sabato 25 settembre 2010

Approfondiamo la Parola domenicale: LUCA 16,19-31

Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)
LECTIO DIVINA

“Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”
(cf. Lc 16,31)

Dopo un’opportuna introduzione, si può invocare lo Spirito santo.
+ O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare la tua
parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’ tacere in noi ogni
altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella tua parola, letta, ma non
accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita, contemplata, ma non realizzata,
manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro
incontro con la tua parola sarà rinnovamento dell’alleanza e comunione con te e con il
Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto nei secoli dei secoli. A.: Amen.

 Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 16,19-31 (trad. CEI 2008).

[Gesù disse ai farisei:] 19 «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di

lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20 Un povero, di nome Lazzaro,

stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21 bramoso di sfamarsi con quello che cadeva

dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22 Un giorno

il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e

fu sepolto. 23 Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo,

e Lazzaro accanto a lui. 24 Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di

me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua,

perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 25 Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati

che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; 26 ma ora in questo

modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi

è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono,

né di lì possono giungere fino a noi”. 27 E quello replicò: “Allora, padre, ti prego

di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca

severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. 29 Ma

Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. 30 E lui replicò: “No, padre

Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. 31 Abramo rispose:

“Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse

dai morti”».


Note di esegesi per la comprensione del testo

La parabola evangelica che abbiamo appena ascoltato è propria di Lc e sconosciuta

agli altri evangelisti; le sue origini sono antecedenti alla stessa composizione

evangelica, visto che probabilmente Gesù stesso ha ripreso un racconto egiziano1,

giù conosciuto in Israele e riadattato alla teoria giudaica della retribuzione (o del

contrappasso). Questa teoria si basa sul rovesciamento delle situazioni al di qua e

al di là della morte: un capovolgimento radicale, in cui chi fu ricco diventa povero,

chi fu povero diventa ricco; chi godeva soffre e chi soffriva gode. Lc descrive in

questa parabola quello che annuncia con il Magnifcat di Maria, la donna di Nàzaret

che prende atto di Dio come «rovesciatore» delle situazioni (cf. Lc 1,52-53)2.

Di questa teoria teologica, molto vivace al tempo di Gesù, il vangelo è pieno: basti

pensare alle beatitudini, specialmente nella versione di Lc (6,20-26), dove la contrapposizione

anche sociologica tra ricchezza e povertà diventa una discriminante

per l’accesso al regno di Dio. A quattro «beati» corrispondono simmetricamente

quattro «guai», scanditi dall’avverbio «ora» a sottolineare la contemporaneità

quasi speculare del rovesciamento certo che vi sarà. Allo stesso modo, il ricco

stolto sogna granai e benessere, mentre morirà la stessa notte in cui gioisce per i

suoi beni (cf. Lc 12,16-21). Per scampare a questa tagliola, non c’è che un solo

modo: vivere la vita prima della morte fondata sulla giustizia, che non signifca

solo fare una perequazione dei beni materiali, ma assumere una prospettiva di

vita, in cui “giusto” è colui che non si appropria di ciò che non è e non ha, ma

condivide se stesso e ciò di cui dispone con tutti coloro con cui vive. Tutto ciò

che esiste, infatti, è dono da condividere affnché nessuno sia nel bisogno, ma tutti

abbiano il necessario. Nessuno di noi è «tutto», ma ciascuno di noi, nessuno

escluso, è «parte» di un tutto. Il giusto non dirà mai «questo è mio», perché egli sa

che solo Dio è Creatore e tutte le cose di cui dispone sono solo e sempre in comodato

gratuito fno alla morte. Il concetto di proprietà privata è un monstrum da

un punto di vista etico e religioso (con buona pace di certo magistero cattolico,

prima e dopo Pio X) e ciò è tanto vero che ancora oggi in Israele nessuno è proprietario

della terra che è una e indivisibile perché è ’erez Israel, «terra d’Israele»
--------------------------------------------------------------------------

1 FITZMYER J. A., The Gospel According to Luke, New York 1985,1126-1127.

2 Anche Dante nella Divina Commedia ricorre molto spesso a questa pena: «Perch’io parti’

così giunte persone, / partito porto il mio cerebro, lasso!, / dal suo principio ch’è in questo

troncone. / Così s’osserva in me lo contrapasso» (cf. Inferno XXVIII,139-142).
---------------------------------------------------------------------------------

in quanto terra di Dio sulla quale si abita provvisoriamente (cf. Gs 1,2-4; cf. Dt

11,24-25). Qui sta anche il fondamento del rispetto della terra e del suo

equilibrio sistemico: gli esseri umani stanno distruggendo la terra, sottraendone la

disponibilità ai posteri, cosa che non è lecita perché alla fne vincerà la terra e

travolgerà tutto ciò che essa contiene. Quando l’umanità dimentica di essere solo

«custode» e non proprietaria della terra (cf. Gen 2,15), assume atteggiamenti

dittatoriali e non si rende conto che sfruttare la terra signifca suicidarsi. Una

prova in più che il concetto di proprietà privata, come è concepito e vissuto dalla

nostra «civiltà» sedicente cristiana, è un’aberrazione criminale. La proprietà

privata, su cui si basa il capitalismo, a sua volta causa e fonte di genocidi di massa,

non è un assoluto, non è un diritto naturale perché essa nasce da un furto

ancestrale. In origine Dio ha creato la terra e l’ha consegnato alla custodia di

Àdam ed Eva, cioè all’umanità intera nel suo complesso, senza preferenze di

civiltà. A questa universalità si è opposta subito la bramosia dei progenitori che

non vollero condividere il «giardino» con Dio, ma lo pretesero tutto per sé (cf.

Gen 2,16-17; 3,6-8). Fu il primo «mio» pronunciato dall’uomo e ne derivò la

rovina di generazione in generazione, in un crescendo di violenza armata che ha

posto le fondamenta delle guerre, sempre basate sul furto della terra e dei suoi

beni, spostando i confni per allargare sempre più i propri, restringendo quelli

degli altri (cf. Dt 19,14; 27,17; Gb 24,2). Questa è l’origine storica dei regni, dei

principati, degli imperi, ecc. La dottrina sociale della Chiesa, per difendere la

«proprietà privata», deve fare alcuni strani contorsionismi, in cui non può negare

la supremazia dell'interesse e del bene comune su ogni appropriazione, anche

giustifcata3.

È singolare che il brano evangelico di oggi non dica nulla sulla condizione morale

dei due protagonisti. L’evangelista non dice che Lazzaro è «buono» e il ricco è

«cattivo»; non dice che il ricco si trova all’inferno per inadempienze religiose,

anzi, probabilmente era uno uomo pio molto praticante, che deve aver subito un

forte shock nello scoprirsi all’inferno, proprio lui che aveva fatto del tempio la

sua seconda casa con una pratica religiosa ineccepibile nella forma e nella rituali -

tà. La prospettiva è nei fatti: il ricco è condannato perché si considera «solo ed

esclusivo» proprietario della terra, senza tenere conto del suo «prossimo» che
------------------------------------------------------

3 Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica (= CCC), nn. 2401-2403: «Il settimo comandamento

[...] prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro

umano. Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e

del diritto di proprietà privata. […] All’inizio, Dio ha affdato la terra e le sue risorse alla

gestione comune dell’umanità, affnché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro

e ne godesse i frutti. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. […]

L’appropriazione dei beni è legittima al fne di garantire la libertà e la dignità delle persone,

di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di

cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale

solidarietà tra gli uomini. Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto modo,

non elimina l’originaria donazione della terra all’insieme dell’umanità».
----------------------------------------------------------------------

«stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che

cadeva dalla tavola del ricco (Lc 16,19-21). Uno moriva di fame, l’altro s’ingozzava

e non si accorgeva di ciò che accadeva alla sua porta. Gesù non fa un discorso

morale: non dice, per es., che la ricchezza è cattiva o che la povertà è buona. Egli

afferma un principio antropologico e religioso contemporaneamente: la ricchezza

incontrollata impedisce di vedere la realtà che circonda. Non è per ciò che

facciamo di male che siamo condannati, ma per ciò che non siamo più capaci di

vedere e scorgere, riconoscendo nel volto dell'altro il volto dell'Altro (cf. Mt

25,43.44.45). Se credere è vedere la realtà con gli occhi di Dio, non credere ed

essere dannati non può essere altro che essere ciechi, incapaci di riconoscere in

Gesù la Parola salvifca di Dio (cf. Gv 1,11).

La parabola risente del clima sociale dei cristiani di 1a e 2a generazione, prevalentemente

poveri e in costante tensione con il mondo dei ricchi, come si evince da

alcune pagine signifcative di Atti4. L’insegnamento è semplice: i ricchi sono così legati

al loro orizzonte immediato, fatto di cose e denaro che non sono in grado di

scegliere radicalmente la prospettiva della «Via» (termine con cui i primi cristiani

indicavano la fede, cf. At 19,9.23; 22,4). I poveri per natura e per condizione, a differenza

dei ricchi, sono più liberi perché meno ingombranti e più pronti a tagli

radicali, più legati alla provvisorietà delle condizioni di vita. Lo stesso Signore aveva

messo in guardia della pericolosità della ricchezza, dopo l’incontro con il ricco,

molto religioso, cui ricorda come gli mancasse una cosa sola: vendere i suoi beni

distribuirli ai poveri e poi seguirlo nell'annuncio del Regno. Di fronte alla reazione

del ricco, Gesù commenta: «Quanto è diffcile, per quelli che possiedono ricchezze,

entrare nel regno di Dio! (cf. Lc 18,23-25). Lc ammonisce i ricchi che non possono

essere nello stesso tempo credenti senza mettere in discussione la loro

condizione: o condividono i beni o sono tagliati fuori dal Regno. La parabola del

ricco cattivo ed egoista è così un esempio illustrativo di ciò che signifca essere

cristiani: è una scelta che coinvolge tutta la vita in ogni suo aspetto (cf. Lc 10,27).

Nella logica di Lc, come abbiamo visto domenica scorsa nella parabola dell’amministratore

scaltro (cf. Lc 16,8-13), la ricchezza deve essere condivisa soprattutto

con i poveri, altrimenti si è «fgli di questo mondo». Lc ammonisce i cristiani ad

evitare l’immoralità della cupidigia per seguire l’esempio di Gesù che «non ritenne

un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso» (cf. Fil 2,6-7).

La parabola contrappone due condizioni: «un uomo ricco» e «un mendicante»; il

ricco, che come abbiamo detto in Lc, è sempre una connotazione negativa, è quindi

anonimo, senza storia, mentre il povero ha un nome, Lazzaro (in ebr., “Dio è il mio aiuto”):
-------------------------------------------------------------------------------

4 Barnaba vende un campo e ne dà il ricavato agli apostoli per i poveri (cf. At 4,36-37); al

contrario, la coppia Anania e Saffra, che non vogliono perdere la faccia, ma neanche il patrimonio,

cercano d’ingannare gli apostoli, tenendo parte del patrimonio per sé, svelando

così la loro malvagità che li porterà alla morte (cf. At 5,1-16). Anche nella Lettera di Giacomo

si condanna con forza la ricchezza e l’atteggiamento di reverenza di fronte al ricco, tenuta

da molti cristiani persino nelle assemblee eucaristiche (cf. Gc 2,2-4; Gc 5,1-6).
---------------------------------------------------------------------------------

 la ricchezza darà prestigio agli occhi del «mondo», ma toglie il

«nome», cioè la propria identità, la personalità, a differenza della povertà che

invece non avendo nulla da difendere espone ed esprime la personalità e

l’identità. Il ricco «indossava vestiti di porpora e di lino fnissimo», mentre l’altro

«giaceva alla sua porta»; il ricco «ogni giorno si dava a lauti banchetti», mentre

Lazzaro era «coperto di piaghe» (Lc 16,19-20). Secondo la logica corrente e la

religione del tempo, la ricchezza doveva essere il segno della benedizione

protettiva di Dio, mentre la povertà doveva essere il sigillo della maledizione di

Dio in sconto di qualche peccato proprio del povero o dei suoi antenati; Gesù fa

piazza pulita di questo modo di pensare e agisce di conseguenza, affermando la

centralità della persona, amata da Dio indipendentemente dalla condizione o

dello stato in cui si trova, soprattutto quando essa vive nel dolore a causa

dell'ingiustizia. Non solo: Lazzaro viene accolto nel Regno, quando la sua

condizione di impurità legale, a causa delle piaghe, era ritenuta motivo di

esclusione dal tempio e dal banchetto escatologico, come si diceva anche negli

scritti di Qumran5. Gesù capovolge le regole religiose e di purità vigenti, per

affermare il valore assoluto della persona degli esclusi, che egli dichiara «beati».

Ciò, nel contesto del suo tempo, equivaleva ad una rivoluzione radicale di

mentalità, strutture, usi e culto: la purità o l’appartenenza al gruppo sociale non

dipende dalla circostanze della vita, ma unicamente dall’attitudine del cuore che

regola il rapporto con Dio e di conseguenza con i propri simili.

La 2a parte della parabola è più protesa verso una visione escatologica, che così

corregge ciò che nella 1a parte poteva essere letto solo in chiave sociologica. Ora

non si tratta più di ricco e di povero, ma della fede che insegna a leggere i segni di

Dio nella storia e della cupidigia che impedisce di vedere anche l’ovvio. Per i ricchi,

la morte è semplicemente la conclusione della vita, dell’unica vita che hanno

sperperato e abusato, ma quando si accorgono che la vita non si esaurisce con la

morte, corrono ai ripari e pensano di evitare la loro sorte ai propri congiunti.

Alla richiesta del ricco di inviare ai propri fratelli un messaggio straordinario,

come l’apparizione di un morto, Dio afferma che non servono i miracoli a buon

prezzo perché gli strumenti che ciascuno di noi ha a disposizione sono due: l’intelligenza

della fede per capire gli eventi e la Parola di Dio come criterio di discernimento.

Il vangelo odierno ci insegna l'inutilità di ogni “segno prodigioso” in

mancanza di fede: nessun miracolo ha mai convertito qualcuno, se lo Spirito Santo

non ha già predisposto alla fede e l’interessato non sia disponibile al cambiamento

del cuore. Al contrario, chiedere miracoli è tentare Dio (cf. Lc 4,12). Dopo

l’intervento di Gesù nella nostra Storia, non abbiamo bisogno di altro, né di miracoli,

né di apparizioni, né di rivelazioni o segreti più o meno occulti, né di messag -

gi che annunciano guai e punizioni. Nella Parola di Dio che ci è mediata dalle

Scritture c’è tutto ciò che è necessario per essere fgli/e di Dio che camminano
-----------------------------------------------------------------------

5 Cf. 1QSa (=Regola della Congregazione) II,5-22 (in particolare, nn. 3-8); vd. F. G. MARTÍNEZ

(a cura di), I testi di Qumran, Paideia, Brescia 1996, 238.
-----------------------------------------------------------------------

insieme altri uomini, donne e popoli per la costruzione del Regno di Dio che in

terra ha il suo inizio e alla fne della storia il suo esito. Chiedere segni come

mezzo per convincersi è una forma di paganesimo, di religiosità infantile e di

chiusura alla conversione: la fede non è roba da circo per divertirsi in qualche

annoiato sabato sera, né può essere ridotta a strumento per governare la paura

delle masse o per addomesticare le proprie angosce interiori. Il cristiano non ha

bisogno di altro che di questi due pilastri: la vita e la Parola, i due scrigni dove Dio

ha deposto il tesoro dei suoi comandamenti di gioia e di pace. La Parola diventa

vita in un solo modo: condividendo con gli altri ciò che si è e ciò che si ha, perché

solo se riconosciamo che tutti/e, nessuno escluso, siamo fgli/e di un solo Dio, il

Padre del Signore Gesù è anche Padre «nostro».

- pro manuscripto -

Nessun commento: