Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)
LECTIO DIVINA
“...non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (cf. Mt 5,17)
Canto (facoltativo), a scelta della comunità.
Dopo un’opportuna introduzione, si può invocare lo Spirito Santo con il canone Veni Sancte Spiritus o
Vieni, Spirito Creatore (Taizè), o altra preghiera simile, come la seguente.
P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare
la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnova -
mento dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto
nei secoli dei secoli. A.: Amen.
Canto (facoltativo): Alleluia (Taizè).
L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Matteo (Mt 5,17-37;
trad. CEI 2008).
[In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:] «17 Non crediate che io sia venuto ad
abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento.
18 In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un
solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19 Chi dunque
trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto,
sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà
considerato grande nel regno dei cieli.
20 Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei,
non entrerete nel regno dei cieli. 21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai;
chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22 Ma io vi dico: chiunque si
adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratel -
lo: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato
al fuoco della Geènna.23 Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi
che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all’altare,
va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. 25 Mettiti
presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario
non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione.
26 In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo
spicciolo!
27 Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. 28 Ma io vi dico: chiunque
guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.
29 Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene
infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga
gettato nella Geènna. 30 E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala
via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il
tuo corpo vada a finire nella Geènna.
31 Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. 32 Ma io vi
dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone
all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
33 Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai
verso il Signore i tuoi giuramenti”. 34 Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo,
perché è il trono di Dio, 35 né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per
Gerusalemme, perché è la città del grande Re. 36 Non giurare neppure per la tua testa,
perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37 Sia invece il vostro
parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno».
Segue la meditazione della Parola proposta dalla guida della celebrazione; dopo un momento personale di
silenzio per la lectio, si prosegue con la condivisione comune sulla Parola ascoltata. Al termine, ognuno
dei presenti può proporre un’intenzione di preghiera; ad ognuna, l’assemblea canta o risponde con un’acclamazione.
Si conclude con la preghiera del Padre nostro… [e la benedizione finale].
Note di esegesi per la comprensione del testo
Il brano del vangelo di oggi prosegue la lettura continua di Mt che, nei capp. 5-7,
ci presenta il “discorso della montagna”; i versetti che abbiamo letto, secondo lo
schema liturgico, sono i primi 21 della sezione di antìtesi (5,17-6,1) proclamate da
Gesù, costruite in forma binaria di contrasto: da una parte si annuncia la situazione
come è («Avete inteso che fu detto…») e su cui si basa l’insegnamento e la
prassi religiosa1; dall’altra parte si enuncia una novità che si contrappone alla situazione
esistente, aprendo prospettive nuove e inesplorate («Ma io vi dico…»).
Queste antitesi devono essere lette insieme per comprendere sia la struttura letteraria
del testo, che per cogliere il messaggio che l’autore mette in bocca a
Gesù.
Vi sono due poli importanti che delimitano la forma del testo. I primi tre versetti
(cf. 5,17-19) formano da introduzione, quasi che Gesù voglia preparare il suo uditorio
a ciò che dirà subito dopo. Egli stesso afferma esplicitamente di porsi nel
solco della «tradizione» scritturistica e profetica, che egli certamente non rinne-
1 Al tempo di Gesù, ogni dottrina nuova per essere accettata doveva appoggiarsi sull’autorità
di uno o più «maestri»; Gesù si stacca da questo procedimento e basa la sua predica -
zione solo sulla sua autorità che gli deriva dal Padre (cf. Gv 8,38.54).
ga. Gesù è intimamente fglio di Israele e ne rivendica l’appartenenza (cf. 5,17);
con ciò afferma anche un altro pensiero determinante e cioè che la «Legge e i
Profeti» non sono compiuti, ma sono rimasti ancora velati e aspettano di essere
interpretati per dare il signifcato pieno che scribi e farisei non solo non hanno
investigato, ma hanno coscientemente impedito, perché hanno chiuso le porte del
Regno alla gente, fnendo per non entrare loro e gli altri (cf. Mt 23,13; Lc 11,52).
Gesù restituisce all’umanità la chiave della scienza, cioè la relazione interpersonale
con Dio attraverso l'ascolto e la condivisione della Parola.
L’introduzione alle antitesi (cf. 5,17-19) è dovuta alla penna dell’evangelista per inquadrare
il signifcato della nuova proposta di Gesù. Il primo versetto (5,17) proviene
dalla tradizione orale, di fonte paolina2, a cui dà un signifcato nuovo nella
direzione del compimento delle Scritture, tema che pervade tutto il primo vangelo.
Ciò signifca che nella Scrittura tutto, anche ciò che può apparire insignifcante,
ha un valore profetico riferito a Cristo, considerato così come la pienezza di tutta
la rivelazione sia scritta che orale. Paolo aveva detto espressamente che «la
Legge è stata per noi un pedagogo, fno a Cristo, perché fossimo giustifcati per la
fede» (cf. Gal 3,24)3.
Dalla tradizione sinottica (cf. Lc 16,17) proviene invece l’inizio di Mt 5,18, che afferma
la perennità della Legge (cf. Mt 23,25; 15,6), ma a cui Mt aggiunge l’espressione
«senza che tutto sia avvenuto», espressione che indica il compimento in pienezza
che ritma tutto il suo vangelo. Le sei contrapposizioni, di cui il brano odierno
riporta le prime quattro, sono inserite in un'inclusione4 perché sono introdotte
e concluse dallo stesso tema sulla giustizia:
Introduzione (Mt 5,20) Conclusione (Mt 6,1)
Se la vostra giustizia non supererà
quella degli scribi e dei farisei, non
entrerete nel Regno dei cieli.
State attenti a non praticare la vostra
giustizia davanti agli uomini
per non essere ammirati da loro.
Per sottolineare il suo pensiero, Gesù usa una immagine radicale: «Finché non siano
passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge,
senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18): lo iota (che in italiano si traslittera
con «y») è una delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, che nella forma grafca è la
più piccola tra tutte; il «trattino», in greco keráia, cioè «virgola, segno», si riferisce
al ta'am, il segno che in ebraico unisce due parole strettamente collegate tra loro.
2 «Ora, il termine [gr.: il fne] della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque
crede» (Rm 10,4; cf. Rm 3,31; 13,8-10).
3 Il greco ha il termine paidagogòs, che al tempo di Paolo più che il signifcato proprio di
«istruttore» signifcava «sorvegliante», come era lo schiavo che in casa custodiva i bambini
e li accompagnava a casa del maestro di scuola.
4 L’inclusione è il «procedimento letterario che consiste nel racchiudere una unità letteraria
tra due parole o frasi uguali o equivalenti» (F. FLOR SERRANO-L.ALONSO SCHÖKEL, Dizionario
terminologico della Scienza Biblica, Roma 1981, 43).
Non bisogna tuttavia fermarsi qui, per non correre il rischio di concludere il discorso
con quella vera e propria eresia propugnata da una certo pensiero ecclesiastico
tradizionalista che parla della «teologia della sostituzione»: poiché Gesù
«compie» la Toràh, l’AT testamento cessa di avere valore e la comunità cristiana
nascente sostituisce la comunità del popolo d’Israele. Da ciò se ne deduce che la
vita morale del credente deve avere come proprio orizzonte non una parte della
Parola di Dio, ma la sua totalità nella sua unitarietà, anche in quegli aspetti che
possono sembrare minuzie e che invece esprimono l’interezza dell’insegnamento
(cf. Mt 5,19). Questo stile di accostarsi alla Parola diventa anche responsabilità nei
confronti degli altri, qui espresso nel binomio «osservare/insegnare» che pone
decisamente in relazione l’insegnamento con la testimonianza della vita (cf. Mt
25,21.23; Lc 16,10-11). Il comportamento e le scelte della vita manifestano la visibilità
della gloria di Dio che così si condiziona nella testimonianza di chi dice di
credere. È il dramma e insieme la gioia della vita del credente che non ha una vocazione
generica alla santità intimistica, ma una vera chiamata alla profezia delle
vita perché essa è il luogo della credibilità di Dio, dove questi diventa visibile e
sperimentabile davanti al mondo (cf. 1Gv 1,1-4; 4,12-21).
Un lettore superfciale potrebbe rimanere confuso di fronte a questo elogio di
Gesù dell’osservanza della Legge in quanto evento dell’AT, anche perché Paolo ci
ha impressionato con la sua diatriba corposa e forte che mette in discussione il
valore stesso della Legge mosaica fno al punto di dire che essa è «motivo di
morte» (cf. Rm 7,7-13; cf. anche Ger 9,23-24). In Gal 3,23-24 Paolo descrive la funzione
pedagogica della Toràh che avrebbe dovuto condurre a Cristo, ma essa non
poté svolgere il proprio compito perché si smarrì in un mare di prescrizioni, tanto
che gli stessi farisei pensavano che il popolino non potesse salvarsi perché per
i semplici era impossibile osservare tutti i 613 precetti. La Legge, ogni legge, deve
educare e guidare, non impedire e rallentare. Questo pericolo è scongiurato dalla
lettura che Mt fa del «compimento» dell’AT sia come pienezza in sviluppo, sia
come profezia in sé. La differenza tra il “fariseo” e il discepolo sta nel fatto che il
primo vive la giustizia come adempimento materiale della Legge, mentre per il secondo
compiere la giustizia signifca entrare in comunione di vita con Dio in un
rapporto affettivo e vitale. Il primo è tentato di «divinizzare» la Legge che diventa
così un idolo5; il secondo non si occupa, né si preoccupa di «compiere la Legge»
5 I rabbini, per difendere il giudaismo dai cristiani e dai non-Ebrei, avevano imposto di
«fare una siepe intorno alla Toràh» (Pirqè ‘abot I,1) per impedire anche ai cristiani di accedervi.
La siepe divenne così spessa che impedì di giungere al cuore stesso della Toràh che
si perse in un mare di precetti e prescrizioni che la tradizione codifcò in 613 precetti
(ebr.: mitzwòt) che il pio Ebreo deve osservare sempre. I farisei, che costituivano la classe
dirigente più «popolare» perché vicini alla gente, ritenevano che il popolo non potesse
salvarsi perché era incapace di osservare tutti i 613 precetti. I precetti sono divisi in due
categorie: 365 sono negativi (uno per ogni giorno dell’anno) e 248 positivi (uno per ogni
parte del corpo che si compone di 248 pezzi); le donne, che di norma non partecipano
o i riti o le prescrizioni, perché la sua ragione di vita sta tutta nella persona del
Signore che diventa la sorgente e il fondamento del suo essere e del suo agire. Il
credente vive la storia con passione e tranquillità perché sa che in Gesù i tempi
sono compiuti e ha inizio una nuova dimensione che ha come modello
l’obbedienza del Figlio al Padre (cf. Fil 2,8; Eb 5,8-9); per questo è determinante
capire quanto sia importante che Mt abbia messo quest'introduzione alle antitesi,
perché essa è la chiave che determina il senso giusto dell’immutabilità della Toràh.
Tra il cristiano e la Legge (qualsiasi legge) da questo momento c’è la mediazione
della giustizia di Cristo che si realizza nell’obbedienza sua al Padre, cioè in una
relazione d’amore e non in una sudditanza di potere padronale. Non si osserva la
Legge per diventare giusti, ma si vive la Legge perché si è giusti in quanto redenti,
amati. Dopo avere affermato il suo pieno inserimento nel solco della tradizione
biblica ebraica, Gesù inizia la serie delle antitesi: «Avete inteso che fu detto… ma
io vi dico...» con cui Gesù annuncia la sua rivoluzione in contrapposizione con la
«Legge6 orale» che secoli dopo verrà codifcata nella Mishnà e poi nel Talmùd.
I. La prima delle antitesi si riferisce al 5° comandamento, che al tempo di Gesù
aveva una interpretazione complessa, con una miriade di condizioni tutte esterne
perché si potesse stabilire l’omicidio. Per esempio, la Legge orale, successivamente
codifcata nel Talmud (Sanhedrìn, 57a), stabilisce che si ha omicidio quando un
ebreo uccide un altro ebreo e per questo deve essere messo a morte; se un
ebreo uccide un non ebreo il fatto non costituisce omicidio. La Legge scritta prescrive
in modo indiscusso: «Tu non uccidere» (Es 20,13; Dt 5,17), eppure essa è
svuotata di signifcato perché viene fatta dipendere solo dalle circostanze esteriori.
Se si comprende questo contesto «da casistica», si capisce quale forza dirompente
abbia avuto l’affermazione di Gesù che riporta tutto all’intenzione del cuore
e quindi all’atteggiamento interiore, cioè ad una decisione morale che coinvolge
la coscienza e la volontà. Anche se esternamente uno si ferma solo all’ingiuria,
l’intenzione che la provoca può essere valutata più duramente di un «omicidio
materiale». Per capire ulteriormente il senso delle affermazioni di Gesù nel contesto
della cultura religiosa del suo tempo è necessario capire il signifcato che
bisogna dare ad espressione come «dovrà essere sottoposto a giudizio» oppure
«dovrà essere sottoposto a al sinedrio» (cf. Mt 5,22). La sentenza alternativa di
Gesù nella prima antìtesi (Mt 5,21-26) si compone di due parti:
1. (Mt 5,21-22) la prima parte comprende il discorso sul giudizio e sul tribunale
che a sua volta si distingue in due riflessioni complementari:
a. la prima rifessione (Mt 5,21-22a) riguarda l’omicidio e l’ingiuria sottoposti al
«giudizio», che è l’equivalente di «tribunale». Con questo termine si intende il
consiglio uffciale della comunità che si trova sia a livello locale, dove si chiama
«tribunale», sia a livello nazionale, dove assume il nome di «sinedrio». I due
allo Shabàt in sinagoga, sono dispensate dall’osservare i precetti positivi.
6 In ebraico, Toràh signifca «Insegnamento»; nella versione della Bibbia dei LXX si usa Nòmos,
«Legge», da cui viene anche la nostra traduzione.
luoghi di giudizio, tribunale e sinedrio, hanno la competenza giuridica di «scomunicare
», cioè espellere dalla comunità, i membri colpevoli. La scomunica è
una forma di sentenza di morte perché estromette dalla vita di relazione dentro
la comunità e lo scomunicato non può avere rapporti con alcuno: è di fatto
un morto vivente (cf. Mt 10,17; Gv 16,2; 1Cor 6,4-5; cf. anche Gv 9,34). Poiché
la prima comunità cristiana proviene dall’ebraismo, è naturale supporre con
ragionevole certezza che abbia continuato gli stessi usi e costumi anche al suo
interno (cf. Mt 18,15-17; At 5; 1Cor 5,1-5; 1Tm 2);
b. la seconda rifessione (Mt 5,22bc) esprime lo stesso concetto con altre parole
come «fuoco delle Geènna»7 che ha non una recrudescenza di pena, ma piuttosto
un signifcato equivalente a «sinedrio». Nell’una e nell’altra parte si tratta
comunque del comportamento della comunità che reagisce di fronte ai colpevoli
al suo interno. La giurisdizione giudaica giudica il comportamento esterno,
a differenza di quella cristiana che, imitando Dio, valuta l’intenzione del
cuore, come avviene anche per l’adulterio (cf. Mt 5,28). Questa nuova giurisprudenza
che si applica nella comunità nata dall’annuncio del Vangelo si basa
su due principi che, ancora una volta, realizzano la «profezia» dell’AT: il primo
poggia sulla persona stessa di Dio, il solo che può dire: «Io, il Signore, scruto la
mente e saggio il cuore» (Ger 19,10; cf. anche Ger 11,20; 12,3); il secondo principio
si basa sul diritto di esigere di più da coloro che sono stati chiamati nella
alleanza nuova perché questa non è un invito a mutare comportamento, ma
un autentico innesto di cuore (cf. Ez 36,23-30; Ger 31,31-34).
2. (Mt 5, 23-24) la seconda parte riguarda l’offerta cultuale e il suo risvolto comunitario
con una esemplifcazione giudiziaria (cf. 5,25-26). Nei pressi del tempio
di Gerusalemme e delle sinagoghe successive vi erano molte fontane di acqua
corrente: se uno prima di entrare a fare l’offerta si ricorda all’improvviso di
essere impuro (cf. Lv 15-17), deve sottoporsi ad un complicato sistema di abluzioni
per purifcarsi. Se ciò vale per un atto di culto, a maggior ragione deve valere
per la purifcazione del cuore; Gesù eleva il rito della purifcazione dal livello
esteriore a quello spirituale e pone al centro del culto la qualità della relazione
con gli altri membri della comunità di appartenenza. Se nella prima parte si
trattava di omicidio, qui si tratta propriamente di «purità rituale», ma l’uno e
l’altro aspetto procedono di pari passo perché hanno in comune l’obiettivo di
una giustizia nuova che esclude qualsiasi formalismo ed esteriorità e fonda tutto
sulla interiorità. Anche qui ciò che conta non è l’atto in sé che può essere compiuto
meccanicamente, ma l’intenzione, cioè la motivazione interiore e quindi la
scelta morale.
7 La Geènna (in ebr.: Ben-Innòm) è la valle sud-ovest di Gerusalemme (cf. Gs 15,8; 18,16;
2Re 23,10; 2Cr 33,6; Ne 11,30; Ger 7,31; Zc 14,5). Questa era stata consacrata al dio Moloch,
cui venivano sacrifcati i bambini (2Re 23,10; Ger 32,35) e per questo era considerata
maledetta e divenne sinonimo di punizione e di inferno. Al tempo di Gesù era il luogo
dove si bruciavano le immondizie, per questo fuoco e fumo erano continui.
II. La seconda antitesi tratta dell’adulterio collegato con il divorzio, oggetto della
terza antitesi, che trattiamo brevemente insieme. Quanto all’adulterio, Gesù fa lo
stesso ragionamento che ha fatto per l’omicidio e per l’offerta cultuale, subordinata
alla riconciliazione: la chiave per valutare i comportamenti è sempre l’intenzione.
«Guardare una donna per desiderarla» (Mt 5,28) non signifca fare qualche
apprezzamento estetico di fronte alla bellezza femminile; l’autore infatti usa il verbo
blèpo, che signifca «guardo con attenzone, scruto, considero» e indica qui lo
sguardo possessivo, ovvero il pensiero macchinoso per creare la condizione dell’adulterio;
anche se poi la macchinazione fallisse e non si realizzasse alcun adulterio,
nulla importa perché il male è già avvenuto8. L’adulterio è talmente abominevole
nei confronti di Dio che ogni pio ebreo deve preferire la morte piuttosto
che commettere un simile delitto. Un modello di esempio è il patriarca Giuseppe,
tentato dalla moglie di Putifarre9. Esso deve essere punito con la lapidazione (cf.
Lv 20,10; Dt 22,20-22; Ez 16,38-40), anche se i rabbini ritengono che la morte per
strangolamento sia più umana. Perché questa durezza verso l’adulterio? Nei confronti
degli adulteri si applica la legge del taglione (cf. Es 21,23-25), probabilmente
perché si considera che l’uomo e la donna, nel momento in cui si uniscono, cessano
di essere individui singoli e acquisiscono un'identità specifca che li fa «immagine
di Dio» (cf. Gen 1,27) perché diventano «un solo corpo», cioè una persona
nuova. L’adulterio spezza l’unità della nuova persona e quindi, uccidendola, la divide
in due nel tentativo di sostituirne una metà con un’altra, che non può riportare
in vita la «carne sola» che è stata smembrata. In sostanza, da un punto di vista
della fede ebraica, l’adulterio è l’omicidio della «persona coniugale», espressione
unica della persona stessa di Dio.
III. Riguardo al divorzio, la legislazione di Mosè lo permette (Dt 24,1-4). Il testo
esprime un’epoca patriarcale, cioè dominata dal «maschio», in cui la colpa è sempre
della donna; il diritto di divorziare spetta solo al marito che lo formalizza con
un documento scritto consegnato alla donna (Talmud B. Gittìm, 20a). Sulla giurisprudenza
di stabilire cosa sia «qualcosa di vergognoso», al tempo di Gesù si sbizzarriscono
le scuole rabbiniche tra cui si distinguono, in modo particolare, quella
di rav Hillel e quella di rav Shammài: per quest’ultimo il divorzio deve motivato da
un fatto rilevante, come l’infedeltà; per il primo, invece, un uomo può ripudiare la
moglie anche se brucia la minestra. Rav Aqivà a sua volta ammette la possibilità
del ripudio della moglie se il marito ne ha trovato un’altra più bella e piacente
8 Lo stesso pensiero di chiunque guardi una donna con desiderio si trova nel Midràsh Levitico
Rabbàh 32,12; lo stesso vale per la donna che pensa ad un altro uomo mentre ha rapporti
con il marito; all’uno e all’altra viene riservata un castigo eterno dopo la morte (cf.
Talmud B. Baba Metzia, 58b).
9 Il patriarca Giuseppe aggiunge una motivazione teologica: per lui l’adulterio è un’offesa a
Dio e di conseguenza è offesa al marito della donna (Gen 39,9). Uomo e donna, infatti,
sono entrambi l’unica «immagine di Dio» (cf. Gen 1,27) e smembrare questa signifca deformare
la natura stessa di Dio.
(Mishnàh Gittìm, 9,10). In due soli casi l’uomo non può ripudiare: se ha accusato la
moglie di non essere vergine al momento del matrimonio e l’accusa è risultata
falsa (cf. Dt 22,13-19) e se un uomo ha violentato una donna e in seguito sposata
(cf. Dt 22,28-29). In qualsiasi modo, un uomo non può risposare una donna da cui
ha precedentemente divorziato. La Legge proibisce inoltre ad un sacerdote (ebr.:
kohèn) di sposare una donna divorziata (cf. Lv 21,7.14). La letteratura profetica è,
però, contro il divorzio (cf. Ml 2,14-16); da parte sua, il Sapiente esorta
insistentemente alla fedeltà coniugale (cf. Pr 5,15-19). Il Talmud stesso, che pure
riporta le discussioni rabbiniche, dichiara apertamente che «l’altare versa lacrime
per l’uomo che ripudia la sua prima moglie» (Talmud B., Sanhedrìn, 22a). All’interno
di questa prassi e cultura si colloca l’insegnamento di Gesù, il cui pensiero si
inserisce senza ombra di dubbio sulla linea profetica e sapienziale: il divorzio non
può sciogliere l’unione compiuta da Dio tra un uomo e una donna, i quali anche
se si separano non riacquistano la libertà come non è libera la persona che
sposasse uno dei due separati (cf. Mt 19,1; Mc 10,10-12; Lc 16,18; 1Cor 7,10-11).
La posizione di Gesù è totalmente nuova e dirompente, perché i profeti e i
sapienti auspicano che non vi fosse divorzio, ma non possono evitarlo per la
fragilità umana; mentre Gesù afferma con forza e incidenza che la relazione
uomo-donna si può collocare solo sul piano di Dio che ha un solo disegno su di
essa. L’unione uomo-donna è fragile come «un tesoro in vasi di creta» (cf. 2Cor
4,7) che non può fondarsi solo sulle forze umane, ma ha bisogno di un
supplemento di forza che solo Dio può dare. Il rapporto uomo-donna, cioè, nel
momento in cui si compie, acquista una dimensione soprannaturale perché
assume le stesse caratteristiche dell’alleanza tra Dio e Israele: un’alleanza, un
patto eterni, che nessuno potrà mai spezzare.
L’insegnamento di Gesù è talmente nuovo e scioccante per la mentalità giudaica
del suo tempo che egli stesso si preoccupa non di parlare astrattamente, ma assume
come parametro del suo pensiero situazioni concrete e verifcabili: il caso
di una donna ripudiata e di un uomo che vuole sposarla. Mt 5,32 si distacca dagli
altri sinottici perché solo Mt parla di responsabilità del marito che ripudia la moglie,
esponendola così all’adulterio, nel senso che abbiamo descritto più sopra. Ad
ogni modo, il signifcato è lo stesso: nessun atto di ripudio può annullare l’unione
coniugale. Il testo di Mt, però, pone alcuni problemi perché lui solo, tra gli altri sinottici
e Paolo (cf. anche Mt 19,9) riporta l’inciso «eccetto il caso di unione illegittima
» (gr.: pornèia, fornicazione). Probabilmente, Mt si riferisce a Dt 24,1-4. Il ragionamento
non è immediato e non è semplice, ma possiamo tentare di capirlo:
l’atto di ripudio non è fondato sul diritto perché Dio ha creato la coppia indissolubile,
però la storia insegna che il ripudio avviene e quindi per Mt si colloca sul
piano della prassi, dove si incontrano almeno due eventi che mettono fne ad una
unione indissolubile. Il primo fatto è la morte che scioglie da qualsiasi vincolo; il
secondo fatto è l’adulterio che si può considerare, come abbiamo visto, una morte
spirituale, non meno reale per la coppia che la prima. L’adulterio comporta una
tale macchia che la stessa Legge proibisce di riprendere l'unione, anche dopo il
pentimento, perché la coppia non può esprimere più l’unione sponsale tra Dio e
Israele (cf. Os 2,4; Sir 23,24-27). Da tutto ciò deriva che anche Mosè non ammette
il divorzio sul piano del diritto, ma lo concede su quello della prassi, facendosi
carico della fragilità umana e non abbandonando alcuno a se stesso, nemmeno se
abbia commesso il delitto più atroce. Gesù non contesta la norma di Mosè che
anche per lui resta una legge che riconosce necessaria, perché viene in aiuto alla
durezza del cuore umano, il quale per esprimersi spesso sceglie le situazioni
ambigue, addirittura torbide, spesso condizionato dall’ambiente e dal suo vissuto.
Oggi la psicologia ci aiutano a capire che spesso noi scegliamo o ci comportiamo
in un modo che non vorremmo, ma siamo condizionati dal nostro inconscio.
L’uomo e la donna si separano: è un fatto. Gesù dice: ne prendiamo atto, ma ciò
non intacca minimamente il disegno di Dio, che resta l’indissolubilità. Ai farisei che
si appellano all’autorità di Mosè, Gesù risponde dicendo che Mosè non può
essere superiore a Dio e nemmeno lui può annullare la volontà divina. La realtà,
però, non sempre coincide con il progetto di Dio, perché l’uomo è fnito e il suo
cammino è spesso tortuoso e non lineare: egli ha davanti il progetto di Dio, che
resta una mèta a cui aspira, ma non riesce a realizzarla per la debolezza, per la
fragilità, per le circostanze non sempre imputabili a scelte etiche, come si esprime
con angoscia Paolo (Rm 7,15-23). Sulla bocca di Gesù quindi si tratta di un uomo
che vive una situazione drammatica: subisce la separazione e non vuole
commettere adulterio, ma deve ubbidire alla Legge che gli impone di ripudiare la
moglie; se si risposa, Gesù non lo condanna moralmente, ma non dice che il
nuovo matrimonio abbia validità giuridica: è un fatto che si accetta, senza
condannare chi lo vive.
Cosa si ricava da tutto ciò nel nostro mondo, dove il divorzio è ormai così abituale
ed è entrato nella prassi comune da non essere più un problema se non per
le guerre che comporta la spinosa questione degli alimenti e dei/lle fgli/e? Il divorzio
è una «necessità» del mondo moderno dove le relazioni spesso si subiscono
e non si vivono. Oggi molti non si sposano per amore, ma per paura della solitudine:
più che matrimoni si hanno cooperative o... società per azioni. I condizionamenti
psicologici, sociali ed economici sono tali e tanti in una società complessa
e superfciale che due persone che decidono di stare insieme lo fanno più per
paura del futuro che per un ideale di vita e diventano inevitabilmente fragili e incompiuti.
A ciò si aggiunga il condizionamento dell’ambiente circostante dove
«così fan tutti» e il gioco è fatto. Dall’altra parte la Chiesa è arroccata sui modelli
familiari preindustriali o borghesi e non riesce a dire una parola di sostegno alle
coppie felici e a quelle in diffcoltà: è più facile predicare divieti e condanne che
cercare vie e strumenti nuovi per tempi nuovi con problemi nuovi. Forse la Chiesa,
gestita da uomini che non sanno cosa sia il matrimonio come impegno e responsabilità,
dovrebbe imparare da Gesù che, mentre afferma il progetto di Dio
sul matrimonio, si fa carico anche delle situazioni paradossali del singolo caso e
senza condannarlo lo spinge a cercare lo stesso Dio per potere aiutare le
persone coinvolte a ritrovare se stesse e la profondità della propria interiorità.
IV. La quarta antitesi tratta del giuramento che in se stesso è la prova solenne e
uffciale della menzogna. Se infatti non esistesse la menzogna, non vi sarebbe affatto
bisogno di giurare il vero perché il «sì» sarebbe sempre «sì» e il «no, no» (Mt
5,37). La Toràh ha sempre lottato contro la menzogna fno al punto di arrivare a
legiferare sul giuramento come strumento per fare emergere la verità e bandire
la menzogna (cf. Mt 5,33 con Es 20,7; Nm 20,3). Se però la verità è tutelata dal giuramento
nei tribunali, fuori di questo contesto, nella vita ordinaria, la menzogna
domina perché è senza argine e la verità resta scoperta e senza difesa. Gesù eli -
mina la menzogna in ogni circostanza e non concede eccezioni, per cui crolla il sistema
giudaico del giuramento come garante di verità e testimone di menzogna e
afferma la verità sempre comunque e in ogni circostanza. Nella prospettiva di
Gesù il giuramento è superfluo, anzi inutile perché tutto è trasparente. Ecco perché
ascoltiamo e condividiamo la Parola di Dio: per imparare la conoscenza del
progetto del Regno e il suo linguaggio, che non è solo la verità come metodo di
relazione, ma la persona stessa di Gesù, il solo che ha potuto dire: «Io-Sono la Via,
la Verità e la Vita» (cf. Gv 14,6).
- pro manuscripto -
giovedì 10 febbraio 2011
Le lectio del prete Carmine Miccoli: Matteo 5,17-37 (Domenica VIA - 13 febbraio 2011)
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La Parola che si fa vita
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