sabato 30 ottobre 2010

Approfondiamo la Parola domenicale: Luca 19,1-10 - Le lectio del prete Carmine Miccoli

LECTIO DIVINA

“Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Luca 19,10)

Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 19,1-10 (trad. CEI 2008).

1 Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, 2 quand’ecco un uomo, di


nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, 3 cercava di vedere chi era Gesù, ma non


gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4 Allora corse avanti e, per


riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5 Quando giunse


sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo


fermarmi a casa tua». 6 Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7 Vedendo ciò, tutti


mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 8 Ma Zacchèo, alzatosi, disse al


Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a


qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 9 Gesù gli rispose: 10 «Oggi per questa casa


è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è


venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Note di esegesi per la comprensione del testo

Il vangelo appena ascoltato si innesta nell'annuncio di misericordia che nel vangelo

secondo Lc è al centro della predicazione e del cammino di Gesù, che così

rompe con gli schemi dell'esclusivismo religioso di Israele e s’immerge nell’umanità,

così com'è, senza paura di compromettersi, senza timore di sporcare la sua

credibilità e la sua immagine. A Gesù interessa la persona «qui e ora», senza preoccuparsi

di quello che dicono i «malpensanti»: egli è venuto per annunciare un

nuovo ordine di cose o, come si direbbe oggi, un «altro mondo possibile» e lo fa

sapendo di spezzare un sistema basato sul perbenismo e sull'apparenza.

Il contesto geografco è lapidario e nello stesso tempo tragico: «Gesù entrò nella

città di Gerico e la stava attraversando» (Lc 19,1). Per noi che leggiamo oggi è

solo una annotazione di colore, innocua; al tempo di Gesù, però, il semplice ingresso

in questa città era un atto rivoluzionario. Gerico non è una città qualsiasi,

è la casa della maledizione perché su di essa pesa il giuramento di Giosuè: «Maledetto

davanti al Signore l’uomo che si metterà a ricostruire questa città di Gerico!

Sul suo primogenito ne getterà le fondamenta e sul fglio minore ne erigerà le

porte» (Gs 6,26; cf. 1Re 16,34; Sal 38[37],22; Is 55,11). Gesù entra nella città maledetta

e l’attraversa, cioè la percorre tutta come se volesse misurarne l’ampiezza e

immergersi dentro la maledizione che la sovrasta. Il gesto di Gesù richiama l’ingresso

e l’attraversamento di Nìnive da parte di Giona che si sdegna con Dio

perché vuole perdonare i Niniviti che si convertono (cf. Gn 3,1-4; 4,1-3), mentre

Giona vorrebbe distruggere la città. Gesù entra in Gerico quasi andando alla ricerca

di un uomo perduto al quale annunciare il vangelo del Regno: «Oggi per

questa casa è venuta la salvezza» (Lc 19,9). In questa città maledetta abita un

uomo maledetto da tutti, dalle istituzioni e dal popolo perché è un pubblicano e

quindi un collaborazionista con l’occupante romano che gli ha affdato il monopolio

delle tasse; odiato dal popolo che egli spreme non solo per conto dell’occupante,

ma anche per il suo arricchimento personale. La religione uffciale lo considera

un impuro, alla stessa stregua dei pagani perché è un fglio degenere e perduto

per sempre1.

Il racconto di Zacchèo è esclusivo di Lc e rifette il rapporto «ricchezza-povertà»

che, come abbiamo visto, è un tema molto caro al terzo evangelista, che si differenzia

da Mt che parla di «poveri in spirito», mentre Lc si riferisce semplicemente
ai «poveri» che Gesù predilige in quanto tali (cf. Lc 6,20.24 con Mt 5,2). Lc

condanna la ricchezza in sé perché la ritiene un rischio e un impedimento: il ricco

si sente sicuro, può fare quello che vuole, può comprare tutto, anche le coscienze

delle persone deboli o opportunistiche. Questa parabola conclude una lunga

serie di insegnamenti di Gesù che abbiamo ascoltato negli incontri precedenti. In

Lc 9,51 avevamo iniziato un viaggio con Gesù verso Gerusalemme, un viaggio

deciso e decisivo: un viaggio verso la conoscenza della volontà di Dio che è anche

un viaggio dentro di noi per scoprire la nostra identità di fgli/e e discepoli/e.

Lungo il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, abbiamo incontrato il ricco avaro

che fa i conti senza la morte (cf. Lc 12,13-21), il ricco epulone (cf. Lc 16,19-31), il

fariseo e il pubblicano (cf. Lc 18,9-14), i piccoli (i bambini) difesi da Gesù contro gli

adulti (cf. Lc 18,15-17), il ricco notabile che se ne va triste abbandonando il regno

proposto da Gesù perché attaccato alle sue ricchezze (cf. Lc 18,18-30), il cieco di

Gerico che vede, in contrapposizione ai discepoli che non comprendono (cf. Lc

18,31-43) e infne, prima di «salire a Gerusalemme», approdiamo al Gerico, la

città maledetta. Il racconto di Zacchèo è quasi una sintesi di tutto ciò che

precede, perché nel breve brano vi troviamo tutti gli elementi che abbiamo

elencato: Zacchèo infatti è ricco, pubblicano, piccolo di statura, la folla gli

impedisce di vedere Gesù (come nel caso del cieco di Gerico), espone le sue

ricchezze, ma per distribuirle ai poveri e vive nella città maledetta. Zacchèo, in

ebraico Zakkài, forma abbreviata di Zekharyàh, signifca «Dio si ricorda», ma

l’aggettivo zak signifca anche «pulito, puro». Gesù viene a ricordare a Zacchèo,

che ha sporcato e reso impuro il suo progetto di vita con le sue scelte e azioni, di

essere «anch’egli fglio di Abramo» (Lc 19,9). Gesù è venuto apposta a Gerico per

rendergli la dignità del suo nome, la forza della fedeltà a se stesso e al suo

progetto. Zacchèo ha tutte le caratteristiche dispregiative per essere emarginato

e disprezzato e invece esse diventano titoli adeguati per entrare nella salvezza

che Gesù annuncia come predilezione per i senza speranza. La folla intuisce

subito di trovarsi di fronte ad una novità inaudita e scandalosa e infatti mormora

(Lc 19,7): questo mormorio è un tema ricorrente in Lc, ad esempio nella chiamata

di Levi, quando i Farisei mormorano per lo stesso motivo (cf. 5,30-32); oppure,

come scenario delle due parabole delle misericordia (cf. Lc 15,1-2). In tutti questi

casi in greco l’autore usa lo stesso verbo onomatopeico gongýzo che esprime un

mormorio confuso, ma suffciente a farsi sentire. La folla che avrebbe fatto a pezzi

Zacchèo si lamenta a bassa voce o a denti stretti contro Gesù perché destabilizza il

sentire comune e non rappresenta il Dio che la folla e la religione uffciale si

rappresentano: un Dio che castiga e premia alla maniera della giustizia umana che

ha sempre connotazioni di ferocia e di vendetta. Il mormorio della folla si oppone

alla volontà universale di salvezza di Dio che Gesù viene a manifestare (cf. 1Tm

2,4; Gv 3,16). Si direbbe che la folla sia gelosa della misericordia di Dio, volendo,

come sempre, un «dio» a propria immagine e somiglianza che pensi secondo i

pensieri e i giudizi della massa, ma i pensieri di Dio non sono i pensieri dell’uomo

(cf. Is 55,8-9). Nel regime di religione è più facile convertire Dio a noi che convertirci a

lui.

Notiamo i movimenti e gli atteggiamenti descritti nel brano del vangelo odierno:

- C’è un uomo che ha un nome che signifca «ascolto» e «puro», mentre nella

vita è pubblicano e impuro.

- Si sforza di vedere Gesù, ma glielo impediscono due ostacoli: la folla e la sua statura

«piccola»: 1. la folla è sempre un impedimento a vedere la verità di ciò che

accade: i dittatori, i populisti e i venditori di fumo amano la folla che è un animale

sanguinario e senza coscienza che va dietro a chi grida più forte; la folla,

infatti, è senza pensiero, anzi è uno schermo dietro al quale spesso ci si nasconde

per mascherare la propria violenza e prepotenza; 2. Per vedere bisogna

avere una statura, cioè mezzi adeguati per superare il livello della folla indistinta.

Zacchèo ha coscienza di essere carente in statura e ne trova una supplementare:

sale su un albero, cioè si serve di uno strumento che gli permette di

salire in alto. Non si accontenta di stare in basso e nemmeno alza lo spessore

dei suoi sandali per apparire più alto. Egli al contrario prende la sua piccolezza

per intero e la issa sull’albero, dove resta piccolo, ma non più cieco. Ognuno di

noi deve avere un albero di riserva dove potere salire quando tutto è buio e

nulla si vede all’orizzonte. La domanda è: qual è questo albero? Che nome porta?

Ne ho uno? Oppure mi lascio guidare dall’andazzo della folla, accontentandomi

di vivere per sentito dire?

- Zacchèo ha una risorsa in sé: «corse avanti» (Lc 19,4). Prende l’iniziativa di precedere

sia la folla che Gesù: non potendo andargli dietro, gli va avanti, non si

ferma al primo ostacolo. Il testo greco, tradotto alla lettera dice: «è correndo

verso il davanti salì», quasi a signifcare che il «davanti» è una mèta, un obiettivo

che si può raggiungere solo col e nel movimento. Chi sta fermo non ha

mèta, né progettualità. Correre avanti signifca anche distanziarsi dal sentire comune

e dalla massa e nello stesso tempo prendere coscienza della propria

condizione limitata e insuffciente. Zacchèo trova in sé la risposta al suo problema.

Qui è la chiave della comprensione di sé e del mistero di Dio. Nessuno

può risolvere le nostre diffcoltà o farsi carico delle nostre sofferenze. Nessuno

può sostituirci nel vivere la vita e la morte fno in fondo. Nessuno può decidere

al posto di un altro. Tutti possono essere un aiuto, una presenza, un sostegno,

un/a compagno/a di viaggio, ma la risposta all’anelito di vita e di pienezza è

solo ed esclusivamente dentro ciascuno di noi. Nessuno è mai così nel buio

profondo da non avere in sé un residuo di forze che permettono di correre

avanti e salire sul proprio sicomòro.

- Lc sottolinea che Gesù, «doveva passare di là» (cf. 19,4). Il testo greco usa il

verbo mèllo, «ho l’intenzione di…», che esprime la volontà decisa di mettersi

in gioco: è una scelta. Probabilmente la strada da percorrere aveva una direzione

obbligata, ma nell’economia del vangelo, dove nulla accade per caso, Gesù

doveva passare per Gerico: una necessità che esprime bene l’intenzione di

Gesù di squilibrare le consuetudini e le convenienze. In quel verbo

s’incontrano due necessità: di Gesù che viene apposta per Zacchèo e di

Zacchèo che vuole vedere Gesù, ma non può. Dio non passa a caso, ma viene

apposta «per te».

- Il momento supremo, l’incontro di due sguardi e di due volti: Gesù giunto in

quel luogo, come se fosse il posto esatto di un appuntamento, «alzò lo sguardo

e gli disse» (Lc 19,5). Egli sapeva che c’era qualcuno che lo stava cercando e distingue

quello sguardo tra mille altri, come seppe distinguere il tocco della

donna malata di emorragia da quello della folla anonima (cf. Lc 8,43-48). Chi

ama non si smarrisce nell’anonimato.

- L’invito di Gesù è oltre ogni misura: egli è diretto alla città santa di Gerusalemme

e perde tempo a percorre la città maledetta di Gerico per cercare un

uomo come Zacchèo, un pubblicano e un essere immondo, che tutti odiano a

morte. Non solo, Gesù interrompe il viaggio e afferma: «oggi devo fermarmi a

casa tua» (Lc 19,5). Ancora una volta viene evocata una necessità, ma questa

volta l’evangelista usa un verbo ausiliare che in greco è l’impersonale dêi, «bisogna,

è necessario», che solo nel vangelo di Lc ricorre 17 volte. Esso, secondo

molti autori, esprime la necessità anche di Dio: è un «verbo teologico» perché

manifesta la volontà salvifca di Dio, espressa nell’agire e nelle parole di Gesù. Il

secondo verbo, quello principale, mèno, «resto, mi fermo», comporta l’idea di

stabilità e indica un fermarsi assodato, non veloce o passeggero, ma vissuto

come esperienza determinante (cf. Gv 1,39). Ecco l’obiettivo dell’appuntamento:

fermarsi, anzi stabilirsi a casa di un impuro e di un pubblicano detestabile

perché il Dio di Gesù è veramente un Dio scandaloso: costruisce il suo Regno

con le «pietre di scarto».

- La folla capisce al volo e lo dice: «È entrato in casa di un peccatore» (Lc 19,7);

non s’interroga sul senso della novità di questo giovane rabbi che contraddice

tutte le norme di purità legale, non si domanda perché agisce così; la folla sa

solo «mormorare», che è sinonimo di invidia, di gelosia e di condanna perché

la folla ha sempre e solo la certezza dell’irrazionale e vede ciò che vuole vedere,

ciò che conviene credere nella propria miseria e chiusura.

- La sosta di Gesù nella casa di Zacchèo mette in evidenza che Zacchèo ha un

grave problema, un grande ostacolo alla «visione» di Gesù. Se vuole tornare al

progetto del suo stesso nome, se vuole ritrovare la sua identità di «fglio di

Abramo», non basta che salga su un albero, non basta che corra avanti, bisogna

che faccia anche un passo indietro e ripari, come è possibile, il male che ha fat -

to derubando e angariando tutti/e. L’ostacolo per Zacchèo si chiama «ricchezza

», la stessa del notabile ricco (cf. Lc 18,23), la stessa del ricco crapulone (cf.

Lc 16,19-21), la stessa del ricco stolto (cf. Lc 12,16-21), perché la ricchezza impedisce

l’incontro con Dio (cf. Lc 18,24-25), in forza del principio che non si

può servire Dio e mammona (cf. Lc 16,13). La ricchezza di Zacchèo non è una

ricchezza qualsiasi: essa è «disonesta, ingiusta» (cf. Lc 16,9) perché non è frutto

del proprio lavoro, ma di furto e prevaricazione.

- Gesù non pone un problema morale: non fa la predica, non avanza condizioni,

egli chiede solo di fermarsi a casa di Zacchèo, il quale da questo fatto capisce

da solo l’incompatibilità di quella «presenza» e il suo stile di vita: egli vede perfettamente

il problema e lo rimuove di sua iniziativa, per sua scelta (cf. Lc 19, 8). Restituire la metà dei suoi beni, secondo la Legge, era suffciente a ristabilire

il male fatto, ma egli vuole fare di più, dando il quadruplo ai suoi debitori2. In

questo modo Zacchèo va oltre ciò che è prescritto, per cui la sua generosità si

avvicina a quella di Dio e ne diventa un sacramento visibile: l’uomo disgustoso,

esecrato, odiato diventa il segno visibile dell’agire di Dio. Zacchèo il maledetto

diventa l’espressione visibile della benedizione generosa di Dio.

- La conclusione che nessuno si sarebbe aspettata è traumatica per l’epoca di

Gesù: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è fglio di

Abramo» (Lc 19,9). Zacchèo il pubblicano, lavato e purifcato dall’incontro con

Gesù ridiventa fglio di Abramo, un titolo che i Giudei riservano solo a se stessi

in quanto esclusivi benefciari delle promesse e dei meriti del patriarca (cf. Lc

3,8; Gv 8,33; Rm 4,11-25; Gal 3,7-29). Zacchèo, che è un giudeo rinnegato ed

espulso dal suo stesso popolo e diventato pagano, ridiventa «fglio di Dio» allo

stesso titolo dei Giudei. Nella persona di Zacchèo, Gesù allarga la paternità di

Abramo, la libera dall’angustia della razza, della stirpe e della religione e la riporta

ai confni giusti che sono quelli della creazione, i confni di Àdam che in

Gen 1,26 è creato «immagine e somiglianza» di Dio. Zacchèo è l’Adamo lavato

e purifcato del suo peccato contro Dio e contro il suo prossimo: non più «simile

a Dio», come voleva essere Adamo, ma generoso come Dio, come è Zacchèo,

il pubblicano.

- In Lc 19,10 vi è una seconda conclusione, propria del livello redazionale di Lc:

«Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto»,

un richiamo alle parabole della misericordia del cap. 15, specialmente dell’atteggiamento

del padre nei confronti del fglio perduto (cf. Lc 15,6.9.24.27.32).

Tutti gli esseri umani sono degni della salvezza e Dio la offre a tutti/e, nonostante

il perbenismo di molti cristiani di tradizione, nonostante spesso la stessa religione

uffciale che esclude e condanna nel mormorio, quando non nelle conseguenze.

La crisi della Chiesa cattolica è tutta qui: invece di immergersi nella maledizione

che attanaglia il mondo e portare il vangelo di liberazione, si trastulla a ripristinare

riti e culti morti e sepolti, prima che dal concilio Vaticano II, dal buon senso e

dal buon gusto. Oggi i cristiani, in particolare i cattolici, non esprimono il volto

salvifco e controcorrente di Gesù, ma manifestano una caricatura di Dio con i

loro compromessi, con la strumentalizzazione della fede e con la loro presenza

compromessa nel mondo, fatta di prudenze e connivenze, di sostegno a uomini e

politiche immorali, di collusioni e affari da gestire, mentre uccidono la profezia e

l’annuncio della liberazione totale della persona che in qualsiasi modo è schiava o

non ancora del tutto libera. In questo modo, sono i credenti ad essere poco credibili

e ad alimentare la mancanza di fede nel mondo moderno, impendendo a

molti/e l'ascolto del Vangelo e l’ingresso nel Regno con la loro pratica di condivisione

e di giustizia3. Dovremmo imparare il nostro stile di testimonianza e di annuncio

da Gesù, che non parte dalle esigenze morali o dai “valori non

negoziabili”, ma lascia che queste siano la logica conseguenza di un incontro d’amore

che cambia la vita di un uomo che era perduto e che invece Dio ha recuperato

e restituito a se stesso e alla comunità. Il vangelo di oggi è un annuncio unico

e personale rivolto a ciascuno di noi: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza,

perché anch’io sono fglio di Abramo, anch’io sono fglia di Dio». È la storia di

Dio, ma anche la nostra, con l’aiuto dello Spirito Santo.

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1 Roma, in ogni paese occupato, appaltava la riscossione delle tasse a uomini dello stesso
popolo perché più esperti del territorio e della psicologia dei propri concittadini. In base
alla popolazione, l’incaricato doveva garantire a Roma una certa somma, concordata in
antecedenza; tutto quello che l’esattore riusciva a farsi pagare in più poteva legittimamente
trattenerlo per sé. Questo sistema generava ingordigia e ingiustizie e provocava nel popolo
odio verso gli esattori.
2 Questa misura è prevista dalla legge in un solo caso: «Quando un uomo ruba un bue o
un montone e poi lo scanna o lo vende, darà come indennizzo cinque capi di grosso bestiame
per il bue e quattro capi di bestiame per il montone» (Es 21,37). Questo caso si
verifca quando Davide deve risarcire l’omicidio di Uria, l’Hittita, la cui moglie, Bersabea,
aveva preso con prepotenza e che il profeta Natan, con una parabola, paragona alla pecorella
di un povero, uccisa e mangiata dal ricco; sarà lo stesso Davide a stabilire così la sua
condanna, ben prima di riconoscere il suo peccato: «Pagherà quattro volte il valore della pecora,
aver aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà» (2Sam 12,6).
3 Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Gaudium et Spes 19-20.

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