“...chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (cf. Luca 14,11)
P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare la tua
parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’ tacere in noi ogni
altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella tua parola, letta, ma non
accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita, contemplata, ma non realizzata,
manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro
incontro con la tua parola sarà rinnovamento dell’alleanza e comunione con te e con il
Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto nei secoli dei secoli. A.: Amen.
Canto (facoltativo): Alleluia (Taizè).
L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca
(Lc 14,1.7-14; trad. CEI 2008).
1 Un sabato [Gesù] si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stava -
no a osservarlo. 7 Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi
posti: 8 «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché
non ci sia un altro invitato più degno di te, 9 e colui che ha invitato te e lui venga
a dirti: Cèdigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. 10 Invece,
quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti
ha invitato ti dica: Amico, vieni più avanti! Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali.
11 Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». 12 Disse
poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i
tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché a loro volta non
ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. 13 Al contrario, quando offri un banchetto,
invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 e sarai beato perché non hanno da ricambiarti.
Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Note di esegesi per la comprensione del testo
Il brano del vangelo appena ascoltato ci presenta l'insegnamento di Gesù legato al
vocabolario dell’umiltà, visto non in chiave moralistica, ma nel mondo della relazione.
Non potrebbe essere diversamente perché se la relazione non è umile,
non è vera e si altera l’equilibrio del mondo. Dio non ha creato l’uomo e la donna
per pura appariscenza, ma perché fossero l'icona visibile di Dio nel mondo
creato. L’uomo e la donna, in quanto «immagine di Dio» (Gen 1,26-27) hanno la
funzione di riportare tutto ciò che respira al suo «principio»: guardando Adam ed
Eva il creato dovrebbe rivolgere lo sguardo e il desiderio verso il suo creatore.
Un Dio che mette tra parentesi il suo «mistero» per entrare nella ordinarietà
della vita e del linguaggio di relazione (cf. Fil 2,6-7) è un Dio sconvolgente, perché
parla e si rivela per rendersi accessibile, con la presenza del Figlio che è Lògos,
cioè parola, ragionamento, discorso che può essere capito da tutti. Nella rivelazione
cristiana, Dio si rende ascoltabile, manducabile, palpabile (cf. 1Gv 1,1-4); egli è il
Dio vicino (cf. Dt 4,7). Più approfondiamo le parole della Bibbia e più entriamo in
intimità con la Parola che è Dio stesso. Accogliamo con gioia il volto umano del
Dio di Gesù, fglio di Maria di Nàzaret e dell’umanità tutta per la quale ha offerto
la sua vita. Egli si è messo in fla con i peccatori per chiamare a salvezza tutti i
peccatori e gli esclusi dalle normative etiche del tempo. Entriamo quindi nel tesoro
del vocabolario biblico dell’umiltà/povertà1 per estrarre «cose nuove ed antiche
» (Mt 13,52).
Sul povertà bisogna fare una distinzione. In prima battuta possiamo affermare che
non esiste un povero per scelta, come se la vocazione della persona umana fosse
la sofferenza e la privazione. Siamo creati per essere felici e la felicità comporta
uno stile di vita dove il necessario ad essa deve essere garantito. Oltre al diritto
1 Nel 1° livello semantico, la radice ebraica ‘anâ signifca «risposta, testimonianza, grido»;
da essa si forma anche il termine «coabitazione» (ebr. ‘oenâ). La radice ‘anâ nella Bibbia ricorre
617 volte; dalla stessa radice si forma ‘anâw, «umile, affitto», ‘anâwà «povertà, umiliazione
». Nel 2° livello, dalla stessa radice si forma l’espressione ‘anawým «poveri [di
YHWH]» che costituiscono il nerbo resistente che porta avanti tutta la storia della salvezza
(Is 10,20; Mi 2,12; Sof 3,12-13; cf. Am 9,1; Lc 12,32). I «poveri di YHWH» sono gli
«umili», coloro che «temono il Signore», i «santi», i «giusti», i «fedeli» (Sal 35[34],10; cf.
Sal 25[24], ecc.), coloro che conservano nello scorrere del tempo la coscienza d’Israele
come popolo «servo del Signore», scelto per essere inviato in mezzo alle nazioni. Il povero
non teme Dio, perché «non sarà condannato chi in lui si rifugia» (Sal 34[33],23;
40[39],18; 86[85],1; 140[139],13, ecc.) dato che è in intimità con lui; il Signore «si prende
cura [letteralmente, conosce] di chi in lui si rifugia» (Na 1,7). Un 3° livello di signifcato riguarda
‘anâ nel senso di «costringere, sottomettere, punire»: l’idea sottesa è la sottomis -
sione con la forza, che ricorda come in ogni forma di umiltà o povertà c’è una componente
di violenza.
naturale e inalienabile al cibo e all’acqua, ciò comporta il diritto alla dignità, alla
cultura, alla scuola, all’amore, alla libertà, alla socialità, al lavoro, al riposo, alla casa,
alla famiglia, al tempo libero, al servizio... Perché tutto questo accada è necessario
avere una consistenza economica dignitosa che permetta l’effettivo soddisfacimento
dei bisogni fondamentali e primari. Anche da un punto di vista teologico, la
Chiesa afferma che «Dio è il sommo bene» e vivere in comunione con lui è la felicità
della persona. La stessa vita eterna viene presentata come il perseguimento
della felicità senza fne. La povertà è una violenza che individui esercitano su altri
individui senza averne diritto, per cui si può dire che la povertà è un'ingiustizia radicale
che deve essere abolita. Ciò vale a livello singolo, ma anche a livello di
gruppi e di popoli, come anche a livello mondiale. La povertà che attanaglia due
terzi dell’umanità è un'umiliazione imposta da un sistema economico peccaminoso
che si chiama capitalismo che insulta la dignità della persona umana. L’esistenza
dei poveri è il segno che il mondo è dominato dall’idolatria di mamona iniquitatis
(cf. Lc 16, 9.13).
In seconda battuta, noi affermiamo che la povertà come stile di vita e distacco dai
beni della terra, intesi come ossessione possessiva di cose e persone, è una virtù
che si persegue solo per grazia in funzione della testimonianza, in forza del Vangelo
che è la persona di Gesù. La prima parola della magna charta del Regno di Dio
che egli pronuncia è inequivocabile: «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3; cf. Lc 6,20).
La povertà non è un valore in sé, ma è importante come metodo di testimonianza
e di fedeltà nella sequela: chi ama ossessivamente le cose e le ricchezze non
avrà tempo per le persone e gli affetti, che cercherà ugualmente comprandole e
usandole senza ritegno. I cristiani che seguono Gesù scelgono la povertà come
stile di vita non per amore della miseria, ma come segno sacramentale che è pos -
sibile vivere senza eccessi, senza sprechi, liberi da bisogni pure legittimi per dare
spazio di vita a chi non ha nemmeno l’indispensabile per sopravvivere. I poveri «a
causa del vangelo» affermano che non può esserci giustizia fnché nel mondi vi
sarà disuguaglianza. Se tutti sono fgli/e di Dio, tutti hanno diritto di sedere alla
stessa mensa, di condividere la stessa fraternità e di partecipare alla stessa paternità.
La povertà come scelta di vita e metodo di esistenza deve e può essere scelta
solo liberamente perché esprime la vera immagine di Dio che da ricco che era
si fece povero per arricchire tutti noi (cf. Fil 2,5-8; 2Cor 8,9). Un cristiano «ricco»
è una contraddizione: nessuno può essere ricco se vive del proprio lavoro per
soddisfare le proprie necessità primarie; se uno è ricco vuol dire che ha accumulato
rubando, frodando o esercitando lavori disonesti o utilizzando mezzi ignominiosi.
Ogni individuo la stessa vita e gli stessi bisogni degli altri: una volta sazio, il
resto tracima oscenamente solo per il gusto di possesso. Paradigmatica a questo
riguardo è la vicenda del notabile ricco che messo di fronte alla sua responsabilità
di essere causa della povertà degli altri, fugge anche da se stesso (cf. Lc 18,18-
23; Mc 10,17-22).
In sintesi, possiamo dire che in ebraico il vocabolario dell’umiltà evoca, al 1° livello,
il signifcato dell’ascolto; e ascoltare vuol dire dipendere da qualcuno con cui si è in
relazione vitale. Essere umile non è un atteggiamento umano per annichilirsi, frustrando
realizzazioni e desideri, quasi che solo nella rinuncia si possa essere idonei
per incontrare Dio. Dio è pienezza, non sta mai nella mancanza; se umiltà vuol
dire ascolto, chi ascolta è consapevole di stare davanti ad uno che parla mettendo
tutto se stesso in questa dipendenza di relazione comunicativa che è sorgente di
vita. Ascoltare vuole dire dipendere da chi e da ciò che si ascolta. Nessuno si costruisce
da sé, ma ciascuno di noi vive perché ha dentro di sé una porzione di dipendenza
da tutti coloro che con lui si rapportano. Vi sono dipendenze che distruggono
e uccidono, ma vi sono dipendenze che creano, liberano e sciolgono
nella maturità amante. Al 2° livello semantico lo stesso vocabolario dell’umiltà richiama
l’idea di oppressione, di piegatura, di basso in contrasto con alto per cui l’umile
è colui che è piegato con la testa in basso, mentre qualcuno sta sopra di lui. In
questo senso l’umile è l’impotente che si lascia dominare da una forza più forte:
lo può fare passivamente, subendo; ma può farlo anche attivamente reagendo con
la nonviolenza e quindi con la coscienza che sa di subire senza accettare la conseguente
sottomissione. L’umile è colui che dipende dalla violenza e dalla forza di
un altro che può contrastare solo prendendo su di sé questa violenza perché
solo così, attraverso le sue piaghe, la svela nella sua vera natura che è il desiderio
smodato di possesso e di potere.
Umiltà e possesso sono diametralmente opposti perché nel possesso non c’è
ascolto come dipendenza relazionale, ma dominio imposto con la cecità della violenza
e della forza bruta, autoritaria. L’umile che sopporta svuota la violenza che
lo sovrasta, diventando una diga al dilagare della stessa violenza e del sopruso
gratuiti. Tra il violento e l’umile, il più forte è l’umile. Il primo può piegare con la
forza, ma non può costringere l’anima, mentre il secondo accettando coscientemente
di subire, ha consapevolezza dell’ingiustizia che si compie. Questo è il segreto
della pratica gandhiana della nonviolenza che nasce dall'insegnamento di
Gesù dell’amore ai nemici (cf. Lc 6,36); di fronte alla violenza scatenata contro di
Lui, a cui Pietro vuole opporre la debolezza della sua spada, Gesù ha un solo ordine
perentorio: «Rimetti la spada nel fodero» (Gv 18,11). Dove c’è possesso
non può esserci ascolto e dove c’è dominio non può esserci relazione. Nella relazione
pertanto l’umile dà importanza alla parola di chi parla che accoglie in sé senza
condizioni e senza patteggiamenti. L’umile è persona libera che non ha posizioni
o punti di vista da difendere, ma è sempre attento e aperto a cogliere ogni soffo
di bene e di amore che c’è in ogni cosa, in ogni persona, in ogni evento. Sce -
gliere l’umiltà/povertà come stile di vita signifca avere coscienza di essere in relazione
di comunicazione orizzontale con i propri simili e verticale con il Dio che si
abbassa. In questo modo i poveri sono capaci di rivelare il proprio essere profondo
nel momento stesso in cui è svelato dalla parola che lo manifesta.
Non scegliere il primo posto al banchetto signifca avere la misura della propria
consistenza e ritenere gli altri superiori a sé in forza del principio evangelico che
gli altri sono la parte migliore di noi: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma
ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3).
L’umile non è un debole, un pauroso, non è chi tiene gli occhi bassi o il collo torto
o colui che tace di fronte ad un sopruso dell’autorità in nome di una spiritualità
astratta e così si rassegna di fronte alle ingiustizie del mondo; al contrario, l’umile,
poiché è più vicino alla terra (è in basso) ed è piantato nella vita, non fugge mai di
fronte alle sue responsabilità. Ascolta la realtà, gli avvenimenti, le persone, i sentimenti,
le domande che salgono dalla vita e dalle profondità dell’esistenza e cerca
la risposta insieme agli altri. L’umile è uno che non si esalta e non si appropria di
meriti che non ha, ma riconosce la verità di se stesso perché ascolta il suo cuore
e la sua fede: egli conosce i suoi pregi e i suoi difetti e si rapporta con Dio e con
gli altri come veramente è, senza falsità e inganno, ma con verità assoluta. L’umile
è colui che si pone davanti a Dio riconoscendo le cose grandi che egli compie in lui,
come Maria (cf. Lc 1,49). L’umile non si compiace di se stesso, non si mette in mostra
per attirare l’attenzione, non escogita sistemi infantili per apparire quello che
non è, ma sa di essere nella mani di Dio e di dipendere dalla sua Parola che lo
modella come il vento con la sabbia, l’acqua con la pietra. Da una parte l’umile
manifesta nella trasparenza del vivere e del suo essere il volto del Signore da cui
dipende con amore e gioia perché egli s’inginocchia volontariamente davanti a lui,
riconoscendone la gloria (cf. Sir 3,20). Dall’altra parte l’umile è anche violento
come l’acqua che spegne il fuoco che divampa (cf Sir 3,30), in quanto è colui che è
forte nel dominio di sé e irreprensibile davanti a qualsiasi idolo, uomo o cosa che
presume sostituirsi a Dio nella falsità e nella menzogna. L’umile non ricostruisce
l’equilibrio che non c’è, ma ristabilisce sempre la verità perché egli dipende dall’ascolto
di Dio che è Verità (Gv 18,37).
- pro manuscripto -
sabato 28 agosto 2010
Approfondiamo la Parola domenciale: le lectio del prete Carmine Miccoli
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La Parola che si fa vita
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