venerdì 10 settembre 2010

Approfondiamo la Parola domenicale: LECTIO del prete Carmile Miccoli

“...perché questo era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (cf. Luca 15,24.32)

+ O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare la tua

parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’ tacere in noi ogni

altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella tua parola, letta, ma non

accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita, contemplata, ma non realizzata,

manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro

incontro con la tua parola sarà rinnovamento dell’alleanza e comunione con te e con il

Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto nei secoli dei secoli.  Amen.


Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 15,1-32 (trad. CEI 2008; tra [ ] le parti omesse dalla liturgia).

1 Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani 2 e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli


scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3 Ed


egli disse loro questa parabola: [4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non


lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?


5 Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a casa, chiama gli


amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora,


quella che si era perduta”. 7 Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore


che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.


8 Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la


lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9 E dopo averla


trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato


la moneta che avevo perduto”. 10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio


per un solo peccatore che si converte».] 11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.


12 Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi


spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane,


raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio


vivendo in modo dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel


paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a


mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi


a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i


porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di


mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da


mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più


degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20 Si alzò e


tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione,


gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: “Padre, ho


peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.


22 Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo


indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso,


ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è


tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. 25 Il figlio


maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica


e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello


gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso,


perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28 Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre


allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni


e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto


per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato


le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31 Gli


rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava


far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita,


era perduto ed è stato ritrovato”».

Note di esegesi per la comprensione del testo

Sulla parabola del “padre e dei suoi due fgli”, una delle più celebri e commentate

del Vangelo, possiamo dedicare solo qualche sprazzo di esegesi, fermandoci su alcuni

passaggi signifcativi. Una breve parola, anzitutto, sul contesto: il cap. 15 appartiene

solo al vangelo di Lc e comprende due parabole costruite in forma doppia

(uomo-donna/pastore-casalinga e coppia di fratelli), quindi si suppone che derivi

da una fonte conosciuta solo da Lc, che esprime, in un messaggio di straordinaria

forza narrativa e spirituale, la novità perenne del Vangelo della riconciliazione

e dell'amore. Il capitolo si compone di trentadue versetti divisi nettamente in

tre parti: la 1a parte (15,1-2) forma l’ambientazione e offre l’orizzonte per quanto

segue e costituisce un problema rilevante: i pubblicani e i peccatori sono contrapposti

a farisei e scribi. I peccatori e i pubblicani sono in movimento, si avvicinano

a Gesù per «ascoltarlo», mentre i farisei e i pubblicani invece sono fermin nella

loro paura e bloccati dal loro «mormorare». I primi rispondono ad un appello e

sentono di essere bisognosi della Parola, i farisei e gli scribi invece giudicano e accusano

Gesù, che «mangia con i peccatori» (15,2). I primi vanno all’incontro, gli

altri invece sono prigionieri della loro presunzione. I peccatori e i pubblicani riconoscono

la «novità» che li coglie, i farisei e i pubblicani invece sono morti nelle

certezze del loro passato. Questi si ritengono giusti e giudicano i primi impuri e

indegni di stare accanto a loro, i pubblicani e i peccatori si riconoscono per quello

che sono e si lasciano riconciliare da Gesù (cf. 2Cor 5,20). Già questi primi versetti

ci dicono quale sia la posta in gioco: chi si salva, anche i non Ebrei? L’ingresso

nella fede, attraverso la predicazione di Paolo, dei cristiani di origine pagana sconvolse

i cristiani di origine ebraica: qual è il senso della promessa fatta ad Abramo

se anche i «non-fgli» di Abramo ricevono lo Spirito di Dio (cf. At 10)? Qual è il

senso dell’elezione d’Israele a popolo esclusivo di Dio se anche i pagani hanno

accesso alla salvezza, senza alcuna mediazione della Toràh di Mosè? Lc risponde a

queste domande con le due parabole di questo capitolo, che costituiscono la 2a

parte del capitolo con la prima parabola del pastore che ritrova la pecora e della

donna che ritrova la dramma (cf. 15,4-10) e la 3a parte con la seconda parabola del

«padre dalle viscere di madre» dei due fgli perduti (cf. 15,11-32). Molti commenti

parlano di tre parabole, dividendo il racconto del pastore e della pecora smarrita

(15,4-7) da quello della donna e la sua moneta perduta (15,8-10), visti come semplice

preambolo della parabola successiva, comunemente conosciuta come parabola

del fgliol prodigo (15,11-32). Questo è il segno che non si tiene conto della

struttura letteraria e narrativa che, invece, è esplicita e inequivocabile. Il testo,

nella sua struttura interna, ci rivela che le parabole sono solo due: la prima parabola

espone due prospettive, quella maschile e quella femminile, mentre la seconda

descrive gli atteggiamenti simili dei due fgli «perduti» verso il padre, il vero e unico

protagonista della narrazione. Il motivo di questa interpretazione è in Lc 15,3

dove espressamente si dice che Gesù «disse loro questa parabola» declinata

in forma doppia: la prospettiva femminile non è introdotta da un verbo narrativo,

ma da un semplice avverbio, ad esprimere la visione piena che Gesù offre dell'umanità

nella sua totalità e nella sua differenza. Se poi mettiamo in sinossi il testo

della 1a parabola in doppia versione vediamo che il “canovaccio” è lo stesso:

3 Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA:

Uomo Donna

8 Oppure

4 Chi di voi quale donna,

se ha cento pecore se ha dieci dramme [monete]

e ne perde una, e ne perde una,

non lascia le novantanove non accende la lampada

nel deserto e spazza la casa

e va in cerca di quella perduta, e cerca accuratamente

fnché non la trova? fnché non la trova?

5 Quando l’ha trovata, 9 E dopo averla trovata,

pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa

chiama gli amici e i vicini, e dice loro: chiama le amiche e le vicine, e

dice:

“Rallegratevi con me, “Rallegratevi con me,

perché ho trovato perché ho trovato

la mia pecora, quella che si era perduta”. la dramma [moneta] che avevo

perduto”.

7 Io vi dico: così 10 Così, io vi dico,

vi sarà gioia vi è gioia

in cielo davanti agli angeli di Dio

per un solo peccatore che si converte, per un solo peccatore che si converte.

più che per novantanove giusti i quali

non hanno bisogno di conversione.

La 3a parte del capitolo comprende la 2a parabola, che ha la sua struttura fondamentale

nel rapporto tra il padre e il fglio minore (cf. 15,11-24), con la scena

“aperta” che parla del rapporto dello stesso padre con il fglio maggiore (cf.

15,25-32), esprimendo così un prolungamento narrativo che ha lo stesso insegnamento,

ma da un diverso angolo di visuale. Anche qui vi sono due prospettive:

quella del fglio giovane che rappresenta il mondo ellenistico e quella del fglio

«anziano» che rappresenta l’ebraismo e, in negativo, la “religione” perbenista e

esclusiva di ogni tempo.

La parabola, che è una proposta originale di Lc, ci veicola il messaggio della salvezza

come «grazia gratuita», rispecchiando la predicazione di Paolo e la sua

apertura al mondo pagano dei non-circoncisi. Essa può essere considerata il

«cuore» del terzo vangelo, sia perché è quasi al centro del libro, sia perché costituisce

il cuore del messaggio di Gesù secondo la predicazione di Paolo. Esaminiamo

le corrispondenze tra la parabola vera e propria (vv. 11-24) e la seconda parte

(vv. 25-32), riportando i temi fondamentali per la comprensione1:

11 E disse:

Figlio minore (Lc 15,11-24) Figlio maggiore (Lc 15,25-32)

È in casa (= dentro) È nei campi (= fuori)

Lascia la casa (= fuori) Torna a casa (= dentro)

Va’ in un paese lontano Non entra, ma resta «vicino»

Commensale dei porci Tu sei sempre con me (dice il padre)

Il padre gli corse incontro Il padre uscì a chiamarlo

1 Il padre fa da perno ai due fgli, che sono speculari, ove l’uno non può esistere senza l’al -

tro, perché ciascuno è sfondo e premessa per l’altro. Sia nella parte principale (fglio minore)

che nel suo prolungamento (fglio maggiore) la fgura centrale è il padre: tutto ruota

attorno a lui; mentre i fgli fanno i propri interessi, ciascuno dal proprio punto di vista, il

padre è in continuo movimento: corre e si getta addosso al fglio (cf. 15,20), esce incontro

al maggiore (cf. 15, 28). I fgli, ma anche i servi, che pure hanno ricevuto l’ordine di fare in

fretta (cf. 15,22), sembrano immobilizzati e incapaci di essere protagonisti e di affrancarsi

dalla paternità che li sostiene. Questa 2a parabola illustra il tema della misericordia sullo

sfondo della storia della salvezza, mettendo a confronto Israele e Chiesa.

Padre, ho peccato contro di te Non mi hai mai dato un capretto

Il padre fa festa Il padre invita alla festa

perché «questo mio fglio» perché «questo tuo fratello»

° da morto è tornato in vita ° da morto è tornato in vita

° da perduto è ritrovato ° da perduto è ritrovato

I due fgli sono simboli di due atteggiamenti: non solo sono separati dal padre, ma, nella

loro opposizione, vi è tra di loro una somiglianza. Non esiste alcuna comunicazione tra i

due fratelli che non sia distruttiva: dall’atteggiamento del maggiore si capisce che i due si

odiano di tutto cuore, sono stranieri in casa, negando così la fraternità ricevuta, pur vivendo

insieme con padre. Il fglio minore è lontano, ma pensa alla casa e ai suoi agi; il fratello,

che è sempre in casa, non è mai entrato nell’affetto di famiglia. Non basta «stare fsicamente

» nella Chiesa per «essere col Padre»2.

Tutto il cap. 15 di Lc è probabilmente un midrash di Ger 31, forse in forma di omelia

che commenta il testo del profeta. La comunità cristiana delle origini ha riletto

la profezia di Geremia con gli occhi fssi su Gesù e secondo le sue parole e la sua

vita. Ger 31,31 è il vertice dell’AT, perché il profeta parla di un'alleanza nuova.

Questa espressione agli orecchi di un ebreo suona come una bestemmia, perché

non può esistere una nuova alleanza in sostituzione dell’unica e sola alleanza con

Abramo, solennemente rinnovata al Sinai nel segno della Toràh (cf. Es 19). Eppure

Geremia annuncia una «alleanza nuova» che Gesù assume come caratteristica

della sua missione, svelandone il contenuto della «novità»: la novità di Dio è la

misericordia, che diventa così la cifra del Regno inaugurato da Cristo. Nel momento

più alto della sua vita, quando Gesù si consegna nel memoriale (zikkaron)

del pane e del calice, riprende le parole di Geremia: «Prese il calice e disse: Questo

calice è la nuova alleanza nel mio sangue sparso per voi» (Lc 22,20). Il Dio di

Adamo, di Abramo, di Mosè, il Dio dell’esodo è il Dio di Gesù Cristo che assume

il volto del Padre «misericordioso» (cf. Gv 1,18). Leggendo l’AT i primi cristiani

annotavano in margine i riferimenti alla vita di Gesù e al suo insegnamento e applicavano

le conoscenze e i metodi usati dall’esegesi giudaica. Lc e la sua comunità,

per spiegarci l’agire di Dio come è descritto in Ger 31 e per prospettarci che

anche noi siamo parte della predilezione di Dio, qualunque sia lo stato della nostra

condizione, ha espresso in questo racconto il cuore nuovo di Dio stesso che

invita alla festa dell'alleanza ogni creatura che si lasci rinnovare.

2 È il ribaltamento della situazione: chi crede di essere dentro si trova fuori, chi pensa di

essere fuori invece è dentro. La stessa parentela di sangue (cf. Lc 8,19-21) non è garanzia

suffciente di fede, perché questa non vive di rendita: il fatto di essere prete o vescovo,

monaco/a o laico/a non signifca nulla sul piano della fede se questa non è una adesione li -

bera e consapevole al Vangelo per rispondere alla grazia dello Spirito Santo (Lc 3,8; Mt

7,21). Gesù prende le distanze dalla famiglia di sangue, mentre elegge a propri consanguinei

coloro che «ascoltano la sua parola» (cf. Lc 8,21; Mc 3,33-35). Per Mc, addirittura, la famiglia

è un ostacolo alla missione di Gesù, tanto che essa lo giudica «fuori di sé», pazzo

(cf. Mc 3,21).

Nel testo di Geremia, Èfraim dichiara il suo smarrimento e il suo desiderio di ritornare,

pieno di vergogna e confusione. A tutto ciò Dio risponde con accenti di

tenerezza, dichiarandolo non solo «fglio prediletto» (Ger 31,20), ma evidenziando

la commozione delle sue viscere. Allo stesso modo, il fglio minore della parabola

lucana si pente, fa i suoi calcoli e ritorna alla casa paterna, mentre il padre alla vista

del fglio ancora lontano sente dentro di sé lo scuotimento delle viscere che

quel fglio ha generato (cf. Lc 15,20b). In Geremia la conclusione di questo nuovo

modo di agire di Dio porta ad una alleanza nuova (cf. Ger 31,31) perché non più

scritta sulla freddezza della pietra, ma dentro il calore del cuore, l’unico che sappia

cogliere la novità della vita e l’aspetto sponsale dell’amore (Ger 31,33), un

amore generante e liberante che non solo dà la vita, ma la ridona anche a coloro

che l’hanno perduta.

Ecco alcune suggestioni tratte dal testo:

- il fglio minore, secondo la legge, ha diritto all’usufrutto dei beni, ma non al

patrimonio, di cui può disporre solo alla morte del padre. Chiedendo «quello che

gli spetta», egli invoca la morte del padre prima della morte fsica, con intenzione

omicida. Il fglio vuole la vita stessa del padre, perché gli chiede di fare testamento

e di averne le sostanze senza aspettarne la morte3.

- Il testo greco non dice che il padre spartì le sostanze, ma dice che «divide tra

loro la vita, tòn bìon» (cf. Lc 15,12). Il padre celebra l’eucaristia con i fgli che bramano

la sua morte (cf. Lc 22,19; cf. Mc 14,22). Il padre sa che la sua vita non gli appartiene

perché la sua vita sono i suoi fgli tra i quali la divide. Egli è “condannato”

dalla paternità a morire per essi (cf. Gv 15,13).

- Il fglio, raccolte «tutte le sue cose», non indugia, ma parte «per un paese lontano

», pagano, abbandonando così la terra d’Israele e quindi il tempio, Dio, in una

parola l’alleanza. Andando lontano, infatti, «visse da dissoluto», una traduzione che

non rende la forza traumatica del testo greco che usa l’avverbio di modo asôtos,

che alla lettera signifca «senza salvezza», senza Dio.

- Il fglio minore non sperpera del suo, ma dilapida la vita del padre. Non si

rende conto che egli è scappato lontano dal padre, ma si è portato dietro la sua

vita, che adesso lo segue dovunque egli vada. Il fglio crede di essere «grande» e

non sa che la sua grandezza è nel padre dentro di lui, e il suo peccato è di non vivere

con una vita propria, ma con la vita paterna che sta gettando via.

- Il fglio ha «prese tutte le sue cose»; ora si trova «nudo» e vuoto, ha meno di

niente perché si riduce in schiavitù. La carestia è l’evento della storia che dall’esterno

lo costringe a pensare al di là dei progetti originari. Non c’è più nulla da

sperperare, la vita del padre si è dissolta e non gli resta che affdarsi «ad uno

qualsiasi di quella regione», che non trova di meglio che collocarlo al livello dei

3 Il termine «patrimonio» di Lc 15,14 in greco si dice ousìa, che deriva dal participio presente

femminile del verbo eimì, “sono”, il verbo dell’esistenza: è un termine che indica la

natura, la verità della persona e la sua vita.

«porci». Il testo greco, infatti, non dice che «si mise al servizio», che è la

condizione dei discepoli, ma che «s’incollò» al padrone dei porci: è il verbo che

esprime l’unione sessuale tra uomo e donna, dunque il verbo dell’intimità che

permette a due affni di aderire l’uno all’altro in vista di una comunione che è

trasfusione di vita. Il degrado è totale: per un ebreo è proibito anche allevare

porci e il contatto con loro rende inabili al culto e impuri. Gli stessi porci non lo

riconoscono perché non gli lasciano nemmeno le carrube che egli pure

desiderava per sfamarsi.

- Il «ritorno a casa» non è un atto di conversione o di pentimento, ma il rimpianto

del benessere: non ha più nulla e rimpiange quello che aveva lasciato. Il

motivo iniziale non è di pentimento, né di amore per il padre, ma un atteggiamento

assolutamente egoista e interessato. Ha sperperato il padre e ora ne vorrebbe

consumare anche le briciole. Non si chiede cosa vive e prova il padre, non pensa

al suo dolore, egli ora vede il «padre» come «padrone»: i salariati stanno meglio

di lui. Preferisce vivere da schiavo sazio, piuttosto che da libero affamato. Egli torna

per sé, non torna per amore del padre.

- Anche se la motivazione iniziale di un comportamento spesso non è autentica,

può, però, camminando, specifcarsi e diventare genuina: importante è arrivare

alla fne del percorso e valutare nell’insieme. Il fglio non torna perché spinto da

motivazioni alte o dal pentimento della sua scellerata scelta e nello stesso tempo

non si accorge che è la forza dell’amore del padre a chiamarlo e a spingerlo a

tornare a casa. È il padre a salvarlo e tenere in vita l’esile flo della relazione affettiva

che lo strapperà dal paese lontano, lo scollerà dal padrone dei porci e lo riporterà

nell’alleanza del tempio dove potrà di nuovo diventare membro del suo

popolo e fglio del comandamento; è la forza della presenza invisibile del padre

che gli fa riprendere la strada del ritorno.

- Il padre non lo vede ancora fsicamente, ma da lontano lo «sente» perché

non ha cessato di avere nel cuore quel fglio insensato. Gli corre incontro e gli

«casca sul collo» (Lc 15,20), cioè gli si butta addosso coprendolo tutto con il suo

corpo. Il verbo greco deriva da epipìpto, verbo onomatopeico che signifca «mi

getto, cado su, scendo sopra» ed esprime irruenza decisa e improvvisa, come se

«precipitasse». Immediatamente prima, il testo dice una cosa straordinaria, perché

spiega il motivo per cui il padre va all’assalto del fglio, investendolo con la

sua persona. Il verbo usato, intraducibile, esplanghnìsthe, viene tradotto poveramente

con «commosso». In greco, splànghna traduce l’ebraico rahamìm, che indica

l’utero materno in procinto di schiudersi per generare. L’idea espressa è la seguente:

il padre riprende quel fglio che gli ha preso la vita e che ora ritorna senza dignità,

lo riaccoglie nel suo ventre paterno/materno e lo rigenera di nuovo.

- Il fglio prova a ripetere il discorsetto che aveva mandato a memoria, ma non

fa in tempo a pronunciarlo perché è invaso dalla valanga della paternità che strozza

anche l’imperfezione della motivazione del fglio. Non è fglio che ritorna o si

pente, ma è il padre che ora lo riprende, alla lettera «lo fa risorgere». Il padre

non ha bisogno delle parole del fglio: gli basta l’amore delle sue viscere. Per la

cultura orientale un padre, o chiunque eserciti l’autorità, che si mette a correre

perde la faccia e la sua credibilità. Il padre non si preoccupa di sé, della sua credibilità

o del suo onore, ma solo del fglio che solo il suo amore ha portato alla

vita. Il fglio prova ad impietosire il padre con la poesia che ha imparato a memoria,

ma il padre non lo lascia fnire e se lo abbraccia, rigenerandolo nuovamente

alla vita.

- Segue la gioia, che connota il rito dell’investitura attraverso tre gesti: anello,

veste e calzari sono i simboli che porta l’erede legittimo: l’anello reintroduce nell’eredità,

la veste ridona la dignità di fglio e i calzari restituiscono l’autorità del

comando.

- Il fglio maggiore, che il testo greco defnisce presbýteros, «più anziano», è peggiore

del fratello minore: è più lontano lui da suo padre che non il fratello che si

è allontanato di casa. Questi se n’era andato lontano fsicamente, mentre il maggiore,

pur stando fsicamente in casa, è sempre stato lontano col cuore, aspettando

che il padre morisse per ereditare la «roba». Tra i due fgli degeneri, il peggiore

è l’anziano, modello di ogni perbenismo interessato e della religione del dovere

che non conosce alcun affato d’amore e di compassione.

- Egli scarica sul padre la sua taccagneria: lui che poteva prendere tutti i capretti

che voleva e quando voleva, non lo ha preso per non impoverire la sua «roba»

e ora accusa il padre della sua grettezza. Forse ha gioito quando il fratello è scappato

via; ora è arrabbiato per il suo ritorno, fno al punto che non vuole entrare

in casa e partecipare alla festa del ritorno. Strano comportamento dei due fgli: il

minore che sembra più spericolato esce ed entra da casa, mentre il maggiore, che

formalmente è sempre in casa, era e rimane fuori, tanto che ancora una volta è il

padre a dovere andargli incontro.

- Il fglio anziano è geloso della salvezza del fratello, che non riconosce come

tale perché non lo chiama mai «mio fratello», ma lo indica sempre come «questo

tuo fglio», fglio del padre. Il padre, invece, lo rimanda sempre alla fraternità:

«questo tuo fratello». A lui però non importa che il fratello si salvi, gli preme salvare

la proprietà di cui è avido guardiano. Il padre va incontro anche a lui che resta

fuori della casa e il testo ci lascia sospesi, lasciandoci l’amaro in bocca nel timore

che quel fglio si sia rifutato di entrare alla festa della vita.

L’insegnamento della parabola non riguarda il rituale di penitenza, prendendo

come modello di conversione il «fgliol prodigo»; esso invece riguarda la natura

stessa della fede radicata nella cristologia: con la venuta di Cristo non possono

più esistere zone di emarginazione o categorie di persone escluse. Coloro che

sembrano fuori sono parte dell’amore del Padre e pertanto nella chiesa ci deve

essere posto per tutti, senza esclusione di lingua, popolo, cultura, civiltà. La discriminante

è la fede nel Padre di Gesù Cristo che si svela anche come Madre. L’universalità

della fede si traduce nella fecondità dell’amore sconfnato, un amore senza

ragioni e senza paure.

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