domenica 27 marzo 2011

Le lectio del prete Carmine Miccoli: Giovanni (4 Domenica IV/A di Quaresima - 20 marzo 2011)

Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)


LECTIO DIVINA

“Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità” (cf. Gv 4,24)

Canto (facoltativo), a scelta della comunità.

Dopo un’opportuna introduzione, si può invocare lo Spirito Santo con il canone Veni Sancte Spiritus o

Vieni, Spirito Creatore (Taizè), o altra preghiera simile, come la seguente.

P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare

la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’

tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella

tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,

contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e

a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnova -

mento dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto

nei secoli dei secoli. A.: Amen.

Canto (facoltativo): Alleluia (Taizè).

L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Giovanni (Gv 4,[3]5-

42[43]; trad. CEI 2008; tra [] le parti omesse dalla liturgia).

[3 Gesù lasciò allora la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. 4 Doveva perciò

attraversare la Samaria.] 5 Giunse ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al

terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6 qui c’era un pozzo di Giacobbe.

Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno.

7 Giunse una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi

da bere». 8 I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9 Ma la donna

samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una

donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10 Gesù le

risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da

bere!”, tu avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11 Gli dice la donna: «Signore,

non hai secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua

viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo

e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13 Gesù le risponde: «Chiunque beve

di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14 ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà

mai più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua

che zampilla per la vita eterna». 15 «Signore – gli dice la donna – dammi quest’acqua,

perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». 16 Le

dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17 Risponde la donna: «Non ho

marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. 18 Infatti hai avuto

cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19 Gli

replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! 20 I nostri padri hanno adorato

Dio su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna

adorare». 21 Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte, né a

Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate quel che non conoscete, noi

adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23 Ma viene

l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così

infatti il Padre vuole che sia quelli che l’adorano. 24 Dio è spirito, e quelli che lo

adorano devono adorare in spirito e verità». 25 Gli rispose la donna: «So che deve

venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». 26 Le

dice Gesù: «Io-Sono, che parlo con te». 27 In quel momento giunsero i suoi discepoli e

si meravigliarono che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa

cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28 La donna intanto lasciò la sua anfora, andò

in città e disse alla gente: 29 «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello

che ho fatto. Che sia lui il Messia?». 30 Uscirono allora dalla città e andavano da lui.

31 Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». 32 Ma egli rispose loro: «Io ho da

mangiare un cibo che voi non conoscete». 33 E i discepoli si domandavano l’un l’altro:

«Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». 34 Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare

la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35 Voi non dite forse:

ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e

guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36 Chi miete riceve salario e

raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme e chi miete. 37 In

questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. 38 Io vi ho

mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete

subentrati nella loro fatica». 39 Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la

parole della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 40 E

quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase

là due giorni. 41 Molti di più credettero per la sua parola e 42 alla donna dicevano:

«Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e

sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». [43 Dopo questi due giorni

ripartì di là per la Galilea.]

Segue la meditazione della Parola proposta dalla guida della celebrazione; dopo un momento personale di

silenzio per la lectio, si prosegue con la condivisione comune sulla Parola ascoltata. Al termine, ognuno

dei presenti può proporre un’intenzione di preghiera; ad ognuna, l’assemblea canta o risponde con un’acclamazione.

Si conclude con la preghiera del Padre nostro… [e la benedizione finale].

Note di esegesi per la comprensione del testo

Il vangelo di Gv, al capitolo 4, ruota attorno a quattro temi: il pane, l’acqua, il culto,

la missione; su tutti prevale però il tema dell’acqua che diventa anche la chiave interpretativa

di questo brano e dell’intero capitolo.

Sgomberiamo subito il terreno da ogni equivoco: Gesù non ha mai pronunciato

un discorso così complesso come quello riportato da Gv. L’intero capitolo fa parte

del piano dell’autore che espone, alla fine del sec. I, una teologia elaboratissima,

condensata per temi lungo tutto il vangelo (lo stesso avviene, ad esempio, al capitolo

6, dove c’è un lunghissimo discorso sul «pane disceso dal cielo», oppure nei

capitoli 13-17, dove troviamo i «discorsi di addio» nel contesto della Cena). Il capitolo

espone, quindi, la teologia della comunità giovannea.

Gesù è stato in Samarìa diverse volte, perché per andare dalla Galilea a Gerusalemme,

doveva attraversare la Samarìa che è la regione centrale della Palestina; la

sosta al pozzo di Giacobbe o di Sìcar1 è una sosta obbligata per qualsiasi viandante

o pellegrino. Nulla impedisce di pensare che Gesù abbia incontrato Samaritani

e Samaritane con cui ha parlato, nonostante l’opposizione atavica tra Giudei e Samaritani

che si trattavano da nemici. L’incontro con la donna è nello stile tipico di

Gesù che infrange spesso il costume sociale e religioso del suo tempo, suscitando

stupore, reazioni e avversità. Qui i discepoli «si meravigliavano che parlasse con

una donna» (v. 27), come scribi e farisei «mormorano» perché parla, accoglie e va

in casa di pubblicani e prostitute (Lc 5,30; 15,2; 19,7).

Osserviamo la struttura del testo per cogliere la profondità che l’autore vuole

comunicarci. Tutto il capitolo ha un andamento circolare, perché segue lo schema

progressivo A, B, C, D, C’, B’, A’, detto schema a chiasma o ad incrocio. In questo

schema, molto comune nel vangelo, il primo elemento è sempre in rapporto all’ultimo

(A e A’), il secondo al penultimo (B e B’), il terzo al terzultimo (C e C’) e

tutti convergono verso un centro costituito o da una affermazione o da un fatto

(D). Ne diamo lo schema di massima:

A (vv. 3-6) Gesù parte verso la Galilea passando per la Samaria.

B (vv. 7-15) Gesù chiede da bere alla Samaritana: dialogo sulla duplice acqua.

C (vv. 16-18) Gesù svela chi è alla Samaritana.

D (vv. 19-26) Adorazione in Spirito e Verità.

C’ (vv. 27-30) La Samaritana svela ai paesani chi è Gesù.

1 È il nome della città vicina al pozzo di Giacobbe (Gen 33,19; Gs 24,32). Alcuni la identificano

con la città di Sichem, che fu il primo posto in cui Abramo si fermò quando entrò

per la prima volta in Palestina (Gen 12,6). In essa abitò Giacobbe che vi comprò il campo

dove fu seppellito Giuseppe (cf. At 7,16). Nella distribuzione della terra, Sichem fu data alla

tribù di Efraim. Qui Giosuè fece il suo ultimo discorso agli Israeliti (Gs 24,1-25; Gdt 5,16).

Fu la prima capitale del regno del nord dopo la scissione di Israele in due regni (1Re

12,25), ma in seguito perse importanza. Dopo l’esilio ridiventò la città più importante della

Samaria. Nel 108 a.C. i Giudei la distrussero; nacque l’inimicizia acerrima tra Giudei e

Samaritani, ancora vivissima al tempo di Gesù (cf. Gv 4,9).

B’ (vv. 31-38) I discepoli chiedono a Gesù di mangiare: dialogo sul duplice pane.

A’ (v. 43) Gesù riparte dalla Samarìa per la Galilea.

Questa struttura, che può applicarsi ulteriormente ad ogni singola unità, ci dice

tre cose: a) il capitolo possiede un'unità globale; b) il vangelo non può essere letto

superficialmente, perché ogni parola nasconde sempre diversi significati; c) l’intento

di Gv non è quello di raccontarci un fatterello edificante della vita di Gesù,

una pillola soporifera ante litteram, ma vuole guidarci a scoprire la personalità di

Gesù di Nazaret, accreditato come Messia e Figlio di Dio, a cui attribuire i titoli e

le qualità del Dio d’Israele, YHWH. Di tutto il capitolo, è evidente che tra i quattro

temi che lo compongono, quello dell’acqua è il più importante, anche per la

sua simbologia.

In Oriente, andare a prendere l’acqua dai pozzi era compito riservato alle donne;

per questo motivo, i pozzi erano uno dei luoghi in cui i giovani andavano spesso

per intrattenersi con le giovani in età da matrimonio. D'altronde, attorno ai pozzi

si facevano contratti e si stipulavano promesse, si combinavano matrimoni e si

decidevano guerre o amicizie; pur essendo spesso al di fuori dell’abitato, il pozzo

era uno dei perni della vita sociale del Medio Oriente antico. Ancor oggi, l’affronto

più grave che si possa fare in Oriente tra tribù nomadi è inquinare il pozzo

con escrementi di animali o con pietre (Gen 25,15; 26,18). L’acqua è la vita; chiunque

scava e trova un pozzo deve porre dei segnali visibili perché tutti possano

usufruirne. Tutta la storia dei patriarchi si svolge attorno ad un pozzo e nelle loro

peregrinazioni di nomadi passavano da un pozzo all’altro. Essi scavarono pozzi per

sé e i loro discendenti perché il pozzo garantisce il futuro (cf. Gen 26,12-22). Al

valore economico e sociale, si aggiunge il significato simbolico che il pozzo ha nella

tradizione d'Israele e della Chiesa: la Scrittura stessa è paragonata ad un pozzo

che non si esaurisce mai perché è contemporaneamente profondità e sorgente: la

profondità perché tocca il mistero di Dio, la sorgente perché trabocca e disseta i

popoli, di cui bisogna prima dissetarsi e poi portarne anche agli altri2. Gesù si presenta

alla Samaritana come un nuovo patriarca che scava un pozzo nuovo, non

più materiale, ma un pozzo da cui scaturisce l’acqua viva dello Spirito di Dio. Forse

Gesù pensa al profeta Amos per il quale la sorgente d’acqua è simbolo della Parola

di Dio (4,4-8; 8,11), oppure a Isaia per il quale la sorgente d’acqua è la liberazione

apportata da Dio (Is 12,1-4), o ancora a Geremia per il quale la sorgente

d’acqua viva è il pozzo della sapienza e della Legge di Dio (Ger 17,6-8).

Il vangelo di Giovanni usa sempre un linguaggio ambiguo: ogni sua parola, affermazione

o fatto descritto ha due livelli, quello materiale del significato immediato e

quello nascosto del significato profondo. Giovanni punta sempre a questo secondo

livello, che non è immediatamente visibile, ma che è quello più rivelativo, ri-

2 Cf. Origene, Omelie sulla Genesi X,2. Sempre Origene, commentando Ct 4,15, paragona la

fanciulla innamorata ad un «pozzo di acque vive», dando alla Scrittura il valore di un luogo

nuziale, in cui si celebra l'alleanza tra Dio e il suo popolo.

spetto al senso comune. In questo brano, per es., per dire «pozzo» si usano in

greco due termini: pegê, che significa sorgente (v. 6) e phréar, che significa pozzo

(vv. 11-12). Questi due termini sono usati dalla Bibbia greca dei LXX e anche dalla

tradizione giudaico-cristiana: col primo termine si sottolinea l’abbondanza, con secondo

la profondità. Ne troviamo una traccia, ad esempio, in Origene per il quale il

pozzo è simbolo del Verbo di Dio che offre continuamente l’acqua della vita (cf.

Gv 4,14)3. Da queste premesse, comprendiamo che Gv non intende raccontarci

una cronaca della vita di Gesù, ma vuole guidarci a scoprirne la personalità. Tutto

il capitolo 4 è una ripresa del simbolismo che attraversa tutta la Scrittura, di cui

diventa anche una parola chiave. L’acqua viva è simbolo della vita stessa di Gesù e

dello Spirito che lui dona, come anche della rivelazione di Cristo. In Gv 3,5 Gesù

dice a Nicodemo: «Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel

regno di Dio» e in Mc 1,8 Giovanni Battista avverte espressamente: «Io vi ho battezzati

con acqua; ma egli vi battezzerà nello Spirito Santo» (cf. anche At 1,5;

11,16). In 1Gv 5,8 si aggiunge un altro elemento per costituire una trilogia: «lo

Spirito, l’acqua e il sangue» come testimoni concordi sulla persona di Gesù.

Gesù è un uomo carico di pesantezza: è stanco (v. 6) e ha sete (v. 7); si ferma al

pozzo, come avrebbe fatto qualsiasi viandante. Arriva una donna. A rigore di consuetudine

(un uomo, in particolare un rabbì, non si rivolge ad una donna, poiché è

considerato una perdita di tempo) e di inimicizia (un giudeo e un samaritano

sono nemici cordiali) i due non avrebbero dovuto parlare tra loro, ma Gesù

come è suo solito rompe gli schemi e instaura con la donna un dialogo profondo

e trasformante. L’evangelista ci tiene a descrivere la scena: era mezzogiorno (v. 6),

l’ora più afosa della giornata; gli apostoli sono via a fare provviste (v. 8) e dunque

sono assenti; Gesù è solo, con la donna. In questa scena vi è adombrato il tema

nuziale dell’alleanza, che d'altronde è detto esplicitamente quando Gesù invita la

donna ad andare a chiamare il marito ed ella deve confessare che, pur avendo

avuto cinque uomini e vivendo ora con un sesto, «non ha marito» (vv. 16-19).

Gesù rivela la personalità della donna, che rappresenta l’intera Samaria, la cui religiosità

era idolatrica, perché veneravano sette divinità straniere suddivise in cinque

città (2Re 17,29-34), oltre al Signore, che era il sesto uomo-non marito. In altre

parole in Samarìa regnava un grande sincretismo religioso, che mescolava il «Signore

» con gli «idoli». In ebraico, marito si dice ba‘al, che è anche il nome con cui

vengono indicati gli «idoli» che inducono ad una religiosità di prostituzione; in Gv

3 «Di là andarono a Beer. Questo è il pozzo di cui il Signore disse a Mosè: “Raduna il popolo e io

gli darò l’acqua”… Questo indica che ciascuno di noi ha in se stesso un pozzo… Leggiamo

che anche i patriarchi ebbero dei pozzi: ne ebbe Abramo, ne ebbe Isacco (Gen 26,15);

penso che ne avesse anche Giacobbe (Gv 4,6). Prendendo l’avvio da questi pozzi, percorri

tutta la Scrittura, ricercando i pozzi, giungi fino ai Vangeli, e là troverai il pozzo sul bordo

del quale stava seduto (Gv 4,13-14) il nostro Salvatore… Quando si fa menzione del pozzo

e della fonte, è da intendere che si tratta del Verbo di Dio: pozzo, se tocca la profondità

del mistero; fonte, se trabocca e si espande ai popoli» (Omelie sui Numeri XII,1).

4 il termine «marito» ricorre cinque volte. I mariti/padroni della donna

diventano così il simbolo dell’idolatria che è la dissoluzione del volto e del Nome

di Dio, Colui che è «Uno». Gesù si colloca sulla linea del profeta Osea e viene a

recuperare la verità dell’alleanza nuziale offuscata e compromessa dall’idolatria

(cf. Os 2,18-19). Alle nozze di Cana (Gv 2,1-11) l’evangelista ha esposto il tema

dell’alleanza come nuzialità, nel segno dell’abbondanza del vino, come simbolo dei

tempi messianici; subito dopo Giovanni Battista aveva definito Gesù come lo

«sposo» (Gv 3,29). Ora, con la Samaritana, lo stesso tema viene ripreso e

applicato anche oltre i confini d’Israele, perché l’alleanza porta all’unità coloro

che prima erano nemici, anticipando così anche il ministero di Gesù che sarà

tutto proteso alla riconciliazione del mondo nel segno del suo sangue, cioè della

sua vita donata. Dal libro degli Atti sappiamo che dopo la morte di Gesù anche la

Samaria accolse la Parola di Dio e il fatto stupì tanto gli apostoli che inviarono a

verificare Giovanni e Pietro (cf. At 8,14). L’acqua che Gesù dona alla donna di

Samarìa è il simbolo dello Spirito Santo, quello stesso Spirito che darà la forza alla

Chiesa di essere testimone non solo in Gerusalemme e Giudea, ma anche in

«Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,8), fino a crescere nell’unità della fede

superando l’inimicizia e l’odio atavici che avevano segnato la storia della Giudea e

della Samarìa (At 9,31). In questo contesto i Samaritani che corrono per

conoscere Gesù danno volto e nome alle «messi che biondeggiano per la

mietitura» (Gv 4,35), aprendo così il simbolismo dell’acqua-Spirito alla missione

universale.

Il cuore del brano e dell'intero capitolo quarto è nei vv. 19-26 dove si sviluppa il

dialogo sul culto spirituale. Da dove nasce questo rapporto tra il luogo dell’adorazione

e l’acqua viva che simboleggia lo Spirito e quindi il culto spirituale, il solo

che Dio vuole? Il vangelo nasce in un conteso giudaico e fino alla distruzione del

secondo Tempio (70 d.C.) circolavano tradizioni legate al culto che si sono mantenute

anche dopo la distruzione, almeno come tracce. Nella Genesi si legge che

Noè dopo il diluvio costruì un altare sul quale offrì sacrifici a Dio che s’impegnò

così a non distruggere più l’umanità (Gen 8,20-21). Questo altare edificato da

Noè dalla tradizione giudaica è stato identificato con la «pietra di fondazione»

(eb.: èben shetyàh) del mondo, che a sua volta veniva identificata con la pietra che

si trovava nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme e sulla quale Abramo

aveva offerto in sacrificio il figlio Isacco; su questa pietra era posta l’Arca dell’alleanza.

Nella festa di Sukkôt, sulla pietra-altare veniva versata una grande quantità

di acqua, come libagione, che attraverso un canale speciale raggiungeva le «acque

dell’abisso», dove si ricongiungevano con quelle di Noè che Dio vi aveva confinato.

Questo rituale era chiamato «cerimonia dell’attingimento dell’acqua» ed era

ispirato ad una parola del profeta Isaia (Is 12,3). La liturgia aveva sintetizzato nella

festa di Sukkôt il «memoriale» di tutte le acque della storia della salvezza: da

quelle della creazione, ai pozzi del deserto fino alle acque escatologiche, celebrate

per tutta la durata della festa nella processione quotidiana dal Tempio alla piscina

di Sìloe, che era situata in basso rispetto al Tempio. Qui si attingeva l’acqua di

libagione che la tradizione aveva collegato al dono dello Spirito Santo (Midrash

Tannaim 94). In Gen 29,2 incontriamo Giacobbe che va a cercarsi moglie nella terra

del fratello di sua madre: «Vide un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame». Il

Midrash Genesi Rabbà a questo testo così commenta: «Il pozzo è simbolo di Sion

[=Gerusalemme, cioè il Tempio e il suo altare], i tre greggi sono le tre feste [Pesàh/

Pasqua, Sukkôt/Tende, Shavuôt/ Settimane]. Come dal pozzo si abbeverano i

greggi, così dal Tempio si è impregnati di Spirito santo» (Gen Rabbò 70,8-9). In

questi testi troviamo così connessi l’acqua, lo Spirito, il culto, il Tempio e il deser -

to che richiama l’alleanza. Gesù è seduto al pozzo di Giacobbe, come se esso fos -

se il trono che nella festa di Sukkôt era riservato al Messia: non solo, ma qui il

pozzo prende il posto del Tempio e Gesù ne prende possesso come dominatore

delle acque del diluvio e di quelle della pioggia (Sal 29[28],3; 89[88],10). Gesù si

presenta alla samaritana come il nuovo Tempio da cui sgorgherà la sorgente viva

dello Spirito Santo. Al momento della morte, infatti, poco dopo che «consegnò lo

Spirito» (Gv 19,30) noi riceviamo un’altra simbologia: «Uno dei soldati con una

lancia gli colpì il fianco e subito ne uscì sangue ed acqua» (Gv 19,34). Lo Spirito

consegnato nella morte, che per Giovanni è la Pentecoste, è significato nell’uscita

dell’acqua dal suo costato perché è lui il nuovo Tempio da cui tutti gli uomini e

tutte le donne attingeranno «acqua con gioia alle sorgenti della salvezza» (cf. Is

12,3). C’è ancora un altro collegamento che spiega questa prospettiva. Dopo la

visione della scala santa che univa il cielo e la terra e da cui «salivano e scendevano

gli angeli di Dio», Giacobbe esclama: «Il Signore è in questo luogo e io non lo

sapevo» (Gen 28,16). Il dialogo di Gesù con Natanaele si chiude con l’allusione al

sogno di Giacobbe (Gv 1,51); a questo riferimento segue immediatamente il racconto

delle nozze di Cana con il tema della nuzialità, che si conclude con il fatto

drammatico della cacciata dei venditori dal Tempio, che lo stesso Gesù identifica

con il suo corpo (Gv 2,21). Dopo il dialogo con Nicodemo (Gv 3,1-14) in cui si

esprime l’esigenza di «nascere da acqua e da Spirito» (cf. Gv 3,5-8) e la testimonianza

di Giovanni il Battista che indica in Gesù lo Sposo atteso (Gv 3,25-30), finalmente

si arriva all’incontro con la donna samaritana dove tutti questi temi

sono ripresi e riformulati attorno all’idea del nuovo culto spirituale. Il costante riferimento

al patriarca Giacobbe, dalla visione della scala al pozzo di Sìchem a lui

attribuito porta solo ad una conclusione: come Giacobbe fu il padre di dodici figli

che diedero la vita alle dodici tribù d’Israele, cioè al popolo di Dio, così Gesù è il

nuovo patriarca che dà l’acqua dello Spirito Santo a Israele, ai suoi nemici Samaritani

e a tutti gli esseri umani, instaurando un nuovo culto che non ha più bisogno

di luoghi e spazi sacri, ma si colloca nel profondo della coscienza di ciascuno,

per attingere da ciascuno le acque della propria identità che lo solo Spirito Santo

può identificare, riconoscere e versare in libagione.

Con questo dialogo tra Gesù e la Samaritana avviene un grande evento che si

compie per mezzo di una donna: il passaggio dal regime della religione alla stato

della fede. Se non si adorerà Dio né sul monte dei Samaritani e nemmeno nel

Tempio di Gerusalemme, significa che inizia un'èra nuova che cambia le modalità

e gli statuti religiosi, perché Gesù non fa altro che proporre un culto «laico» che

supera le religioni e gli ordinamenti di cui esse hanno bisogno, situandosi in quell’ambito

invalicabile che è la coscienza di ciascuno/a, l’unico luogo profondo dove

ognuno può e deve incontrare Dio. Nel pozzo della propria personalità si può

trovare la vera identità che si esprime con categorie spirituali che la religione non

conosce. Inizia il tempo della fede che si fonda sulla Parola, sulla conoscenza, sull’incontro,

sul dialogo, sul rapporto personale. La religione è altra cosa rispetto

alla fede: la prima ha bisogno di gesti e atti esteriori e non esige una adesione interiore,

ma comporta l’esatta esecuzione dei riti esterni; la fede al contrario vive

di Spirito e respira solo per adesione interiore perché tiene sempre vivo l’appello

alla coscienza come perenne vigilanza e costante valutazione vocazionale. La religione

ha adepti e funzionari, riti sontuosi e masse festanti; la fede invece ha convocati

e celebranti, silenzio e comunità oranti. Superato il livello idolatrico ed entrando

nella logica del culto spirituale, la Samaritana è in grado di andare oltre la

fragilità della umanità di Gesù per scoprire la sua vera identità. Da parte sua Gesù

anche nella fragilità umana non perde mai il contatto con la profondità di sé perché

conosce sempre il suo «dove», cioè la sua consistenza e la prospettiva della

sua vita. Giacobbe non sapeva di trovarsi in un luogo santo, la samaritana non sa

di adorare chi non conosce, mentre Gesù sa perfettamente chi è: «Io-Sono che ti

parlo» (v. 26). Usando l’espressione greca Egô-Eimì, «Io-Sono», che è la stessa usata

dalla Bibbia greca della LXX, usata dai primi cristiani, Gesù attribuisce a sé tutte

le caratteristiche del Dio di Israele. In altre parole, con l’espressione «Io-Sono»

Gesù rinnova la teofania di YHWH a Mosè sul monte Oreb (Es 3,14). Là Dio si

manifestava al grande condottiero e profeta, qui Gesù rivela la sua personalità ad

una donna, un modello di dubbia religiosità, di un popolo idolatra e nemico. Il

pozzo di Giacobbe ai piedi del monte Garizim4 prende il posto del Sinai, come il

dono della Toràh diventa qui il culto spirituale, cioè il dono dello Spirito di Gesù.

La conoscenza, frutto della rivelazione, provoca una conversione radicale, un cambiamento

di vita: la donna lascia la sua anfora e corre verso il suo paese improvvi -

sandosi missionaria e discepola. Il testo greco per dire «anfora» usa il termine hydrìa

(v. 28) che è lo stesso che si usa per le nozze di Cana (Gv 2,6-7): esse sono di

«pietra» come le tavole della Legge. Lasciando la sua anfora al pozzo, la donna lascia

la Toràh e tutta la precettistica ad essa connessa e corre libera verso il mon-

4 Il monte Garizim, alto 881 metri, ancora oggi è il luogo dove i Samaritani celebrano la

Pasqua con il sacrificio dell’agnello. Alla fine del tempo, si raccoglieranno su questo monte

per attendere il Taheb («Restauratore»), che per i Samaritani è il Messia. Nell’AT si parla

di Iotam, figlio di Gedeone, famoso «giudice» di Israele che sale sul Garizim da dove narra

la parabola degli alberi che si contendono il potere di governare (Gdc 9,7-16), in contrasto

con il fratellastro Abimelek che, dopo aver eliminato in un bagno di sangue i suoi 70 fratelli

(Iotam era l’unico scampato), aveva tentato di imporsi come re di Sichem.

do. L’anfora era il suo legame con il pozzo da cui attingeva l’acqua della Legge, ma

senza dissetarsi mai perché ogni giorno doveva bere per vivere. Lo Spirito dato

da Gesù invece è un’acqua che toglie la sete per sempre.

Agli apostoli che ritornano dal fare provviste per il viaggio e che insistono perché

mangi qualcosa, Gesù parla di «un cibo che voi non conoscete» e che Gesù stesso

spiega che il suo «cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (vv. 32.34;

cf. Gv 5,30; 6,38). Nella tradizione sia biblica che giudaica il cibo è spesso associato

alla Sapienza che imbandisce la tavola e invita a nutrirsi (Pr 9,1-6). Per il Siracide

il «pane dell’intelligenza» è collegato all’«acqua [che la] Sapienza… darà da

bere», per cui si può dire che se il cibo è legato all’acqua che è simbolo dello Spirito,

fare la volontà di colui che lo ha mandato significa accogliere lo Spirito simboleggiato

sia dall’acqua che dal cibo. A sua volta lo Spirito orienta verso le messi

biondeggianti, cioè verso l’umanità in attesa, verso la missione (Gv 6,39). Questo è

il compito di Gesù trasmesso ai discepoli: rivelare la volontà del Padre e del Figlio

agli uomini e alle donne di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Vi possiamo qui trovare

anche un’allusione al battesimo che da sempre associa l’acqua, lo Spirito e la

missione (cf. 1 Cor 12,13). L’acqua, il pane, il culto e le messi abbondanti ci rimandano

a noi stessi. Non basta essere battezzati o credere o appartenere ad una

chiesa o farsi una chiesa su misura: bisogna sostare al pozzo profondo della propria

esistenza e non fermarsi ai bordi, non limitarsi ad attingere acqua, ma bisogna

scendere in profondità perché soltanto nell’intimo più profondo del nostro pozzo

interiore possiamo scoprire la nostra vera personalità e infine incontrare il Cristo,

meravigliandoci che lui era già seduto lì ad aspettarci. Scopriremo i nostri

“ba‘al” e chiederemo l’acqua viva della Parola di Dio e dello Spirito Santo e finalmente

anche noi lasceremo la brocca per terra e correremo verso il mondo

dove le messi attendono il nostro lavoro e la nostra testimonianza.

- pro manuscripto -

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