona amata. Per noi questa dimora è la preghiera
come «luogo» in cui Dio si rende visibile e chi prega si lascia contemplare da Dio.
Solo quando noi saremo questo luogo allargato in cui dimorare con il Padre e il
Figlio, solo allora sapremo comprendere il valore delle parole e sapremo anche
custodirle nel cuore e negli occhi.
3. «Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio
nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi
ho detto». Il termine «Consolatore» è detto in greco Paràcletos e ricorre cinque
volte, solo in Gv, di cui quattro nei discorsi di addio (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7;
1Gv 2,1). Il verbo base è kalèo, «parlo, chiamo». Da questo stesso verbo si formano
sia la parola paràcletos, «consolatore», sia il termine ekklesìa, «chiesa», accomunando
con una stessa espressione la presenza di Dio e la comunità dei credenti,
destinandoli anche ad esprimere lo stesso servizio nell'amore verso il mondo1.
4. «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo,
io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore
». La pace è l’eredità di Gesù ai suoi discepoli, ma non nel senso di una eredità
morale: un genere di pace troppo povero e meschino, che dura lo spazio di un
proposito per essere immediatamente disatteso. In ebraico pace si dice shalòm;
nella tradizione biblica, questo termine è più di un augurio o di un saluto: prima di
tutto è un dono, non frutto degli sforzi umani, ma che si riceve in custodia. La
pace è affdata da Dio a coloro che vogliono essere «fgli/e di Dio», come garantisce
la sesta beatitudine in Matteo (5,9). In tutta la tradizione profetica, shalòm indica
la somma di tutti i beni messianici: in essa è contenuta la vita, la salvezza, la redenzione,
la liberazione, la gioia, il perdono, l’accoglienza, il servizio, l’amore (Is
2,2-4; 9,5-6; 11,1-9; 40,17-18; Zc 8,9-13; 9,9-10; ecc.). Lo stesso Messia è presentato
come «Principe della Pace» (Is 9,5).
Lo «shalòm» lasciato da Gesù ha una caratteristica ancora più intima: è la stessa
persona del Signore che si dona, per cui potremmo dire che «Pace» è il nome
nuovo del Signore risorto, la «dimora» dove Dio si rende presente nell’economia
dell'umanità nuova da lui inaugurata. Essa si oppone alla pace «del mondo», come
si oppone gratuità a interesse. Per il mondo, la pace è l’equilibrio di opposti interessi,
mentre lo «shalòm» che è Gesù s’identifca con la propria vita donata per
amore senza chiedere nulla in cambio. Solo nel dono non c’è turbamento, perché
la gratuità libera da ogni preoccupazione e timore (cf. 1Gv 4,17).
- pro manuscripto -
1 Nel sistema giudiziario semitico, il consolatore è una fgura giuridica che richiama quella
del go’el, «riscattatore/redentore». Quando uno veniva deferito in giudizio davanti agli anziani
radunati alla porta della città, se uno dei giudici, stimati e autorevole, si fosse alzato e
andasse a collocarsi «accanto» all’imputato, senza nemmeno proferire una sola parola,
quell’uomo era salvo sulla garanzia di colui che «rivendicava» la sua innocenza col suo
onore e la sua credibilità. In questo contesto, il «consolatore/redentore» è avvocato, perché
prende le difese di qualcuno e testimonia in suo favore.

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