sabato 18 settembre 2010

Approfondiamo la Parola: le LECTIO del prete Carmine Miccoli

Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH) LECTIO DIVINA

“...non potete servire Dio e la ricchezza” ( Luca 16,13)

O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’ tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita, contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnovamento dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto nei secoli dei secoli. A.: Amen.

Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 16,1-13 (trad. CEI 2008)

1 [Gesù] diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi

fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2 Lo chiamò e gli disse: “Che cosa

sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.

3 L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi

toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. 4 So

io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia

qualcuno che mi accolga in casa sua”. 5 Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone

e disse al primo: 6 “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili

d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. 7 Poi disse

a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi

la tua ricevuta e scrivi ottanta”. 8 Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché

aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono

più scaltri dei figli della luce. 9 Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza

disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore

eterne.] 10 Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi

è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 11 Se dunque

non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12 E se non

siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? 13 Nessun servitore può

servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà

all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Note di esegesi per la comprensione del testo

Come per le altre parabole, anche per quella che abbiamo appena ascoltato bisogna

fare una distinzione su tre livelli: a) il testo redazionale scritto, che è quello

che leggiamo noi; b) il testo in uso nella comunità cristiana, magari in forma orale

o parzialmente scritta; c) quello che Gesù ha detto con la sua viva voce. Da tutto

il contesto del NT, noi sappiamo che Gesù non ebbe alcuna intenzione di fondare

una «chiesa» perché il suo orizzonte non era la storia umana fnita nel tempo, ma

il Regno di Dio come prospettiva di tutto il creato. Il Regno non è un luogo materiale

o una forma di governo, ma indica uno «stato», cioè una condizione per essere

fgli/e di Dio. Il «Regno» apre due prospettive: la prima afferma che c’è una

dimensione più grande di qualsiasi realizzazione umana che si chiama «Dio» e l’altra

dice che non può esservi realizzazione umana nella dimensione di Dio senza

condivisione e fraternità, senza assumere su di sé l’anelito di salvezza integrale

che c’è in tutta l’umanità. Il Regno non è una sètta, ma è il luogo della volontà di

Dio che vuole tutti gli uomini e le donne salvati (cf. 1Tm 2,4). Annunciando questo

orizzonte, Gesù dice ai suoi contemporanei che bisogna fare in fretta perché il

tempo a disposizione è molto poco. La prova di ciò sta nel fatto che la «Chiesa»

non è fondata su Gesù Cristo perché essa è destinata a fnire una volta compiuto

il cammino verso il Regno. La «Chiesa» come la sperimentiamo storicamente è

un «mezzo», non un «fne» e come tutti i mezzi un giorno potrà scomparire.

Gesù annuncia il «Regno», cioè la prospettiva di Dio che diventa fondamento della

dinamica umana per realizzare anche sulla terra un «segno-sacramento» dell’armonia

fnale: è la tensione che la Scrittura descrive tra Gerusalemme celeste e

Gerusalemme terrestre (cf. Ap 21). La «Chiesa cristiana» come storicamente noi

la sperimentiamo è fondata sulla testimonianza apostolica, cioè di tutti/e coloro

che ne garantiscono la presenza e la funzione. Per essere più precisi, la nostra

fede si fonda sulla fede dei primi cristiani, che a noi garantiscono la storicità di

Gesù e trasmettono il criterio dell’incarnazione come unica via per incontrare il

Dio invisibile: essa è lo strumento che poggia sulle colonne degli Apostoli (cf. Gal

2,9) per indicare agli esseri umani di tutti i tempi l’indirizzo del «Regno di Dio».

Con la parabola dell’amministratore disonesto e scaltro, che s’ispira ad un fatto

rilevante di cronaca, Gesù, senza dare patenti di moralità al padrone e all’amministratore,

si premura di annunciare l’urgenza di decidersi a scegliere, in base ad un

criterio di priorità. Sulla bocca di Gesù, l’amministratore è solo uno che

approftta della situazione imprevista e la capovolge a suo favore. Per questo lo

loda (cf. Lc 16,8), perché non si è scoraggiato di fronte alle diffcoltà, ma ha saputo

affrontarle. Gesù non esprime un giudizio sulla moralità o immoralità

dell’amministratore, ma invita a cogliere la situazione che si è venuta a creare al

momento di decidere sul futuro della propria esistenza. La parabola non è di

facile lettura: la riporta solo Lc, l’unico evangelista che può armonizzarla nel

contesto del suo vangelo dove è primario il ricorso al binomio ricchezza-povertà.

La parabola, infatti, dopo la predicazione di Gesù ha avuto un processo evolutivo

complesso con almeno tre passaggi, dopo il primo dovuto alla predicazione del

Gesù storico.

I primi cristiani (2° livello) modifcano questa interpretazione perché applicano la

parabola alla loro condizione concreta: in forza della loro fede e della loro scelta

non possono usare i «mezzi» che usa il mondo come, per es., frodare nei pesi

delle bilance, essere disonesti nel commercio, barare nelle relazioni e farsi strada

a danno di altri. Vivendo coerentemente, i cristiani sono svantaggiati di fronte a

chi è più disinvolto e non si pone problemi di comportamento e vive solo in funzione

di se stesso. I primi cristiani fanno subito una constatazione: negli affari i «fgli

di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei fgli della luce» (Lc 16,8).

L’espressione «fgli della luce» è un semitismo, cioè un modo orientale per defnire

i credenti: l’espressione si trova anche a Qumran dove i membri della comunità

sono identifcati in questo modo per la battaglia fnale contro i «fgli delle tenebre

», scontro a cui parteciperanno anche le schiere angeliche1. Questa constatazione

dei primi cristiani «dovrebbe» essere vera, anche se può apparire deprimente,

perché un cristiano da questo punto di vista sarà sempre inferiore di fronte

ai suoi simili perché egli non può usare certi mezzi: per la fede, il fne non li

giustifca mai, ma ad ogni fne deve corrispondere un mezzo adeguato, vero e

coerente. Un credente, p. es., non può frodare il fsco, perché ruba alla collettività

e anche a se stesso, impedendo la partecipazione ai beni della creazione che sono

un diritto; non può dire il falso per avere un vantaggio personale; non può pretendere

e fare leggi a suo uso e benefcio; non può servirsi della sua posizione sociale,

politica o ecclesiale per perseguire tornaconti suoi a danno della comunità.

Nei primi secoli, alcuni mestieri erano dichiarati incompatibili con la professione

di fede in Cristo proprio per i motivi sopradetti: il commerciante, il militare, il

macellaio, l'attore...

Un 3° livello interpretativo della parabola, in un tempo ancora successivo, ma prima

della redazione fnale di Lc, riguarda l’uso del denaro, argomento molto caro

alla comunità lucana che è attenta alla condizione reale dei poveri (cf. At 2,44-45;

1 Il tema dei «fgli della luce/fgli delle tenebre» è ricorrente in Qumran, ma è trattato in

modo speciale nella «Regola della Guerra» (=QM), databile tra il 110 a. C. e il 25 d. C.,

che descrive con minuziosità anche strategica la guerra tra il bene e il male che durerà 40

anni: cf. 1QM [+1Q33], col. 1 et passim.

4,34.36-37; 5,1-10). Non si tratta più di rassegnarsi di fronte alla malizia degli altri

e ammettere la propria inferiorità in certi comportamenti privati e pubblici, ma

ora ci si interroga sulla sorte che capita a chi possiede molti beni. È la questione

che affronta anche la lettera di Giacomo (cf. Gc 2,1-13; 5,1-6): la ricchezza in

rapporto al vangelo nella stile di vita dei cristiani. La comunità prende atto che

l’amministratore ha usato denaro di cui ancora disponeva per distribuirlo e

garantirsi un futuro; allo stesso modo i ricchi possono sperare di salvarsi, solo se

partecipano la loro ricchezza distribuendola come pegno per il Regno (cf. Lc 6,29-

30.34-35; 12,33). Solo spogliandosi della zavorra della ricchezza, i ricchi possono

sperare di entrare nel Regno di Dio (cf. Lc 18,25).

Si arriva infne al testo di Lc (4° e ultimo passaggio), questa volta scritto e giunto

a noi. Anche Lc dà una sua valutazione: ormai quasi alla fne del I sec. cambia la

prospettiva, perché cambiano le situazioni e le condizioni e Lc si trova di fronte

ad una comunità ormai stabile, dove le differenze sociali mettono in evidenza la

grande separazione che vi è tra i ricchi e i poveri, frutto di una sperequazione ingiusta,

e così aggiunge di suo pugno l’osservazione parenetica (cioè esortativa):

«Procuratevi amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a

mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9); con essa invita espressamente

i ricchi e farsi carico dei poveri con la condivisione dei loro beni, in forza

del principio che la comunione della fede comporta anche la comunione dei mezzi

materiali. Lc è l’autore che, sull’esempio di Paolo (cf. Rm 15,25-28; Gal 2,10;

1Cor 16,1.12; 2Cor 8-9), attribuisce grande importanza al denaro come strumento

di salvezza, dando così concretezza alla professione di fede che i primi cristiani,

così come gli ebrei, facevano pregando con lo Shemà Israel: «Amerai il Signore

Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua forza», dove il termine

«forza» (eb.: me’od) signifca appunto i beni terreni (Dt 6,5; Lc 10,27).

Vi è un ultimo insegnamento fnale (Lc 16,10-12) che l’evangelista propone prendendo

ancora una volta l’amministratore ad esempio. Egli è stato scaltro secondo

la sua etica disonesta, ma il cristiano non deve imitarlo in questa scaltrezza, per -

ché deve imparare che se vuole essere vero nelle cose che riguardano la fede e

Dio è necessario che impari a sapere amministrare le cose più insignifcanti. Se diciamo

di credere in Gesù risorto, dobbiamo anche darlo a vedere non nelle parole

proclamate o nei giudizi che spesso facilmente diamo sugli altri, ma solo attraverso

i nostri comportamenti e la nostra vita ordinaria, le sole vie attraverso le

quali siamo credibili noi e testimoniamo la credibilità di Dio. La parola senza la testimonianza

della vita, trasforma il vangelo in ideologia che esclude la fede e si

trasforma in religione civile, strumento di dominio e di possesso delle coscienze

e negazione dell'annuncio liberante di Gesù e del Regno.

- pro manuscripto -

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