sabato 28 maggio 2011

Approfondiamo la Parola: Lectio del prete carnime Miccoli su Giovanni 14, 15-21

Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)


LECTIO DIVINA

“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» (cf. Gv 14,21)

Canto (facoltativo), a scelta della comunità.

Dopo un’opportuna introduzione, si può invocare lo Spirito Santo con il canone Veni Sancte Spiritus o

Vieni, Spirito Creatore (Taizè), o altra preghiera simile, come la seguente.

P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare

la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’

tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella

tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,

contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e

a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnova -

mento dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto

nei secoli dei secoli. A.: Amen.

Canto (facoltativo): Alleluia (Taizè).

L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Giovanni (Gv 14,15-

21; trad. CEI 2008).

15 «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16 e io pregherò il Padre ed egli vi

darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, 17lo Spirito della verità,

che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete,

perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. 18 Non vi lascerò orfani: verrò da

voi. 19 Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io

vivo e voi vivrete. 20 In quel giorno voi saprete che Io-Sono nel Padre mio e voi in me e

io in voi. 21 Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama.

Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

Segue la meditazione della Parola proposta dalla guida della celebrazione; dopo un momento personale di

silenzio per la lectio, si prosegue con la condivisione comune sulla Parola ascoltata. Al termine, ognuno

dei presenti può proporre un’intenzione di preghiera; ad ognuna, l’assemblea canta o risponde con un’acclamazione.

Si conclude con la preghiera del Padre nostro… [e la benedizione finale].

Note di esegesi per la comprensione del testo

Il brano del vangelo odierno è un estratto del primo discorso che Giovanni colloca

dopo l’ultima cena e riporta quasi tutti i temi a lui cari: il Paràclito (v. 10), la Parola

custodita (v. 15), il senso della preghiera del Figlio (v. 16), la conoscenza di

Dio (vv. 17.19; cf. 16,16-22), la dimora (v. 17; cf. 14,23-24), i criteri per vedere la

presenza di Dio (v. 19), la comunione del Figlio col Padre e della Chiesa col Figlio

(v. 20). Tutti questi temi sono unifcati attorno al tema centrale dell’amore che assume

la portata di «comandamento». Nell’alleanza del Sinai, YHWH con le «10

parole(=comandamenti)» diede coscienza di popolo a Israele; per essi la Toràh fu

il fondamento della loro dignità e della loro missione. Nell’Alleanza di Gesù le

«10 parole» del Primo Testamento si accorciano in un solo comandamento, l’amore,

contenuto e fne di tutta la storia della salvezza (cf. Mt 22,40).

Al tempo di Gesù vi era un giudaismo pluralista con molte scuole e diverse interpretazioni;

ogni rabbì poteva aprire una scuola e proporre una propria lettura della

Toràh. Le maggiori scuole erano rappresentate nel Sinedrio, composto da settanta

membri (farisei, sadducei, sacerdoti, scribi, anziani). Gesù s’inserisce in questo

contesto di pluralismo religioso e si presenta come un rabbino che fa una sua

proposta di vita religiosa all’interno del sistema ebraico. Ad ogni passo troviamo

nei vangeli visite di farisei, sacerdoti, scribi e anziani che vanno da Gesù o inviano

propri messaggeri per informarsi di quale tradizione è portatore. Gesù porta una

interpretazione che non si basa sulla tradizione conosciuta, ma propone una rilettura

della tradizione, scritta e orale, dirompente. La sua interpretazione va così

profondamente al di là dell’immaginabile da rivelare di fatto un nuovo e radicale

rapporto con Dio, basato sulle relazioni umane e non sui sistemi cultuali e teologici

precostituiti. All’interno di questa realtà possiamo capire il suo discorso, in

parte esposto nel vangelo di oggi.

Osservare la Toràh è l’obiettivo di ogni israelita. Osservare ha il senso di custodire

con scrupolo e timore. Gli Ebrei per essere fedeli alla Toràh devono osservare

ben 613 precetti; ogni fedele è circondato, custodito, protetto e avvolto in ogni

istante della sua vita dai comandamenti di Dio. Se è vero che l'israelita deve «osservare/

custodire» i comandamenti, è anche vero che è la Toràh che custodisce e

protegge Israele: infatti «613 comandamenti furono dati a Mosè: 365 comandamenti

negativi, come il numero dei giorni dell’anno solare, e 248 comandamenti

positivi, corrispondenti alle parti del corpo umano» (Talmud B., Makkot 23b)1. Al

tempo di Gesù i Farisei, che pure erano dalla parte del popolo, ritenevano che la

gente comune non potesse salvarsi perché incapace di osservare tutti i comandamenti.

Il Talmud (Rosh Hashanà 28a) afferma che «i comandamenti [ebr.: mizvòt]

1 Sia il tempo (365 giorni, cioè un anno), sia la persona (le 248 parti che compongono il

corpo) sono soggetti alla Toràh, cioè alla supremazia di Dio: per questo gli Ebrei, quando

pregano, muovono tutto il corpo, poiché tutta la persona deve partecipare alla lode.

non sono stati dati per provare piacere... ma come un giogo sui loro colli»2. Rabbi

Nehemia bar Ha-Qana, della prima generazione dei Tannaim3, insegna che «a colui

che accetta il giogo della Toràh, il giogo del Regno, sarà risparmiato il giogo delle

preoccupazioni mondane»4. A questa tradizione si ispira Gesù quando presenta il

«giogo» del suo insegnamento: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me,

e troverete ristoro [cf. Ger 6,16; Sir 51,27] per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce

e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30).

Gesù esplicita l’obiettivo di ogni ebreo: osservare la Toràh, cioè i suoi comandamenti,

signifca semplicemente amare e per questo tutti i comandamenti si riducono

ad uno solo: amare Dio e il prossimo. Gesù non si limita a semplifcare la

burocrazia della fede, ma si ricollega alla tradizione del Deuteronomio che è diventata

l’anima della spiritualità e della preghiera d’Israele: «Ascolta, Israele! Amerai

il Signore tuo Dio» (cf. Dt 6,4), e riporta tutta la Toràh al suo cuore primitivo

che è il comandamento dell’amore. Anche la tradizione giudaica che Gesù conosce

insegna ad amare Dio con animo libero e senza secondi fni5; l’amore gratuito

spinge ad osservare i 248 comandamenti positivi, mentre il timore di Dio a non

trasgredire i 365 comandamenti negativi. Nella tradizione cristiana, Agostino potrà

dire: «Ama e fai quello che vuoi»6, perché amare è porre l’altro come criterio

ed obiettivo della vita, è fare dell’altro la ragione stessa della vita propria, per cui

tutto ciò che uno vive, spera, programma, progetta, è vissuto, sperato, programmato

e progettato per l’altro e in funzione sua. Nell’amore non esiste criterio di

autorealizzazione, perché chi ama può amare solo a perdere: tutto il resto è interesse

mercenario e scambio di favori. Chi ama dà la vita e la offre per sempre,

nulla pretende per sé perché l’amore o è gratuito e generante o non è amore. Se

2 Il Midrash (Sifrà, Sheminì XII, 4) aggiunge: «Poichè Io Sono il Signore che vi fa salire dalla terra

d’Egitto. Per questo vi ho fatto salire dall’Egitto a condizione che accettiate il giogo dei comandamenti.

Poiché chiunque riconosce il giogo dei comandamenti, riconosce l’uscita dall’Egitto e chiunque

rinnega il giogo dei comandamenti rinnega l’uscita dall’ Egitto».

3 I Tannaiti (Insegnanti), suddivisi in cinque generazioni, sono i maestri della tradizione giudaica

dei primi due secoli d.C., il cui insegnamento è contenuto nella Mishnàh; il loro insegnamento

è normativo. Ad essi succedono gli Amoraim (Interpreti) che sono i maestri palestinesi

e babilonesi dei sec. III-V d.C. e il cui insegnamento è conservato nel Talmud. Ad

essi succedono i Saboraim (Opinanti) che sono i maestri della tradizione babilonese dei

sec. VI-VII e i Geonim che sono i maestri dal 632 (morte di Maometto) al sec. XI. Conclusa

questa fase, inizierà poi la tradizione dei Maestri del Medio Evo.

4 Cf. G. STEMBERGER, Introduzione al Talmud e al Midrash, 98; cf. E. E. URBACH, Les Sages

d’Israël, 329-436.

5 «Antigone di Sokò ricevette la tradizione di Simeone il Giusto. Egli soleva dire: “Non sia -

te come quei servi che prestano servizio al loro padrone con l’intenzione di riceverne ri -

compensa, ma siate come quei servi che prestano servizio al loro padrone, senza l’intenzione

di riceverne alcuna ricompensa; e sia su di voi il timore di Dio» (Mishnàh, Pirqè Avot

I,3).

6 AGOSTINO, In Ioannis Epistolam ad Parthos tractatus decem 7, 8.

questo è l’orizzonte, allora ha ragione Agostino: uno può fare quello che vuole

perché quello che vuole è amare l’altro per se stesso, senza pretendere in cambio

nulla perché viva in pienezza e armonia. Ciascuno di noi, dentro il pozzo

profondo della propria anima, sa che le cose stanno così, anche se facciamo

esperienze di fallimenti, perché questi sono il risultato di un limite: non ci

educhiamo abbastanza ad amare senza calcoli. Fin da piccoli ci educhiamo ed

educhiamo a forme mercenarie che comportano una ricompensa: ad esempio,

ricattiamo i fgli con un premio, se studiano e prendono un buon voto a scuola,

perché facciano semplicemente il loro dovere; oppure, come accade a gran parte

delle persone, ci si sposa per paura di stare da soli, partendo già dal presupposto

che può non funzionare e quindi ci si mette già pronti sul trampolino di lancio

dell’abbandono, fno a quella farsa dei contratti prematrimoniali con tutte le

clausole e le casistiche del fallimento annunciato. Chi ama, conosce il Figlio e il

Padre, trova la dimora, conosce il senso della preghiera del Figlio e ne sperimenta

il risultato, cioè il dono del Consolatore. Il termine Paràclito è una di quelle parole

bibliche che bisogna conoscere per sorseggiare alcune profondità della fede e

della vita cristiana; nel vangelo di oggi ricorre due volte (vv. 16.26). Il termine

deriva dal greco paràklētos e sia nella tradizione biblica che giudaica, compresi

Giuseppe Flavio e Filone, ha sempre il signifcato di intercessore e consigliere. Quasi

inesistente nella Bibbia greca della LXX, se si escludono due testi tardivi (Gb

16,2; Zc 1,13), in tutto il NT ricorre solo cinque volte e soltanto in Gv, di cui

quattro nei discorsi di addio (14,16.26; 15,26; 16,7; 1Gv 2,1), mentre negli altri

scritti si ha per 29 volte il sostantivo paràklēsis, “consolazione”, specialmente in

Paolo e Atti. Il termine è assente in Mt e Mc.

Giovanni, che lo usa in maniera esclusiva tra gli evangelisti, dà ad esso

un'importanza particolare che dobbiamo tentare di capire. Il verbo base è il verbo

composto dalla preposizione parà- che indica vicinanza, prospettiva e dal verbo

kaléō e signifca «chiamo, invito, nomino in favore di...», da cui anche «prego, esorto,

consolo». Il termine greco in italiano diventa «paràclito» assumendo anche il signifcato

conseguente di «avvocato». Ha un valore giudiziario forense7. Etimologica-

7 Nel greco classico è usato, anche se raramente, come «avvocato» in contesto giudiziale.

Il signifcato originario è passivo: «uno chiamato per stare accanto/ad assistere qualcuno».

Nel sistema giudiziario semitico, il «consolatore» è una fgura giuridica e richiama quella

dell’AT del go’el, «riscattatore, redentore» (Is 41,14; 43,14; 44,6.24; Ger 50,34; Sal

78[77],35): quando uno veniva deferito in giudizio davanti agli anziani radunati alla porta

della città, se uno dei giudici, stimati e autorevole, si fosse alzato e andasse a collocarsi

«accanto» all’imputato, senza nemmeno proferire una sola parola, quell’uomo era salvo

sulla garanzia di colui che rivendicava la sua innocenza sul suo onore e la sua credibilità. La

fgura del paràclito è dunque una fgura stimata per la sua dirittura e autorevolezza che

tutti gli riconoscono, un uomo il cui giudizio è inappellabile e in questo senso ha una valenza

particolare. In questo contesto il «consolatore» è anche «avvocato» perché prende

le difese di qualcuno e testimonia in suo favore. Nel senso di «avvocato, intercessore» è

usato anche dalla letteratura rabbinica (cf. J. MATEOS – J. BARRETO, Il vangelo di Giovanni,

mente infatti, para-kalèō, vuol dire parlare dalla parte di... o anche contro qualcuno.

In altre parole, Paràclito è sinonimo di avvocato, difensore, colui cioè che s’impegna

per dimostrare l’innocenza di qualcuno. In questo senso porta consolatozione,

perché ti garantisce della tua identità di innocente. In 1Gv 2,1 «paràclito» è un attributo

di Gesù, qualifcato come giusto.

Da un punto di vista linguistico è interessante fare notare che il termine ekklesìa,

Chiesa, ha origine dallo stesso verbo kalèō preceduto dalla preposizione ek-, che

indica origine o provenienza, per cui Chiesa vuol dire: [assemblea] chiamata, convocata

da [Dio]. Il Paràclito e l'Ekklesìa provengono dalla stessa radice semantica, per

cui il loro rapporto è intimamente connesso perché ne defnisce anche le rispettive

funzioni. Viene lecito domandarsi: perché Gesù invia il Paràclito? Che cosa

deve dimostrare? Perché la Chiesa è connessa con lo Spirito, anche a livello di signifcato?

Per rispondere a queste domande bisogna fare un passo indietro.

Gesù è stato condannato a morte in base a due false testimonianze (Mt 26,61-54;

Mc 14,57-58) e secondo il diritto di ogni epoca e nazione il suo processo e la sua

condanna sono illeciti e invalidi. Bisogna rifare il processo a Gesù per dimostrarne

l’innocenza, e questo è il compito del Paràclito: «Quando sarà venuto [il Paràclito],

proverà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio»

(cf. Gv 16,8ss.). Nel tempo della Chiesa, però, sul banco degli imputati non sale

l’uomo di Nazaret che è nella casa del Padre, ma il suo corpo, il suo prolungamento

nel tempo e nella storia, che è la Chiesa (1Cor 12,27; Ef 5,23; 14,12; Col

1,18.24), come aveva detto lo stesso Gesù (cf. Mc 13,9-11). Prima di essere un’organizzazione,

la Chiesa è un’azione di risposta ad un appello, è l’adesione ad una

vocazione che convoca e raduna attorno alla Parola per trasformarla in pane di

consolazione. La Chiesa è l’azione dello Spirito inviata nei tribunali del mondo a

dimostrare che Gesù è la consolazione di Dio perché egli è venuto a rivelarne il

volto, affnché ogni uomo e donna fossero trovati e riconosciuti innocenti, giustifcati,

peccatori fnalmente redenti. Come convincere il mondo? La risposta è una

sola: con il comandamento dell’amore che assume nel proprio grembo l’altro senza

volerlo cambiare, ma accettandolo senza condizioni. Evangelizzazione, politica,

economia, diritto, relazioni, tutto trova esito e risposta adeguati nell’amore che,

se è consolazione dello Spirito di Gesù, diventa generante e sa anche smuovere le

montagne. Senza paure. Senza delusioni. Compito quindi della Chiesa nel mondo

non è cercare solidarietà con il potere, ma pretendere che venga rifatto sulla propria

pelle il processo di Gesù, mostrando il suo essere innocente e garante di innocenza.

Il mondo deve sapere che Gesù è pieno di amore e che ha donato la sua

vita a tutti gli esseri umani di tutti i tempi (cf. Gv 6,39; 12,47). In Dio amare e salvare

sono la stessa cosa.

- pro manuscripto -

597).

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