venerdì 13 novembre 2009

Le lectio del prete Carmine Miccoli

Marco 13, 24-32


Note di esegesi per la comprensione del testo
Per capire il senso di questo brano del vangelo che appartiene al genere apocalittico,
bisogna rifarsi al contesto storico in cui le idee e i testi sono nati e si sono
sviluppati; senza questa ricostruzione dell'ambiente storico e culturale, questi testi
alimentano il fondamentalismo religioso e la paura irragionevole, che è il contrario
della fede. Ogni documento orale o scritto, infatti, nasce come opera per i
contemporanei e solo dopo diventa testimonianza del passato per le generazioni
future, con un insegnamento che supera la dimensione dell’attualità per situarsi in
una prospettiva più ampia.
Nella primavera del 40, a Jamnìa1, i Giudei avevano distrutto un’ara costruita in
onore dell’imperatore Caligola, considerandola una profanazione della Terra d’Israele;
Caligola, volendo umiliare i Giudei, ordinò al suo legato in Siria Publio Petronio
di erigergli una statua d’oro nel cuore stesso di Gerusalemme, all’interno
del Tempio, nel Santo dei Santi. Publio Petronio, ben consapevole delle conseguenze
nefaste di questa folle decisione, senza disobbedire all’imperatore, temporeggiò,
adducendo scuse di vario genere fnché non sopraggiunse la notizia dell’assassinio
dell’imperatore. Trent’anni dopo, il 6 agosto del 70, il generale Tito entrò a
cavallo nel Santo dei Santi del Tempio già incendiato, profanandolo davanti agli occhi
attoniti e atterriti dei Giudei, che videro in quel sacrilegio l’inizio della fne del
mondo; da quel giorno cessarono i sacrifci e in Israele scomparve il sacerdozio.
La tassa per il Tempio dovuta dai Giudei fu mantenuta, ma venne trasferita al tempio
di Giove sul Campidoglio, a Roma. Tutto si capovolse: il Tempio, che era stato
interdetto ai Pagani2, ora viene profanato dai Romani e proibito ai Giudei, che da
lontano potevano vedere compiersi la profezia di Daniele (cf. Dn 11,31; 12,11).
Anche il Vangelo si riferisce esplicitamente a questi fatti (cf. Mt 24,1-2; 15-23): Gerusalemme
non è più la Città Santa, ma un «panno immondo», come aveva previsto
il profeta autore delle Lamentazioni (cf. Lam 1,1.4.5.6). «Da quel giorno, i Giudei
hanno avuto per città il mondo intero, e per Tempio il proprio cuore»3: inizia
infatti la diaspora defnitiva del popolo d’Israele e il lungo processo di disprezzo e
di emarginazione, che il Cristianesimo ha poi alimentato e diffuso, contribuendo
non poco alla persecuzione che culminerà nella Shoàh, e che continua ancor oggi,
nonostante la nascita dello Stato d'Israele.

Il brano del vangelo appartiene alla cosiddetta «piccola apocalisse»4 e può essere
debitrice ad un documento preesistente giudaico, andato perduto, che descriveva
in modo angoscioso la distruzione del Tempio. Sicuramente il documento circolò
tra i cristiani i quali in un primo tempo pensavano che la morte e la risurrezione
di Gesù fosse l’ultimo atto della storia e del mondo; d'altronde, abbiamo molti
esempi nel NT dell’attesa della fne del mondo, fno ad atteggiamenti estremi,
come ci segnala l'intervento critico di Paolo alle varie comunità cristiane (cf. 2Ts
3,10). I cristiani di Gerusalemme, in questa prospettiva di apocalisse immediata,
vendono le loro proprietà dividendo il ricavato tra i poveri e diventando ben presto
tutti miseri; per ovviare all’indigenza diffusa a Gerusalemme da questo atteggiamento
estremo, Paolo organizzò una colletta tra i cristiani di origine greca per
venire in soccorso dei cristiani della Chiesa madre (cf. Rm 15,26; 1Cor 16,1), ponendola
come un segno sacramentale della comunione tra le chiese, in cui i «pagani
» sovvenivano ai bisogni della Chiesa madre «giudea». È la logica dello Shema‛
Israel che guida anche i cristiani nella condivisione del Pane, della Parola e di
ogni bene spirituale e materiale: amare con l’anima, con il cuore e con le forze.
Lentamente la chiesa primitiva cominciò a capire che la storia non sarebbe fnita
subito, ma che il Signore avrebbe concesso ancora un tempo supplementare per
dare tempo a tutti/e di trovare la strada del Regno (cf. 2Pt 3,8-10). Si giunge a
prendere coscienza, quindi, che la distruzione di Gerusalemme non è la fne del
mondo, ma la fne di un’epoca, di una religione, di un modo di percepire la divinità
e i rapporti sociali. Ciò che doveva accadere «adesso» viene trasferito «alla fne»,
mantenendo il linguaggio apocalittico con cui la si esprimeva. Questa elaborazione
gradualmente si trasforma in teologia della storia: si comincia a vedere che il
mondo vive senza Tempio, senza culto e sacrifci; tutto si spiritualizza, cessa la divisione
tra «sacro» e «profano», perché Dio «opera tutto in tutti» (1Cor 12,6) e
dal momento in cui il velo del Tempio si è squarciato in due (cf. Mc 15,38), nulla è
estraneo a Dio perché il luogo dell’incontro tra l’umano e il divino è solo ed
esclusivamente l’umanità del Figlio di Dio.
La fne del mondo è nascosta in Dio quanto al tempo e alle modalità perché
«quanto a quel giorno o a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio,
eccetto il Padre» (Mc 13,32; cf. Mt 24,36). Contenuti e linguaggio dell'apocalittica
classica sono mutuati anche nell'immagine della foritura del fco: un immagine
positiva e gioiosa, che in natura segna il passaggio dall’inverno alla primavera
e nell’AT è simbolo di benedizione e prosperità (cf. Gl 2,22), in questo contesto
acquista il valore e il senso di un segno premonitore della catastrofe fnale. Il fco
infruttifero è segno di sventura, il fco che porta frutti maturi è segno di benedizione.
Lo stesso albero che indicava la sapienza d'Israele e la religione fondata sul

Tempio diventa capace di esprimere la fne della religiosità precedente e il
compimento delle promesse dell'Alleanza. La distruzione del Tempio diventa un
paradigma, un segno che alla fne della storia tutto avrà termine, quando il Cristo
riapparirà di nuovo per il giudizio fnale: è la parusia (dal greco parà-eimì, “sono
presente/arrivo”) che indica l’avvento di Cristo, e allo stesso tempo la sua
presenza nascosta. I credenti invocano e si preparano a questo giorno con
l’invocazione aramaica testimoniata da Paolo e dall'Apocalisse: «Maràna tha! O
Signore, vieni!» (1Cor 12,22).
Il messaggio di fondo che il vangelo vuole darci è una vera e propria chiave di lettura
della storia e della vita: esse non dipendono dai capricci degli esseri umani o
del caso, perché l’una e l'altra sono il luogo privilegiato in cui Dio parla a chi ha
orecchi capaci di ascolto nella fede. Noi non abbiamo la disponibilità del futuro,
che dipende da Dio e si eprime nella nostra responsabilità concreta di scelta e
decisione. La storia ha un senso perché è la confuenza della presenza di Dio e
della libertà umana che si realizzano nella fatica, nella ricerca, nel confronto, nella
pazienza e nella preghiera, per giungere sempre più ad uno sguardo illuminato capace
di discernere con sapienza. Noi sappiamo che tutto ha un termine e tutte le
cose fniranno: ciò non ci sconvolge, perché arriveremo a quel traguardo camminando
sui sentieri della nostra realizzazione alla costante ricerca della gioia e della
felicità. Su questo cammino spesso troviamo ostacoli e inciampi, dolori e sofferenze,
lacerazioni e sconftte; sperimentiamo la frattura di relazioni affettive, eppure
constatiamo che la morte non è in grado di spezzarle del tutto. Camminiamo
verso la nostra morte consapevoli che moriremo come abbiamo vissuto, per
questo viviamo la vita con impegno e amando perché la morte sarà la testimonianza
fnale del nostro essere noi stessi. Dobbiamo vivere questa tensione positiva
e continua, giorno dopo giorno, sempre pronti, vivendo la profondità di ogni
esperienza di vita e la precarietà della nostra esistenza. Così noi vinceremo un’altra
esperienza di «fne», che è la morte vera, quella senza speranza, in cui la fne
del mondo per ciascuno di noi viene ogni volta che non viviamo il comandamento
dell’amore e lo tradiamo nei fatti: tutte le volte che noi non amiamo non solo
siamo morti noi, ma muore il mondo intero.
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1 Jamnìa (o Yavnè) si trova tra Tel Aviv e Ashdod, a 10 km dal mar Mediterraneo; la città fu
sede della scuola giudaica farisaica al centro della grande riforma del Giudaismo che da
qui partì per opera della corrente dei farisei dopo la distruzione del Tempio. In questa cittadina,
intorno alla fne del I secolo, fu sancita la separazione defnitiva con il Cristianesimo,
ormai diffuso in Palestina e oltre, e fu defnitivamente defnito il canone dei libri giudaici,
cioè la Bibbia ebraica, in uso ancora oggi.
2 Dal tempo di Erode il Grande (73 d. C. – 4 a. C.) l’ingresso nell’atrio interno del Tempio
era interdetto, sotto pena di morte, agli incirconcisi; era il solo caso in cui i Giudei potevano
amministrare lo ius gladii, di norma riservato agli occupanti romani.
3 G. Ricciotti, Storia d’Israele, Torino, 19495, vol. II, p. 539.
4 Mc 13, assieme ai capitoli paralleli degli altri sinottici (Mt 24-25; Lc 21), è modellato su
una «piccola apocalisse» giudaica, ispirata al profeta Daniele (cf. 7-8.14-20.24-27), integrata
con parole pronunciate da Gesù e raccolte dalle prime comunità cristiane (cf. 5-6.9-13.21-
23.28-37); cf. J. Dupont, Le tre apocalissi sinottiche, Bologna, 1987.

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