sabato 24 ottobre 2009

Approfondiamo la Parola: le lectio del prete Carmine Miccoli

Marco 10, 46-52

Il racconto di guarigione dalla cecità è un classico riportato da tutti è quattro i
vangeli, ciascuno secondo la propria prospettiva. Il testo di Mc è più dettagliato
degli altri sinottici (Mt 20,29-34; Lc 18,35-43); da parte sua Gv vi dedica un intero
capitolo e sviluppa una teologia tutta particolare (Gv 9,1-41). Mc e Lc parlano di
un solo cieco, Gv di un cieco nato e Mt di due ciechi; anche l’invocazione del cieco
non è uniforme, ma è riportata con alcune varianti. Tutti e tre i sinottici sono univoci
sia nel titolo «Figlio di Davide» che attribuisce a Gesù una portata messianica,
che nella richiesta del perdono come condizione della guarigione; si differenziano,
invece, nell’invocazione del «Nome»: Mc usa il nome proprio «Gesù», dopo il titolo
messianico; Lc, al contrario, lo pone prima del titolo; Mt invece lo sostituisce
con il titolo pasquale «Signore». L’uniformità difforme o concordanza discordante è il
segno che queste invocazioni ben presto divennero formule liturgiche delle rispettive
comunità usate fuori da ogni contesto storico. L’invocazione riportata da
Mc è forse la formula originale.
Un’altra differenza consiste nel fatto che Mc 10,49-50 sono esclusivi di questo testo
perché conferiscono a tutto il racconto la portata di una iniziazione alla fede:
la guarigione del cieco diventa così lo schema di un rituale di catecumenato; esamineremo
questo rituale passo dopo passo secondo il metodo sapienziale per imparare
anche noi lo stile della conversione. Il cieco, infatti, è simbolo della comunità
dei discepoli che ancora non sa vedere la vera personalità di Gesù che è già
alle porte di Gerusalemme, dove incontrerà la morte. Il cieco è ciascuno/a di noi
quando rifutiamo il «collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista» (Ap 3,18),
restando così prigionieri della nostra immagine di Dio.
(v. 46ab) Giunsero a Gerico. Mentre Gesù partiva da Gèrico... Il cammino della
fede non inizia da una decisione della volontà, ma da un fatto: Dio nella persona
di Gesù deve passare per la strada dove noi ci troviamo. L’iniziativa è di Dio, a noi
il compito di accorgerci della sua presenza. La partenza di Gesù ha il sapore di un
esodo da Gerico a Gerusalemme, alla terra promessa del monte Calvario: dopo
l’esodo dall’Egitto e la traversata del deserto, Gerico è la prima città della terra
promessa conquistata da Giosuè non con le armi, ma con un atto liturgico, la processione
dell’arca che «circonda» sette volte le mura della città al suono delle
trombe (Gs 3,1-17; 6,1-27). Il cammino di fede non è un punto di arrivo, ma un
esodo nuovo: per arrivare, bisogna partire. A volte nella nostra vita di fede ecclesiale,
non solo diamo la sensazione di essere arrivati, ma anche di essere piantati
nell’immobilismo più degradante. Credere è avere scarpe da montagna per camminare
verso una mèta che il Signore indicherà e che noi già conosciamo: vivere
in comunione con Gesù di Nàzaret, il Figlio di Dio.
(v. 46c) Il fglio di Timeo, Bartimeo, che era cieco. Riportare il nome in un contesto
dove quasi tutto è anonimo, può signifcare che si tratti di un personaggio conosciuto,
oppure che il fatto riportato abbia avuto una tale eco che se ne parlava
ancora dopo tanti anni. Di questo «fglio di Timèo» sappiamo tutto: il suo nome,
quello del padre, la sua condizione di cieco. Nella Bibbia la cecità è simbolo delle
tenebre che si oppongono alla luce: il profeta Isaia, per annunciare la fne della
catastrofe del 732, lo annuncia come una guarigione collettiva dalla cecità (Is 9,1);
Gv descrive la lotta escatologica messianica come lotta tra luce e tenebre (Gv 1,5).
Essere fglio e avere un padre non è uno scudo suffciente per proteggere dalla
«cecità»; Bartimeo si trova in una condizione che defnisce e condiziona la sua
esistenza: non è una persona perché di lui ci accorge perché «era cieco» e dal
contesto si evince che dà anche fastidio. Essere cieco non signifca solo la
privazione di una facoltà, ma signifca essere tagliati fuori dall’esistenza perché
impone una dipendenza e una provvisorietà senza soluzione, fno alla morte.
Spesso si è ciechi, pur vedendoci, perché non siamo in grado di leggere i segni dei
tempi e di vedere la vita e il suo senso profondo (Gv 3,19-21).
(v. 46d) Sedeva [gr. kàthemai, “se ne stava seduto”] lungo la strada a mendicare. Il testo
greco dice letteralmente che se ne stava seduto, come se fosse inchiodato sulla
strada, mettendo in evidenza lo stato di immobilismo. La strada, che è il luogo del
movimento, diventa il luogo dell’immobilità: sedere sulla strada signifca non vivere,
essere alla mercé di tutti e ciò vale anche per la vita di fede perché credere è
andare verso qualcuno, non starsene immobili nel recinto di una religiosità che
apparentemente assicura sicurezza, mentre al contrario chiude nel proprio narcisismo.
Non credere è essere inchiodati all’immobilità della vita, camminare è stare
nel cuore della vita che è movimento e ricerca.
(v. 47a) Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire... Bartimèo non
vede Gesù perché è cieco, ma «sente» la sua presenza. Gli occhi sono solo un
mezzo, la vera vista è quella del cuore. In mezzo alla strada, nel traffco, tra la
«molta folla» (Mc 10,46) egli è capace di «vedere», oltre la sua stessa cecità: la sua
voglia di incontrarlo è tale che rende possibile anche l’impossibile. La sua capacità
di ascolto non è solo una compensazione della cecità, ma è la sua stessa sopravvivenza,
perché attraverso l’ascolto egli può partecipare alla vita della città, dalla
quale sarebbe escluso. Ascoltare per il cieco è vivere. Come fa ad ascoltare la presenza
«diversa» in mezzo alla folla vociante che lui certamente ormai «conosce»
bene? Probabilmente, percepisce la novità che passa accanto a lui: se è vero che
Gesù deve passare da quella strada è anche vero che il cieco deve ascoltare il suo
passaggio. Nulla accade per caso, ma tutto avviene perché ha un senso e noi possiamo
coglierne la novità, se siamo attenti e non siamo superfciali, se siamo «presenti
» e sappiamo riconoscere che è «Gesù Nazareno». Il cieco chiede a quelli
che passano che cosa sta succedendo e ora ha un nome: sa che passa «Gesù Nazareno
», defnito col titolo più antico, dato non solo a Gesù, ma anche ai primi
cristiani, chiamati inizialmente «nazareni»; ha sentito che è un uomo straordinario,
che sta dalla parte degli emarginati; si rivolge all’uomo, non al Cristo, non al
Figlio di Dio, ma a «Gesù Nazareno», perché ne conosce il nome e quindi è già in
comunione con lui prima ancora di incontrarlo. Credere è chiamare il «Nome».
(v. 47b) “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. L’invocazione del cieco è coerente:
egli sa per sentito dire di un uomo, di cui conosce il nome e anche il paese di
origine, un villaggio della Galilea che tutti riconoscevano come «Galilea delle
Genti» (Mt 4,15), cioè territorio di fatto pagano. Egli, però, sa anche che «Gesù»
(ebr. Y(e)oshuà) signifca che «Dio è salvezza»: è l’occasione propizia, quella che Paolo
chiama kairòs (Rm 6,10). Il cieco rompe il gracidare della folla, sovrasta il chiasso
indistinto e la sua voce, disperata e speranzosa fa risuonare sulla strada il
Nome della salvezza, Gesù, accompagnato dal titolo messianico, “Figlio di Davide”.
Bartimèo sa che il Messia deve essere discendente di Davide, e chiamandolo con
quel nome, annuncia profeticamente alla folla che l’era messianica tanto attesa da
Israele, è qui, tra «molta folla» sopraffatta dalla sua curiosità; solo un cieco, capace
però di ascolto, capisce e vede i «segni dei tempi» (Mt 16,3). Bartimèo grida la
sua supplica, prendendo su di sé l’anelito del salmista (Sal 28[27],1-2). La fede è
rischiare oltre l’esperienza, aprirsi alla novità. Il primo grido che si leva dal’uomo
cieco non è la richiesta di guarigione, ma l’invocazione del perdono: egli vuole essere
visto, vuole raggiungere lo scopo perché sa ciò che vuole: grida, a rischio di
essere accusato di bestemmiare, che quell’uomo è il Messia, e quindi supplica il
perdono. Qui troviamo tutta l’ebraicità dell’uomo e della circostanza: la cecità fsica
era considerata conseguenza del peccato perché qualsiasi malattia è un castigo
di Dio. Egli sa che la guarigione passa dal perdono, perché solo Dio salva e può
riammettere nella comunità dei redenti. Il povero non ha nulla da difendere e rischia
perché ha solo la voce per gridare la sua disperazione e il suo bisogno di
perdono: credere è farsi sentire.
(v. 48) Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte... Il cieco
raggiunge il suo scopo perché la folla capisce che quel grido non è normale e
nello stesso tempo contesta al cieco il suo diritto di aprirsi a Dio e vi si oppone.
La folla è sempre un ostacolo alla relazione e all’incontro perché vive dell’indistinto
e dell’anonimato; lo sgridano per farlo tacere. C’è sempre qualcuno che
mette il bavaglio ad un altro, in nome dell’opportunità, delle convenienze, e anche
in nome di Dio. Ciò che più colpisce in questo versetto è il fatto che la folla è la
stessa del v. 46, quella cioè che segue Gesù nel suo viaggio. Questa folla, apparentemente
«discepola», vuole impedire che il cieco «veda», facendosi ostacolo tra il
cieco e Gesù. Coloro che seguono, che credono, che frequentano, possono essere
un ostacolo attivo all’incontro di Dio con gli altri/e. Quel cieco che essi incontravano
ogni giorno davanti alla porta e che forse hanno consolato o commiserato,
ora viene emarginato ancora di più «in nome di Dio». C’è sempre qualcosa
d’importante e di urgente che impedisce di ascoltare le persone e la vita. Ma il bisogno
del cieco è più forte dell’indifferenza della folla: egli grida più forte; il cieco
non accetta di essere messo a tacere, perché sarebbe stato complice del suo
stesso male. Egli contesta la folla con l’urlo della sua vita: vuole la vista per potere
credere. Credere è vedere Gesù in tutto lo splendore della sua umanità; credere è
avere una coscienza sveglia, attenta e capace di gridare.
(v. 48) “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Se il grido è più forte, l’invocazione
è la stessa: prima bisogna attirare la sua presenza, poi gli presenterà la sua richiesta.
Colui che nella sinagoga di Cafarnao si era presentato come il compimento
della profezia del profeta dicendo che era venuto a dare la vista ai ciechi, l’udito
ai sordi, a far camminare gli storpi (cf. Lc 4,18-19; Is 61,1-2), ora è preso sulla
parola e il cieco lo obbliga a svelarsi: se sei il Messia, inizia a darmi il perdono di
Dio perché il tuo perdono è il fondamento della guarigione. Credere è essere perdonati,
credere è guarire.
(v. 49a) Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. Il grido del povero ha il potere di fermare
Dio davanti al bisogno dei suoi fgli/e, come fa Bartimeo, come recita ogni
ebreo con il Salmista (Sal 4,2; 4,4; Sal 28[27],1; Sal 130[129],1-2). Gesù a questo
punto si rende conto di tutto, della necessità del cieco e dell’atteggiamento della
folla. Da grande pedagogo quale è, coinvolge la folla, che prima era stata d’impedimento,
obbligandola a condurgli il cieco, per riscattare la folla dal suo peccato di
orgoglio e trasformarla in strumento di guarigione del cieco. Credere è essere
capaci di fermare Dio sulla propria strada e di lasciarsi coinvolgere nel suo disegno
di liberazione.
(v. 49b) Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». La folla si trasforma
da ostacolo e impedimento a strumento consapevole dell’incontro; gli
stessi che sgridavano il cieco per non disturbare l'«evento», ora si fanno prossimi,
consolano, incoraggiano e aiutano direttamente («Àlzati», in greco, è lo stesso
verbo della risurrezione di Gesù, ègheire: cf. Mc 14,28; 16,6). Chi prima dispensava
la morte dell’emarginazione, ora offre la mano per la risurrezione: un capovolgimento
totale di mentalità e di mezzi. Credere è alzarsi dalla propria condizione e
lasciarsi accompagnare da chi chiama.
(v. 50) Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Il mantello è l’abito
più importante dell’individuo in Palestina, specialmente per un povero: serve
a coprirsi durante la notte e spesso è la sola proprietà dei poveri. Tanto è importante
che, al tempo di Gesù, se uno faceva un debito poteva dare in pegno il suo
mantello, ma il creditore doveva consegnarlo al debitore al tramonto del sole, per
usarlo lungo la notte; poi se lo riprendeva la mattino... e così via fno all’esaurimento
del debito (cf. Es 22,25-26; Dt 24,12-13). Bartimèo butta via anche ciò che
è necessario per la sua sussistenza di fronte a Gesù che chiama, schizza fuori dalla
sua immobilità e butta la sua sicurezza; nonostante sia cieco, si presenta davanti a
Gesù, tra due ali di folla che lo conducono. Anche quando si è schiacciati dal male
e si è immersi nell’oscurità e non riusciamo a vedere nulla, è suffciente ascoltare
la Parola per essere capaci di «risurrezione», balzare in piedi e correre. Credere è
essere liberi anche dalle necessità e avere gambe buone per correre.
(v. 51a) Allora Gesù gli disse: “Che cosa vuoi che io ti faccia per te?”. La situazione è
capovolta: prima era il cieco che pregava, ora è Gesù che prega il cieco. La prova
che la nostra preghiera è autentica l’abbiamo quando sperimentiamo che è Dio
stesso a parlare con noi. Nella preghiera noi sperimentiamo la richiesta di domanda
di Dio che viene a vedere di cosa abbiamo bisogno. Credere è mettere
Dio in condizioni di pregarci per farci «quello che chiediamo».
(v. 51b) E il cieco gli rispose: “Rabbunì [= Maestro mio], che io veda di nuovo!”. Senza
mediazione alcuna, il cieco va subito al cuore della questione: vuole la vista. Egli sa
ciò che vuole e per questo non si perde in parole inutili, ma supplica con affetto:
«Rabbunì». Non dice più «Figlio di Davide»: ora davanti al cieco c’è una persona
che egli non vede, ma di cui sente la voce che diventa sua perché ascolta con tutto
se stesso. Accade un evento straordinario: l’uomo isolato sulla strada entra in
relazione con il Maestro che passava di là e non a caso. Anche chi legge si accorge
che sta accadendo un «nuovo esodo» perché cambia la vita di un uomo, per sempre.
A questa consapevolezza affettuosa Gesù risponde in modo singolare.
(v. 52a) E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. Bartimèo chiede la vista e riceve
la salvezza fondata sulla fede. Apparentemente la risposta di Gesù è fuori
tema. Qui il termine «fede» signifca avere riposto la fducia in Gesù e questo genera
la salvezza. Se per il cieco la salvezza è vedere, per Gesù vedere signifca credere.
Gesù non dà altro che se stesso, facendosi sperimentare, come Giovanni dirà
in modo magistrale: credere è toccare fsicamente la Parola della vita (cf. 1Gv 1,1-
4). Senza l’umanità di Gesù noi non abbiamo accesso alla sua divinità e senza
esperienza non può esserci visione, come dimostra Bartimèo: per credere deve
vedere. Il nome «Gesù» invocato dal cieco trasforma la strada in tempio e il «Dio
che salva» entra nella storia di un uomo, svelandone il senso e la grandezza. Credere
è ricevere la totalità di Dio.
(v. 52b) E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. La vista non è la conclusione
fnale perché come abbiamo già visto, il cieco è iniziato alla fede che gli offre
il vero obiettivo: camminare con lui lungo la strada. Siamo partiti da una strada,
simbolo di immobilismo, per arrivare ad una strada strumento di movimento.
Acquistare la vista produce un movimento verso Gesù e verso nuovi orizzonti
che sono già contenuti nella strada, che da sé porta e conduce. Da ora in poi il
cammino si aprirà solo camminando insieme: è la missione. Si acquista un dono
non per sé, ma per andare e annunciarlo agli altri/e con i quali si condivide il percorso,
diventando parte viva di una comunità in cammino. Credere è camminare
con gli altri verso lo stesso obiettivo, seguendo l’unico Gesù, in perenne esodo
verso la pienezza del Regno e la sua pace.

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