sabato 24 ottobre 2009

Approfondiamo la Parola: le lectio del prete Carmine Miccoli

Marco 10, 32-45


Il brano del vangelo che abbiamo ascoltato parte dal 3° annuncio della passione
che, come i due precedenti, provoca reazioni scomposte da parte degli apostoli,
che vogliono invece allontanare e rifutare il momento della prova; addirittura,
due di loro pensano di cambiare la situazione a loro favore, cercando di “fare carriera”.
Gesù usa due immagini per descrivere la sua passione: il calice e il battesimo2
con le quali l’evangelista dimostra che Gesù aveva piena coscienza di quello a
cui stava andando incontro. Le due immagini sono connesse strettamente, perché
nell’AT esse sono il simbolo dell’ira di Dio, cioè del giudizio sui peccatori.

Al v. 38 Gesù fa una domanda ai suoi: essa esige grammaticalmente una risposta
negativa, mentre gli apostoli ne danno una affermativa, perché sono ubriachi della
sensazione di potere che immaginano e non si rendono conto che essi non potranno
mai imitare il loro maestro e nemmeno somigliargli. Essi, infatti, al primo
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1 Mc 10,33-34, purtroppo omesso dalla liturgia della Parola festiva; gli altri due brani, giù
incontrati in passato, sono Mc 8,31 e Mc 9,31.


2 Del calice parla espressamente il profeta Isaia (51,17) e il profeta Geremia (25,15). Il calice
deve essere bevuto fno alla feccia (Ger 25,28; Ez 23,31-34) perché non è facoltativo,
ma è la strada obbligata attraverso cui deve procedere il Messia, nella cui esperienza il calice
acquista anche un valore scarifcale (Nm 4,14; 7,23; 19,25; Zc 9,15). L’aspetto sacrifcale
è espresso, ad esempio, dal quarto canto del «Servo di YHWH» e che descrive la componente
espiatoria della vita del Messia (cf. Is 53,10). Gesù, nell’ultima Cena, ribalta questa
condizione (Mc 14,23-24); prendendo su di sé il giudizio dell’ira di Dio fno alla conseguenza
estrema della morte, egli trasforma l’ira in alleanza. L’altra immagine, quella del
battesimo, è sulla stessa linea e ha lo stesso signifcato di giudizio senza appello (cf. Lc
12,49-50), ma sotto l’aspetto più propriamente cosmico: l’acqua, il vento e il fuoco sono
elementi della natura che sovrastano il cosmo e simboleggiano il giudizio di Dio sul creato,
solidale al destino di morte del genere umano (Rm 8,20-23). Gesù si sostituisce al
mondo materiale prendendo su di sé la distruzione che questi elementi portano (cf. Sal
42[41],8). Egli si immerge nella maledizione dell’ira di Dio manifestata dall’acqua per fare
emergere la vita rinnovata di un mondo nuovo (cf. Is 43,18) e di una nuova umanità (cf. Ef
4,22-24).

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momento della prova si dilegueranno abbandonandolo (cf. Mc 14,50) e Pietro, che
avrebbe dovuto essere la «roccia» della stabilità, non solo lo rinnegherà tre volte
(cf. Gv 18,18.25-27), ma dichiarerà di non conoscerlo (Mc 14,71; Mt 26,72.74).
Gli apostoli saranno associati lo stesso al martirio e alla sofferenza del Maestro fno
alla fne del mondo, perché quando diventeranno annunciatori del vangelo,
compiranno nella loro carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, cioè la
sofferenza del mondo (cf. Col 1,24). In questo modo troviamo qui una dimensione
di senso per la sofferenza che il cristiano incontra nella sua vita: essa non è voluta
da Dio, ma è una realtà che appartiene all’esistenza; ogni volta che la vita ci
presenta un calice da bere, noi non ci possiamo rifutare di assaporarlo fno in
fondo. Abbiamo due possibilità: o lo rendiamo inutile, ripiegandoci sul lamento di
come siamo «disgraziati», oppure possiamo assumerlo, vivendolo in Dio nella
partecipazione che Cristo esprime in ogni esperienza umana. Ogni sofferenza
vissuta nella Trinità è un atto di condivisione con quell’umanità schiacciata e senza
forze che aspetta da noi il nostro sostegno per stare in piedi. Spesso noi
vanifchiamo la parte migliore della nostra vita buttandola nella spazzatura del
superfuo, mentre Dio può trasformare la nostra impotenza e la nostra inutilità in
benedizione e calice di vita. Stare ai piedi della croce signifca imparare a scrutare
l’orizzonte della vita dando valore a ciò che realmente conta. Accanto a questa
sofferenza che potremmo chiamare «naturale» vi è l’altra sofferenza, più intima e
grave, che nasce dal rifuto, dall’emarginazione, dal giudizio degli altri, dal
fallimento, dal tradimento, che tocca la dignità e l’onorabilità. Quando a motivo
delle idee, si è messi in condizione di marginalità, è allora che la croce diventa un
faro che illumina e una ragione di vita.

L’episodio dei due fratelli in carriera si comprende meglio alla luce di questo contesto
generale ed è ancora più chiaro nella redazione di Matteo (Mt 20,20-28),
dove Gesù ha appena detto che essi giudicheranno le tribù d’Israele (Mt 19,28)
come ministri di Dio giudice (Mt 25,31). Già il profeta Daniele aveva previsto che
Dio avrebbe delegato il potere di giudicare i pagani al Figlio dell’uomo (Dn 7,9-
10); in questo atto fnale, il Figlio dell’uomo sarebbe stato attorniato da un tribunale
di magistrati assisi sui troni del giudizio, descritti dall’autore dell’Apocalisse
(cf. 4,4.10 et passim). Gli apostoli pensano di essere loro questi assessori giudicanti
e la conferma si trova nella domanda dei fgli di Zebedèo a Gesù (in Mt invece
è la madre dei due apostoli a rivolgersi a Gesù, cf. 20,20-21).

Il v. 45 del vangelo è uno dei versetti più importanti di tutto il NT, perché contiene
due idee fondamentali nella nuova economia che devono essere caratteristiche
della Chiesa: il servizio e il riscatto. Il servizio è l’atteggiamento proprio di chi
crede in Dio e non si ritiene padrone di nulla, cosciente di rappresentare il Servo
che muore sulla croce, in antitesi con la mentalità mondana del potere (Mc
10,43). Non è un semplice augurio: nel testo greco, Gesù usa il verbo “essere” al
presente indicativo per indicare un’azione o uno stato permanente e duraturo, un
obbligo morale che ha il peso di un comandamento. L’idea di riscatto è più articolata
teologicamente: in ebraico, “riscatto” si dice ghe’ullàh (da cui go'el, “riscattatore,
vendicatore”3) e ha in sé l’idea di uno scambio sotto garanzia; nel NT, questa
missione redentiva è assunta direttamente da Dio, che attraverso Gesù di Nazareth
dona se stesso come pegno per la realizzazione della pienezza di vita dell’umanità.

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3 Il go’el è colui che esercita un diritto di prelazione su cose e/o persone, per es. un parente
prossimo che riscatta una vedova o un terreno. Il riscatto (ghe’ullàh) non c’entra
nulla con il concetto di «vendetta» che ha la nostra cultura, ma esprime la salvezza offerta
in vista di compito o una missione (cf. Rut 4,1-11).
4 Nella tradizione biblica, quando una persona veniva portata in giudizio davanti agli anziani
che si riunivano alla porta della città, poteva essere assolta o condannata in base alle
prove portate, che a volte potevano non essere schiaccianti. Se qualcuno dell’assemblea,
anche uno dei giudici, persona stimata per la sua dirittura morale da tutta la comunità, si
alzava e si metteva in silenzio accanto all’accusato, il tribunale in forza della presenza di
questo go’èl, che impegnava tutta la sua autorevolezza e la sua dignità a favore dell’accusato,
sospendeva il giudizio e dichiara la non procedibilità verso l'imputato. Il termine forte
di «vendicatore» si comprende nella cultura orientale: il «go’èl», con il suo gesto, «vendica
» l’innocenza, cioè distrugge l’accusa ingiusta e la mostra in tutta la sua mostruosità. Egli
è colui che riporta le cose alla loro proporzione, al loro «in principio». Gesù sulla croce
svolge questo compito di go’èl: lasciandosi inchiodare sulla croce come un malfattore, egli
si è assiso a fanco dell’umanità accusata di peccato e non si è limitato a dichiararne l’innocenza
che non c’era, ma ha chiesto che la condanna spettante all’umanità ricadesse su
di lui, donando il suo Spirito, ossia la sua stessa vita.

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Nel vangelo di Gv, questo compito è svolto dallo Spirito, defnito “Paràclito”.
L’uomo nella sua condizione non ha nulla da offrire: la morte consuma ogni
cosa e alla morte non c’è scambio umanamente possibile, come Paolo dice
espressamente (cf. Rm 5,7-8); solo Dio può presentare un riscatto (cf. Sal
49[48],9.15; Is 52,3) ed è questo il senso della missione del «Servo di YHWH» (Is
53,10). Egli dà la vita, cioè la offre volontariamente a favore non di pochi ma di
«molti» (che, in greco e in ebraico, ha il senso di «tutti/e», dell’universalità). Il
giorno in cui nella Chiesa questa prospettiva del «Servo di YHWH», Gesù, diventerà
il programma pastorale del popolo e della gerarchia, quel giorno sarà l’inizio
del riscatto di tutta l’umanità, il primo giorno della pace universale e l’anticipo degli
ultimi tempi della grazia.

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