giovedì 10 febbraio 2011

Le lectio del prete Carmine Miccoli: Matteo 5,17-37 (Domenica VIA - 13 febbraio 2011)

Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)


LECTIO DIVINA

“...non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (cf. Mt 5,17)

Canto (facoltativo), a scelta della comunità.

Dopo un’opportuna introduzione, si può invocare lo Spirito Santo con il canone Veni Sancte Spiritus o

Vieni, Spirito Creatore (Taizè), o altra preghiera simile, come la seguente.

P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare

la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’

tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella

tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,

contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e

a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnova -

mento dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto

nei secoli dei secoli. A.: Amen.

Canto (facoltativo): Alleluia (Taizè).

L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Matteo (Mt 5,17-37;

trad. CEI 2008).

[In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:] «17 Non crediate che io sia venuto ad

abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento.

18 In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un

solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19 Chi dunque

trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto,

sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà

considerato grande nel regno dei cieli.

20 Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei,

non entrerete nel regno dei cieli. 21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai;

chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22 Ma io vi dico: chiunque si

adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratel -

lo: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato

al fuoco della Geènna.23 Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi

che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all’altare,

va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. 25 Mettiti

presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario

non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione.

26 In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo

spicciolo!

27 Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. 28 Ma io vi dico: chiunque

guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.

29 Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene

infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga

gettato nella Geènna. 30 E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala

via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il

tuo corpo vada a finire nella Geènna.

31 Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. 32 Ma io vi

dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone

all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.

33 Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai

verso il Signore i tuoi giuramenti”. 34 Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo,

perché è il trono di Dio, 35 né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per

Gerusalemme, perché è la città del grande Re. 36 Non giurare neppure per la tua testa,

perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37 Sia invece il vostro

parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno».

Segue la meditazione della Parola proposta dalla guida della celebrazione; dopo un momento personale di

silenzio per la lectio, si prosegue con la condivisione comune sulla Parola ascoltata. Al termine, ognuno

dei presenti può proporre un’intenzione di preghiera; ad ognuna, l’assemblea canta o risponde con un’acclamazione.

Si conclude con la preghiera del Padre nostro… [e la benedizione finale].

Note di esegesi per la comprensione del testo

Il brano del vangelo di oggi prosegue la lettura continua di Mt che, nei capp. 5-7,

ci presenta il “discorso della montagna”; i versetti che abbiamo letto, secondo lo

schema liturgico, sono i primi 21 della sezione di antìtesi (5,17-6,1) proclamate da

Gesù, costruite in forma binaria di contrasto: da una parte si annuncia la situazione

come è («Avete inteso che fu detto…») e su cui si basa l’insegnamento e la

prassi religiosa1; dall’altra parte si enuncia una novità che si contrappone alla situazione

esistente, aprendo prospettive nuove e inesplorate («Ma io vi dico…»).

Queste antitesi devono essere lette insieme per comprendere sia la struttura letteraria

del testo, che per cogliere il messaggio che l’autore mette in bocca a

Gesù.

Vi sono due poli importanti che delimitano la forma del testo. I primi tre versetti

(cf. 5,17-19) formano da introduzione, quasi che Gesù voglia preparare il suo uditorio

a ciò che dirà subito dopo. Egli stesso afferma esplicitamente di porsi nel

solco della «tradizione» scritturistica e profetica, che egli certamente non rinne-

1 Al tempo di Gesù, ogni dottrina nuova per essere accettata doveva appoggiarsi sull’autorità

di uno o più «maestri»; Gesù si stacca da questo procedimento e basa la sua predica -

zione solo sulla sua autorità che gli deriva dal Padre (cf. Gv 8,38.54).

ga. Gesù è intimamente fglio di Israele e ne rivendica l’appartenenza (cf. 5,17);

con ciò afferma anche un altro pensiero determinante e cioè che la «Legge e i

Profeti» non sono compiuti, ma sono rimasti ancora velati e aspettano di essere

interpretati per dare il signifcato pieno che scribi e farisei non solo non hanno

investigato, ma hanno coscientemente impedito, perché hanno chiuso le porte del

Regno alla gente, fnendo per non entrare loro e gli altri (cf. Mt 23,13; Lc 11,52).

Gesù restituisce all’umanità la chiave della scienza, cioè la relazione interpersonale

con Dio attraverso l'ascolto e la condivisione della Parola.

L’introduzione alle antitesi (cf. 5,17-19) è dovuta alla penna dell’evangelista per inquadrare

il signifcato della nuova proposta di Gesù. Il primo versetto (5,17) proviene

dalla tradizione orale, di fonte paolina2, a cui dà un signifcato nuovo nella

direzione del compimento delle Scritture, tema che pervade tutto il primo vangelo.

Ciò signifca che nella Scrittura tutto, anche ciò che può apparire insignifcante,

ha un valore profetico riferito a Cristo, considerato così come la pienezza di tutta

la rivelazione sia scritta che orale. Paolo aveva detto espressamente che «la

Legge è stata per noi un pedagogo, fno a Cristo, perché fossimo giustifcati per la

fede» (cf. Gal 3,24)3.

Dalla tradizione sinottica (cf. Lc 16,17) proviene invece l’inizio di Mt 5,18, che afferma

la perennità della Legge (cf. Mt 23,25; 15,6), ma a cui Mt aggiunge l’espressione

«senza che tutto sia avvenuto», espressione che indica il compimento in pienezza

che ritma tutto il suo vangelo. Le sei contrapposizioni, di cui il brano odierno

riporta le prime quattro, sono inserite in un'inclusione4 perché sono introdotte

e concluse dallo stesso tema sulla giustizia:

Introduzione (Mt 5,20) Conclusione (Mt 6,1)

Se la vostra giustizia non supererà

quella degli scribi e dei farisei, non

entrerete nel Regno dei cieli.

State attenti a non praticare la vostra

giustizia davanti agli uomini

per non essere ammirati da loro.

Per sottolineare il suo pensiero, Gesù usa una immagine radicale: «Finché non siano

passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge,

senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18): lo iota (che in italiano si traslittera

con «y») è una delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, che nella forma grafca è la

più piccola tra tutte; il «trattino», in greco keráia, cioè «virgola, segno», si riferisce

al ta'am, il segno che in ebraico unisce due parole strettamente collegate tra loro.

2 «Ora, il termine [gr.: il fne] della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque

crede» (Rm 10,4; cf. Rm 3,31; 13,8-10).

3 Il greco ha il termine paidagogòs, che al tempo di Paolo più che il signifcato proprio di

«istruttore» signifcava «sorvegliante», come era lo schiavo che in casa custodiva i bambini

e li accompagnava a casa del maestro di scuola.

4 L’inclusione è il «procedimento letterario che consiste nel racchiudere una unità letteraria

tra due parole o frasi uguali o equivalenti» (F. FLOR SERRANO-L.ALONSO SCHÖKEL, Dizionario

terminologico della Scienza Biblica, Roma 1981, 43).

Non bisogna tuttavia fermarsi qui, per non correre il rischio di concludere il discorso

con quella vera e propria eresia propugnata da una certo pensiero ecclesiastico

tradizionalista che parla della «teologia della sostituzione»: poiché Gesù

«compie» la Toràh, l’AT testamento cessa di avere valore e la comunità cristiana

nascente sostituisce la comunità del popolo d’Israele. Da ciò se ne deduce che la

vita morale del credente deve avere come proprio orizzonte non una parte della

Parola di Dio, ma la sua totalità nella sua unitarietà, anche in quegli aspetti che

possono sembrare minuzie e che invece esprimono l’interezza dell’insegnamento

(cf. Mt 5,19). Questo stile di accostarsi alla Parola diventa anche responsabilità nei

confronti degli altri, qui espresso nel binomio «osservare/insegnare» che pone

decisamente in relazione l’insegnamento con la testimonianza della vita (cf. Mt

25,21.23; Lc 16,10-11). Il comportamento e le scelte della vita manifestano la visibilità

della gloria di Dio che così si condiziona nella testimonianza di chi dice di

credere. È il dramma e insieme la gioia della vita del credente che non ha una vocazione

generica alla santità intimistica, ma una vera chiamata alla profezia delle

vita perché essa è il luogo della credibilità di Dio, dove questi diventa visibile e

sperimentabile davanti al mondo (cf. 1Gv 1,1-4; 4,12-21).

Un lettore superfciale potrebbe rimanere confuso di fronte a questo elogio di

Gesù dell’osservanza della Legge in quanto evento dell’AT, anche perché Paolo ci

ha impressionato con la sua diatriba corposa e forte che mette in discussione il

valore stesso della Legge mosaica fno al punto di dire che essa è «motivo di

morte» (cf. Rm 7,7-13; cf. anche Ger 9,23-24). In Gal 3,23-24 Paolo descrive la funzione

pedagogica della Toràh che avrebbe dovuto condurre a Cristo, ma essa non

poté svolgere il proprio compito perché si smarrì in un mare di prescrizioni, tanto

che gli stessi farisei pensavano che il popolino non potesse salvarsi perché per

i semplici era impossibile osservare tutti i 613 precetti. La Legge, ogni legge, deve

educare e guidare, non impedire e rallentare. Questo pericolo è scongiurato dalla

lettura che Mt fa del «compimento» dell’AT sia come pienezza in sviluppo, sia

come profezia in sé. La differenza tra il “fariseo” e il discepolo sta nel fatto che il

primo vive la giustizia come adempimento materiale della Legge, mentre per il secondo

compiere la giustizia signifca entrare in comunione di vita con Dio in un

rapporto affettivo e vitale. Il primo è tentato di «divinizzare» la Legge che diventa

così un idolo5; il secondo non si occupa, né si preoccupa di «compiere la Legge»

5 I rabbini, per difendere il giudaismo dai cristiani e dai non-Ebrei, avevano imposto di

«fare una siepe intorno alla Toràh» (Pirqè ‘abot I,1) per impedire anche ai cristiani di accedervi.

La siepe divenne così spessa che impedì di giungere al cuore stesso della Toràh che

si perse in un mare di precetti e prescrizioni che la tradizione codifcò in 613 precetti

(ebr.: mitzwòt) che il pio Ebreo deve osservare sempre. I farisei, che costituivano la classe

dirigente più «popolare» perché vicini alla gente, ritenevano che il popolo non potesse

salvarsi perché era incapace di osservare tutti i 613 precetti. I precetti sono divisi in due

categorie: 365 sono negativi (uno per ogni giorno dell’anno) e 248 positivi (uno per ogni

parte del corpo che si compone di 248 pezzi); le donne, che di norma non partecipano

o i riti o le prescrizioni, perché la sua ragione di vita sta tutta nella persona del

Signore che diventa la sorgente e il fondamento del suo essere e del suo agire. Il

credente vive la storia con passione e tranquillità perché sa che in Gesù i tempi

sono compiuti e ha inizio una nuova dimensione che ha come modello

l’obbedienza del Figlio al Padre (cf. Fil 2,8; Eb 5,8-9); per questo è determinante

capire quanto sia importante che Mt abbia messo quest'introduzione alle antitesi,

perché essa è la chiave che determina il senso giusto dell’immutabilità della Toràh.

Tra il cristiano e la Legge (qualsiasi legge) da questo momento c’è la mediazione

della giustizia di Cristo che si realizza nell’obbedienza sua al Padre, cioè in una

relazione d’amore e non in una sudditanza di potere padronale. Non si osserva la

Legge per diventare giusti, ma si vive la Legge perché si è giusti in quanto redenti,

amati. Dopo avere affermato il suo pieno inserimento nel solco della tradizione

biblica ebraica, Gesù inizia la serie delle antitesi: «Avete inteso che fu detto… ma

io vi dico...» con cui Gesù annuncia la sua rivoluzione in contrapposizione con la

«Legge6 orale» che secoli dopo verrà codifcata nella Mishnà e poi nel Talmùd.

I. La prima delle antitesi si riferisce al 5° comandamento, che al tempo di Gesù

aveva una interpretazione complessa, con una miriade di condizioni tutte esterne

perché si potesse stabilire l’omicidio. Per esempio, la Legge orale, successivamente

codifcata nel Talmud (Sanhedrìn, 57a), stabilisce che si ha omicidio quando un

ebreo uccide un altro ebreo e per questo deve essere messo a morte; se un

ebreo uccide un non ebreo il fatto non costituisce omicidio. La Legge scritta prescrive

in modo indiscusso: «Tu non uccidere» (Es 20,13; Dt 5,17), eppure essa è

svuotata di signifcato perché viene fatta dipendere solo dalle circostanze esteriori.

Se si comprende questo contesto «da casistica», si capisce quale forza dirompente

abbia avuto l’affermazione di Gesù che riporta tutto all’intenzione del cuore

e quindi all’atteggiamento interiore, cioè ad una decisione morale che coinvolge

la coscienza e la volontà. Anche se esternamente uno si ferma solo all’ingiuria,

l’intenzione che la provoca può essere valutata più duramente di un «omicidio

materiale». Per capire ulteriormente il senso delle affermazioni di Gesù nel contesto

della cultura religiosa del suo tempo è necessario capire il signifcato che

bisogna dare ad espressione come «dovrà essere sottoposto a giudizio» oppure

«dovrà essere sottoposto a al sinedrio» (cf. Mt 5,22). La sentenza alternativa di

Gesù nella prima antìtesi (Mt 5,21-26) si compone di due parti:

1. (Mt 5,21-22) la prima parte comprende il discorso sul giudizio e sul tribunale

che a sua volta si distingue in due riflessioni complementari:

a. la prima rifessione (Mt 5,21-22a) riguarda l’omicidio e l’ingiuria sottoposti al

«giudizio», che è l’equivalente di «tribunale». Con questo termine si intende il

consiglio uffciale della comunità che si trova sia a livello locale, dove si chiama

«tribunale», sia a livello nazionale, dove assume il nome di «sinedrio». I due

allo Shabàt in sinagoga, sono dispensate dall’osservare i precetti positivi.

6 In ebraico, Toràh signifca «Insegnamento»; nella versione della Bibbia dei LXX si usa Nòmos,

«Legge», da cui viene anche la nostra traduzione.

luoghi di giudizio, tribunale e sinedrio, hanno la competenza giuridica di «scomunicare

», cioè espellere dalla comunità, i membri colpevoli. La scomunica è

una forma di sentenza di morte perché estromette dalla vita di relazione dentro

la comunità e lo scomunicato non può avere rapporti con alcuno: è di fatto

un morto vivente (cf. Mt 10,17; Gv 16,2; 1Cor 6,4-5; cf. anche Gv 9,34). Poiché

la prima comunità cristiana proviene dall’ebraismo, è naturale supporre con

ragionevole certezza che abbia continuato gli stessi usi e costumi anche al suo

interno (cf. Mt 18,15-17; At 5; 1Cor 5,1-5; 1Tm 2);

b. la seconda rifessione (Mt 5,22bc) esprime lo stesso concetto con altre parole

come «fuoco delle Geènna»7 che ha non una recrudescenza di pena, ma piuttosto

un signifcato equivalente a «sinedrio». Nell’una e nell’altra parte si tratta

comunque del comportamento della comunità che reagisce di fronte ai colpevoli

al suo interno. La giurisdizione giudaica giudica il comportamento esterno,

a differenza di quella cristiana che, imitando Dio, valuta l’intenzione del

cuore, come avviene anche per l’adulterio (cf. Mt 5,28). Questa nuova giurisprudenza

che si applica nella comunità nata dall’annuncio del Vangelo si basa

su due principi che, ancora una volta, realizzano la «profezia» dell’AT: il primo

poggia sulla persona stessa di Dio, il solo che può dire: «Io, il Signore, scruto la

mente e saggio il cuore» (Ger 19,10; cf. anche Ger 11,20; 12,3); il secondo principio

si basa sul diritto di esigere di più da coloro che sono stati chiamati nella

alleanza nuova perché questa non è un invito a mutare comportamento, ma

un autentico innesto di cuore (cf. Ez 36,23-30; Ger 31,31-34).

2. (Mt 5, 23-24) la seconda parte riguarda l’offerta cultuale e il suo risvolto comunitario

con una esemplifcazione giudiziaria (cf. 5,25-26). Nei pressi del tempio

di Gerusalemme e delle sinagoghe successive vi erano molte fontane di acqua

corrente: se uno prima di entrare a fare l’offerta si ricorda all’improvviso di

essere impuro (cf. Lv 15-17), deve sottoporsi ad un complicato sistema di abluzioni

per purifcarsi. Se ciò vale per un atto di culto, a maggior ragione deve valere

per la purifcazione del cuore; Gesù eleva il rito della purifcazione dal livello

esteriore a quello spirituale e pone al centro del culto la qualità della relazione

con gli altri membri della comunità di appartenenza. Se nella prima parte si

trattava di omicidio, qui si tratta propriamente di «purità rituale», ma l’uno e

l’altro aspetto procedono di pari passo perché hanno in comune l’obiettivo di

una giustizia nuova che esclude qualsiasi formalismo ed esteriorità e fonda tutto

sulla interiorità. Anche qui ciò che conta non è l’atto in sé che può essere compiuto

meccanicamente, ma l’intenzione, cioè la motivazione interiore e quindi la

scelta morale.

7 La Geènna (in ebr.: Ben-Innòm) è la valle sud-ovest di Gerusalemme (cf. Gs 15,8; 18,16;

2Re 23,10; 2Cr 33,6; Ne 11,30; Ger 7,31; Zc 14,5). Questa era stata consacrata al dio Moloch,

cui venivano sacrifcati i bambini (2Re 23,10; Ger 32,35) e per questo era considerata

maledetta e divenne sinonimo di punizione e di inferno. Al tempo di Gesù era il luogo

dove si bruciavano le immondizie, per questo fuoco e fumo erano continui.

II. La seconda antitesi tratta dell’adulterio collegato con il divorzio, oggetto della

terza antitesi, che trattiamo brevemente insieme. Quanto all’adulterio, Gesù fa lo

stesso ragionamento che ha fatto per l’omicidio e per l’offerta cultuale, subordinata

alla riconciliazione: la chiave per valutare i comportamenti è sempre l’intenzione.

«Guardare una donna per desiderarla» (Mt 5,28) non signifca fare qualche

apprezzamento estetico di fronte alla bellezza femminile; l’autore infatti usa il verbo

blèpo, che signifca «guardo con attenzone, scruto, considero» e indica qui lo

sguardo possessivo, ovvero il pensiero macchinoso per creare la condizione dell’adulterio;

anche se poi la macchinazione fallisse e non si realizzasse alcun adulterio,

nulla importa perché il male è già avvenuto8. L’adulterio è talmente abominevole

nei confronti di Dio che ogni pio ebreo deve preferire la morte piuttosto

che commettere un simile delitto. Un modello di esempio è il patriarca Giuseppe,

tentato dalla moglie di Putifarre9. Esso deve essere punito con la lapidazione (cf.

Lv 20,10; Dt 22,20-22; Ez 16,38-40), anche se i rabbini ritengono che la morte per

strangolamento sia più umana. Perché questa durezza verso l’adulterio? Nei confronti

degli adulteri si applica la legge del taglione (cf. Es 21,23-25), probabilmente

perché si considera che l’uomo e la donna, nel momento in cui si uniscono, cessano

di essere individui singoli e acquisiscono un'identità specifca che li fa «immagine

di Dio» (cf. Gen 1,27) perché diventano «un solo corpo», cioè una persona

nuova. L’adulterio spezza l’unità della nuova persona e quindi, uccidendola, la divide

in due nel tentativo di sostituirne una metà con un’altra, che non può riportare

in vita la «carne sola» che è stata smembrata. In sostanza, da un punto di vista

della fede ebraica, l’adulterio è l’omicidio della «persona coniugale», espressione

unica della persona stessa di Dio.

III. Riguardo al divorzio, la legislazione di Mosè lo permette (Dt 24,1-4). Il testo

esprime un’epoca patriarcale, cioè dominata dal «maschio», in cui la colpa è sempre

della donna; il diritto di divorziare spetta solo al marito che lo formalizza con

un documento scritto consegnato alla donna (Talmud B. Gittìm, 20a). Sulla giurisprudenza

di stabilire cosa sia «qualcosa di vergognoso», al tempo di Gesù si sbizzarriscono

le scuole rabbiniche tra cui si distinguono, in modo particolare, quella

di rav Hillel e quella di rav Shammài: per quest’ultimo il divorzio deve motivato da

un fatto rilevante, come l’infedeltà; per il primo, invece, un uomo può ripudiare la

moglie anche se brucia la minestra. Rav Aqivà a sua volta ammette la possibilità

del ripudio della moglie se il marito ne ha trovato un’altra più bella e piacente

8 Lo stesso pensiero di chiunque guardi una donna con desiderio si trova nel Midràsh Levitico

Rabbàh 32,12; lo stesso vale per la donna che pensa ad un altro uomo mentre ha rapporti

con il marito; all’uno e all’altra viene riservata un castigo eterno dopo la morte (cf.

Talmud B. Baba Metzia, 58b).

9 Il patriarca Giuseppe aggiunge una motivazione teologica: per lui l’adulterio è un’offesa a

Dio e di conseguenza è offesa al marito della donna (Gen 39,9). Uomo e donna, infatti,

sono entrambi l’unica «immagine di Dio» (cf. Gen 1,27) e smembrare questa signifca deformare

la natura stessa di Dio.

(Mishnàh Gittìm, 9,10). In due soli casi l’uomo non può ripudiare: se ha accusato la

moglie di non essere vergine al momento del matrimonio e l’accusa è risultata

falsa (cf. Dt 22,13-19) e se un uomo ha violentato una donna e in seguito sposata

(cf. Dt 22,28-29). In qualsiasi modo, un uomo non può risposare una donna da cui

ha precedentemente divorziato. La Legge proibisce inoltre ad un sacerdote (ebr.:

kohèn) di sposare una donna divorziata (cf. Lv 21,7.14). La letteratura profetica è,

però, contro il divorzio (cf. Ml 2,14-16); da parte sua, il Sapiente esorta

insistentemente alla fedeltà coniugale (cf. Pr 5,15-19). Il Talmud stesso, che pure

riporta le discussioni rabbiniche, dichiara apertamente che «l’altare versa lacrime

per l’uomo che ripudia la sua prima moglie» (Talmud B., Sanhedrìn, 22a). All’interno

di questa prassi e cultura si colloca l’insegnamento di Gesù, il cui pensiero si

inserisce senza ombra di dubbio sulla linea profetica e sapienziale: il divorzio non

può sciogliere l’unione compiuta da Dio tra un uomo e una donna, i quali anche

se si separano non riacquistano la libertà come non è libera la persona che

sposasse uno dei due separati (cf. Mt 19,1; Mc 10,10-12; Lc 16,18; 1Cor 7,10-11).

La posizione di Gesù è totalmente nuova e dirompente, perché i profeti e i

sapienti auspicano che non vi fosse divorzio, ma non possono evitarlo per la

fragilità umana; mentre Gesù afferma con forza e incidenza che la relazione

uomo-donna si può collocare solo sul piano di Dio che ha un solo disegno su di

essa. L’unione uomo-donna è fragile come «un tesoro in vasi di creta» (cf. 2Cor

4,7) che non può fondarsi solo sulle forze umane, ma ha bisogno di un

supplemento di forza che solo Dio può dare. Il rapporto uomo-donna, cioè, nel

momento in cui si compie, acquista una dimensione soprannaturale perché

assume le stesse caratteristiche dell’alleanza tra Dio e Israele: un’alleanza, un

patto eterni, che nessuno potrà mai spezzare.

L’insegnamento di Gesù è talmente nuovo e scioccante per la mentalità giudaica

del suo tempo che egli stesso si preoccupa non di parlare astrattamente, ma assume

come parametro del suo pensiero situazioni concrete e verifcabili: il caso

di una donna ripudiata e di un uomo che vuole sposarla. Mt 5,32 si distacca dagli

altri sinottici perché solo Mt parla di responsabilità del marito che ripudia la moglie,

esponendola così all’adulterio, nel senso che abbiamo descritto più sopra. Ad

ogni modo, il signifcato è lo stesso: nessun atto di ripudio può annullare l’unione

coniugale. Il testo di Mt, però, pone alcuni problemi perché lui solo, tra gli altri sinottici

e Paolo (cf. anche Mt 19,9) riporta l’inciso «eccetto il caso di unione illegittima

» (gr.: pornèia, fornicazione). Probabilmente, Mt si riferisce a Dt 24,1-4. Il ragionamento

non è immediato e non è semplice, ma possiamo tentare di capirlo:

l’atto di ripudio non è fondato sul diritto perché Dio ha creato la coppia indissolubile,

però la storia insegna che il ripudio avviene e quindi per Mt si colloca sul

piano della prassi, dove si incontrano almeno due eventi che mettono fne ad una

unione indissolubile. Il primo fatto è la morte che scioglie da qualsiasi vincolo; il

secondo fatto è l’adulterio che si può considerare, come abbiamo visto, una morte

spirituale, non meno reale per la coppia che la prima. L’adulterio comporta una

tale macchia che la stessa Legge proibisce di riprendere l'unione, anche dopo il

pentimento, perché la coppia non può esprimere più l’unione sponsale tra Dio e

Israele (cf. Os 2,4; Sir 23,24-27). Da tutto ciò deriva che anche Mosè non ammette

il divorzio sul piano del diritto, ma lo concede su quello della prassi, facendosi

carico della fragilità umana e non abbandonando alcuno a se stesso, nemmeno se

abbia commesso il delitto più atroce. Gesù non contesta la norma di Mosè che

anche per lui resta una legge che riconosce necessaria, perché viene in aiuto alla

durezza del cuore umano, il quale per esprimersi spesso sceglie le situazioni

ambigue, addirittura torbide, spesso condizionato dall’ambiente e dal suo vissuto.

Oggi la psicologia ci aiutano a capire che spesso noi scegliamo o ci comportiamo

in un modo che non vorremmo, ma siamo condizionati dal nostro inconscio.

L’uomo e la donna si separano: è un fatto. Gesù dice: ne prendiamo atto, ma ciò

non intacca minimamente il disegno di Dio, che resta l’indissolubilità. Ai farisei che

si appellano all’autorità di Mosè, Gesù risponde dicendo che Mosè non può

essere superiore a Dio e nemmeno lui può annullare la volontà divina. La realtà,

però, non sempre coincide con il progetto di Dio, perché l’uomo è fnito e il suo

cammino è spesso tortuoso e non lineare: egli ha davanti il progetto di Dio, che

resta una mèta a cui aspira, ma non riesce a realizzarla per la debolezza, per la

fragilità, per le circostanze non sempre imputabili a scelte etiche, come si esprime

con angoscia Paolo (Rm 7,15-23). Sulla bocca di Gesù quindi si tratta di un uomo

che vive una situazione drammatica: subisce la separazione e non vuole

commettere adulterio, ma deve ubbidire alla Legge che gli impone di ripudiare la

moglie; se si risposa, Gesù non lo condanna moralmente, ma non dice che il

nuovo matrimonio abbia validità giuridica: è un fatto che si accetta, senza

condannare chi lo vive.

Cosa si ricava da tutto ciò nel nostro mondo, dove il divorzio è ormai così abituale

ed è entrato nella prassi comune da non essere più un problema se non per

le guerre che comporta la spinosa questione degli alimenti e dei/lle fgli/e? Il divorzio

è una «necessità» del mondo moderno dove le relazioni spesso si subiscono

e non si vivono. Oggi molti non si sposano per amore, ma per paura della solitudine:

più che matrimoni si hanno cooperative o... società per azioni. I condizionamenti

psicologici, sociali ed economici sono tali e tanti in una società complessa

e superfciale che due persone che decidono di stare insieme lo fanno più per

paura del futuro che per un ideale di vita e diventano inevitabilmente fragili e incompiuti.

A ciò si aggiunga il condizionamento dell’ambiente circostante dove

«così fan tutti» e il gioco è fatto. Dall’altra parte la Chiesa è arroccata sui modelli

familiari preindustriali o borghesi e non riesce a dire una parola di sostegno alle

coppie felici e a quelle in diffcoltà: è più facile predicare divieti e condanne che

cercare vie e strumenti nuovi per tempi nuovi con problemi nuovi. Forse la Chiesa,

gestita da uomini che non sanno cosa sia il matrimonio come impegno e responsabilità,

dovrebbe imparare da Gesù che, mentre afferma il progetto di Dio

sul matrimonio, si fa carico anche delle situazioni paradossali del singolo caso e

senza condannarlo lo spinge a cercare lo stesso Dio per potere aiutare le

persone coinvolte a ritrovare se stesse e la profondità della propria interiorità.

IV. La quarta antitesi tratta del giuramento che in se stesso è la prova solenne e

uffciale della menzogna. Se infatti non esistesse la menzogna, non vi sarebbe affatto

bisogno di giurare il vero perché il «sì» sarebbe sempre «sì» e il «no, no» (Mt

5,37). La Toràh ha sempre lottato contro la menzogna fno al punto di arrivare a

legiferare sul giuramento come strumento per fare emergere la verità e bandire

la menzogna (cf. Mt 5,33 con Es 20,7; Nm 20,3). Se però la verità è tutelata dal giuramento

nei tribunali, fuori di questo contesto, nella vita ordinaria, la menzogna

domina perché è senza argine e la verità resta scoperta e senza difesa. Gesù eli -

mina la menzogna in ogni circostanza e non concede eccezioni, per cui crolla il sistema

giudaico del giuramento come garante di verità e testimone di menzogna e

afferma la verità sempre comunque e in ogni circostanza. Nella prospettiva di

Gesù il giuramento è superfluo, anzi inutile perché tutto è trasparente. Ecco perché

ascoltiamo e condividiamo la Parola di Dio: per imparare la conoscenza del

progetto del Regno e il suo linguaggio, che non è solo la verità come metodo di

relazione, ma la persona stessa di Gesù, il solo che ha potuto dire: «Io-Sono la Via,

la Verità e la Vita» (cf. Gv 14,6).

- pro manuscripto -

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