Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)
LECTIO DIVINA
“Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”
(cf. Lc 16,31)
Dopo un’opportuna introduzione, si può invocare lo Spirito santo.
+ O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare la tua
parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’ tacere in noi ogni
altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella tua parola, letta, ma non
accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita, contemplata, ma non realizzata,
manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro
incontro con la tua parola sarà rinnovamento dell’alleanza e comunione con te e con il
Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto nei secoli dei secoli. A.: Amen.
Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 16,19-31 (trad. CEI 2008).
[Gesù disse ai farisei:] 19 «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di
lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20 Un povero, di nome Lazzaro,
stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21 bramoso di sfamarsi con quello che cadeva
dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22 Un giorno
il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e
fu sepolto. 23 Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo,
e Lazzaro accanto a lui. 24 Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di
me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua,
perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 25 Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati
che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; 26 ma ora in questo
modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi
è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono,
né di lì possono giungere fino a noi”. 27 E quello replicò: “Allora, padre, ti prego
di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca
severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. 29 Ma
Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. 30 E lui replicò: “No, padre
Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. 31 Abramo rispose:
“Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse
dai morti”».
Note di esegesi per la comprensione del testo
La parabola evangelica che abbiamo appena ascoltato è propria di Lc e sconosciuta
agli altri evangelisti; le sue origini sono antecedenti alla stessa composizione
evangelica, visto che probabilmente Gesù stesso ha ripreso un racconto egiziano1,
giù conosciuto in Israele e riadattato alla teoria giudaica della retribuzione (o del
contrappasso). Questa teoria si basa sul rovesciamento delle situazioni al di qua e
al di là della morte: un capovolgimento radicale, in cui chi fu ricco diventa povero,
chi fu povero diventa ricco; chi godeva soffre e chi soffriva gode. Lc descrive in
questa parabola quello che annuncia con il Magnifcat di Maria, la donna di Nàzaret
che prende atto di Dio come «rovesciatore» delle situazioni (cf. Lc 1,52-53)2.
Di questa teoria teologica, molto vivace al tempo di Gesù, il vangelo è pieno: basti
pensare alle beatitudini, specialmente nella versione di Lc (6,20-26), dove la contrapposizione
anche sociologica tra ricchezza e povertà diventa una discriminante
per l’accesso al regno di Dio. A quattro «beati» corrispondono simmetricamente
quattro «guai», scanditi dall’avverbio «ora» a sottolineare la contemporaneità
quasi speculare del rovesciamento certo che vi sarà. Allo stesso modo, il ricco
stolto sogna granai e benessere, mentre morirà la stessa notte in cui gioisce per i
suoi beni (cf. Lc 12,16-21). Per scampare a questa tagliola, non c’è che un solo
modo: vivere la vita prima della morte fondata sulla giustizia, che non signifca
solo fare una perequazione dei beni materiali, ma assumere una prospettiva di
vita, in cui “giusto” è colui che non si appropria di ciò che non è e non ha, ma
condivide se stesso e ciò di cui dispone con tutti coloro con cui vive. Tutto ciò
che esiste, infatti, è dono da condividere affnché nessuno sia nel bisogno, ma tutti
abbiano il necessario. Nessuno di noi è «tutto», ma ciascuno di noi, nessuno
escluso, è «parte» di un tutto. Il giusto non dirà mai «questo è mio», perché egli sa
che solo Dio è Creatore e tutte le cose di cui dispone sono solo e sempre in comodato
gratuito fno alla morte. Il concetto di proprietà privata è un monstrum da
un punto di vista etico e religioso (con buona pace di certo magistero cattolico,
prima e dopo Pio X) e ciò è tanto vero che ancora oggi in Israele nessuno è proprietario
della terra che è una e indivisibile perché è ’erez Israel, «terra d’Israele»
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1 FITZMYER J. A., The Gospel According to Luke, New York 1985,1126-1127.
2 Anche Dante nella Divina Commedia ricorre molto spesso a questa pena: «Perch’io parti’
così giunte persone, / partito porto il mio cerebro, lasso!, / dal suo principio ch’è in questo
troncone. / Così s’osserva in me lo contrapasso» (cf. Inferno XXVIII,139-142).
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in quanto terra di Dio sulla quale si abita provvisoriamente (cf. Gs 1,2-4; cf. Dt
11,24-25). Qui sta anche il fondamento del rispetto della terra e del suo
equilibrio sistemico: gli esseri umani stanno distruggendo la terra, sottraendone la
disponibilità ai posteri, cosa che non è lecita perché alla fne vincerà la terra e
travolgerà tutto ciò che essa contiene. Quando l’umanità dimentica di essere solo
«custode» e non proprietaria della terra (cf. Gen 2,15), assume atteggiamenti
dittatoriali e non si rende conto che sfruttare la terra signifca suicidarsi. Una
prova in più che il concetto di proprietà privata, come è concepito e vissuto dalla
nostra «civiltà» sedicente cristiana, è un’aberrazione criminale. La proprietà
privata, su cui si basa il capitalismo, a sua volta causa e fonte di genocidi di massa,
non è un assoluto, non è un diritto naturale perché essa nasce da un furto
ancestrale. In origine Dio ha creato la terra e l’ha consegnato alla custodia di
Àdam ed Eva, cioè all’umanità intera nel suo complesso, senza preferenze di
civiltà. A questa universalità si è opposta subito la bramosia dei progenitori che
non vollero condividere il «giardino» con Dio, ma lo pretesero tutto per sé (cf.
Gen 2,16-17; 3,6-8). Fu il primo «mio» pronunciato dall’uomo e ne derivò la
rovina di generazione in generazione, in un crescendo di violenza armata che ha
posto le fondamenta delle guerre, sempre basate sul furto della terra e dei suoi
beni, spostando i confni per allargare sempre più i propri, restringendo quelli
degli altri (cf. Dt 19,14; 27,17; Gb 24,2). Questa è l’origine storica dei regni, dei
principati, degli imperi, ecc. La dottrina sociale della Chiesa, per difendere la
«proprietà privata», deve fare alcuni strani contorsionismi, in cui non può negare
la supremazia dell'interesse e del bene comune su ogni appropriazione, anche
giustifcata3.
È singolare che il brano evangelico di oggi non dica nulla sulla condizione morale
dei due protagonisti. L’evangelista non dice che Lazzaro è «buono» e il ricco è
«cattivo»; non dice che il ricco si trova all’inferno per inadempienze religiose,
anzi, probabilmente era uno uomo pio molto praticante, che deve aver subito un
forte shock nello scoprirsi all’inferno, proprio lui che aveva fatto del tempio la
sua seconda casa con una pratica religiosa ineccepibile nella forma e nella rituali -
tà. La prospettiva è nei fatti: il ricco è condannato perché si considera «solo ed
esclusivo» proprietario della terra, senza tenere conto del suo «prossimo» che
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3 Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica (= CCC), nn. 2401-2403: «Il settimo comandamento
[...] prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro
umano. Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e
del diritto di proprietà privata. […] All’inizio, Dio ha affdato la terra e le sue risorse alla
gestione comune dell’umanità, affnché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro
e ne godesse i frutti. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. […]
L’appropriazione dei beni è legittima al fne di garantire la libertà e la dignità delle persone,
di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di
cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale
solidarietà tra gli uomini. Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo,
non elimina l’originaria donazione della terra all’insieme dell’umanità».
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«stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che
cadeva dalla tavola del ricco (Lc 16,19-21). Uno moriva di fame, l’altro s’ingozzava
e non si accorgeva di ciò che accadeva alla sua porta. Gesù non fa un discorso
morale: non dice, per es., che la ricchezza è cattiva o che la povertà è buona. Egli
afferma un principio antropologico e religioso contemporaneamente: la ricchezza
incontrollata impedisce di vedere la realtà che circonda. Non è per ciò che
facciamo di male che siamo condannati, ma per ciò che non siamo più capaci di
vedere e scorgere, riconoscendo nel volto dell'altro il volto dell'Altro (cf. Mt
25,43.44.45). Se credere è vedere la realtà con gli occhi di Dio, non credere ed
essere dannati non può essere altro che essere ciechi, incapaci di riconoscere in
Gesù la Parola salvifca di Dio (cf. Gv 1,11).
La parabola risente del clima sociale dei cristiani di 1a e 2a generazione, prevalentemente
poveri e in costante tensione con il mondo dei ricchi, come si evince da
alcune pagine signifcative di Atti4. L’insegnamento è semplice: i ricchi sono così legati
al loro orizzonte immediato, fatto di cose e denaro che non sono in grado di
scegliere radicalmente la prospettiva della «Via» (termine con cui i primi cristiani
indicavano la fede, cf. At 19,9.23; 22,4). I poveri per natura e per condizione, a differenza
dei ricchi, sono più liberi perché meno ingombranti e più pronti a tagli
radicali, più legati alla provvisorietà delle condizioni di vita. Lo stesso Signore aveva
messo in guardia della pericolosità della ricchezza, dopo l’incontro con il ricco,
molto religioso, cui ricorda come gli mancasse una cosa sola: vendere i suoi beni
distribuirli ai poveri e poi seguirlo nell'annuncio del Regno. Di fronte alla reazione
del ricco, Gesù commenta: «Quanto è diffcile, per quelli che possiedono ricchezze,
entrare nel regno di Dio! (cf. Lc 18,23-25). Lc ammonisce i ricchi che non possono
essere nello stesso tempo credenti senza mettere in discussione la loro
condizione: o condividono i beni o sono tagliati fuori dal Regno. La parabola del
ricco cattivo ed egoista è così un esempio illustrativo di ciò che signifca essere
cristiani: è una scelta che coinvolge tutta la vita in ogni suo aspetto (cf. Lc 10,27).
Nella logica di Lc, come abbiamo visto domenica scorsa nella parabola dell’amministratore
scaltro (cf. Lc 16,8-13), la ricchezza deve essere condivisa soprattutto
con i poveri, altrimenti si è «fgli di questo mondo». Lc ammonisce i cristiani ad
evitare l’immoralità della cupidigia per seguire l’esempio di Gesù che «non ritenne
un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso» (cf. Fil 2,6-7).
La parabola contrappone due condizioni: «un uomo ricco» e «un mendicante»; il
ricco, che come abbiamo detto in Lc, è sempre una connotazione negativa, è quindi
anonimo, senza storia, mentre il povero ha un nome, Lazzaro (in ebr., “Dio è il mio aiuto”):
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4 Barnaba vende un campo e ne dà il ricavato agli apostoli per i poveri (cf. At 4,36-37); al
contrario, la coppia Anania e Saffra, che non vogliono perdere la faccia, ma neanche il patrimonio,
cercano d’ingannare gli apostoli, tenendo parte del patrimonio per sé, svelando
così la loro malvagità che li porterà alla morte (cf. At 5,1-16). Anche nella Lettera di Giacomo
si condanna con forza la ricchezza e l’atteggiamento di reverenza di fronte al ricco, tenuta
da molti cristiani persino nelle assemblee eucaristiche (cf. Gc 2,2-4; Gc 5,1-6).
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la ricchezza darà prestigio agli occhi del «mondo», ma toglie il
«nome», cioè la propria identità, la personalità, a differenza della povertà che
invece non avendo nulla da difendere espone ed esprime la personalità e
l’identità. Il ricco «indossava vestiti di porpora e di lino fnissimo», mentre l’altro
«giaceva alla sua porta»; il ricco «ogni giorno si dava a lauti banchetti», mentre
Lazzaro era «coperto di piaghe» (Lc 16,19-20). Secondo la logica corrente e la
religione del tempo, la ricchezza doveva essere il segno della benedizione
protettiva di Dio, mentre la povertà doveva essere il sigillo della maledizione di
Dio in sconto di qualche peccato proprio del povero o dei suoi antenati; Gesù fa
piazza pulita di questo modo di pensare e agisce di conseguenza, affermando la
centralità della persona, amata da Dio indipendentemente dalla condizione o
dello stato in cui si trova, soprattutto quando essa vive nel dolore a causa
dell'ingiustizia. Non solo: Lazzaro viene accolto nel Regno, quando la sua
condizione di impurità legale, a causa delle piaghe, era ritenuta motivo di
esclusione dal tempio e dal banchetto escatologico, come si diceva anche negli
scritti di Qumran5. Gesù capovolge le regole religiose e di purità vigenti, per
affermare il valore assoluto della persona degli esclusi, che egli dichiara «beati».
Ciò, nel contesto del suo tempo, equivaleva ad una rivoluzione radicale di
mentalità, strutture, usi e culto: la purità o l’appartenenza al gruppo sociale non
dipende dalla circostanze della vita, ma unicamente dall’attitudine del cuore che
regola il rapporto con Dio e di conseguenza con i propri simili.
La 2a parte della parabola è più protesa verso una visione escatologica, che così
corregge ciò che nella 1a parte poteva essere letto solo in chiave sociologica. Ora
non si tratta più di ricco e di povero, ma della fede che insegna a leggere i segni di
Dio nella storia e della cupidigia che impedisce di vedere anche l’ovvio. Per i ricchi,
la morte è semplicemente la conclusione della vita, dell’unica vita che hanno
sperperato e abusato, ma quando si accorgono che la vita non si esaurisce con la
morte, corrono ai ripari e pensano di evitare la loro sorte ai propri congiunti.
Alla richiesta del ricco di inviare ai propri fratelli un messaggio straordinario,
come l’apparizione di un morto, Dio afferma che non servono i miracoli a buon
prezzo perché gli strumenti che ciascuno di noi ha a disposizione sono due: l’intelligenza
della fede per capire gli eventi e la Parola di Dio come criterio di discernimento.
Il vangelo odierno ci insegna l'inutilità di ogni “segno prodigioso” in
mancanza di fede: nessun miracolo ha mai convertito qualcuno, se lo Spirito Santo
non ha già predisposto alla fede e l’interessato non sia disponibile al cambiamento
del cuore. Al contrario, chiedere miracoli è tentare Dio (cf. Lc 4,12). Dopo
l’intervento di Gesù nella nostra Storia, non abbiamo bisogno di altro, né di miracoli,
né di apparizioni, né di rivelazioni o segreti più o meno occulti, né di messag -
gi che annunciano guai e punizioni. Nella Parola di Dio che ci è mediata dalle
Scritture c’è tutto ciò che è necessario per essere fgli/e di Dio che camminano
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5 Cf. 1QSa (=Regola della Congregazione) II,5-22 (in particolare, nn. 3-8); vd. F. G. MARTÍNEZ
(a cura di), I testi di Qumran, Paideia, Brescia 1996, 238.
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insieme altri uomini, donne e popoli per la costruzione del Regno di Dio che in
terra ha il suo inizio e alla fne della storia il suo esito. Chiedere segni come
mezzo per convincersi è una forma di paganesimo, di religiosità infantile e di
chiusura alla conversione: la fede non è roba da circo per divertirsi in qualche
annoiato sabato sera, né può essere ridotta a strumento per governare la paura
delle masse o per addomesticare le proprie angosce interiori. Il cristiano non ha
bisogno di altro che di questi due pilastri: la vita e la Parola, i due scrigni dove Dio
ha deposto il tesoro dei suoi comandamenti di gioia e di pace. La Parola diventa
vita in un solo modo: condividendo con gli altri ciò che si è e ciò che si ha, perché
solo se riconosciamo che tutti/e, nessuno escluso, siamo fgli/e di un solo Dio, il
Padre del Signore Gesù è anche Padre «nostro».
- pro manuscripto -
sabato 25 settembre 2010
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