C’è, nella nostra chiamata di discepoli di Gesù, un aspetto universale che interpella tutte le nostre resistenze, che sentiamo profondamente in questo tempo di crisi e di paura, a considerarci membri di un'unica famiglia umana, traendone tutte le conseguenze.
Forse l'aver confinato le nostre speranze negli angusti orizzonti del mondo o forse l'aver privatizzato anche il Cielo ci fanno accaniti nel difendere il nostro diritto alla felicità e irosi verso chi sembra minacciarla venendo con ostinazione in mezzo a noi. Per questo abbiamo inventato un nuovo reato: l'immigrazione clandestina. Credere al sogno di Dio di una sola famiglia umana non significa l'insostenibile buonismo di un'accoglienza senza remore.
Chiede piuttosto, insieme all'accoglienza, la passione di cercare le cause di certi fenomeni, riconoscendo la parte che vi abbiamo e dandoci da fare perché esse siano sanate. Prima che una questione di aiuti internazionali, è una questione di giustizia di rapporti. Ma questa parola è troppo clandestina nei nostri discorsi e nella nostra vita perché il mondo si raddrizzi e gli scambi fra i popoli avvengano nella tranquillità di una conoscenza reciproca e non nell'affanno di naufraghi.
Ma, allora, "ansia e passione di illuminare tutti i popoli con la luce di Cristo", cui ci esorta il Papa nel suo messaggio per l’83a Giornata missionaria mondiale, che cosa vogliono dire?
Teresina Caffi
www.saveriane.it
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