Chiesa del Purgatorio – Lanciano (CH)
"Siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare” Luca 17,10
Si può invocare lo Spirito Santo.
+ O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascoltare
la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnova -
mento dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio benedetto
nei secoli dei secoli. A.: Amen.
L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Luca 17,5-10 (trad. CEI 2008).
5 Gli apostoli dissero al Signore: 6 «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se
aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai
a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. 7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a
pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”?
8 Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi,
finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9 Avrà forse gratitudine
verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10 Così anche voi, quando
avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo
fatto quanto dovevamo fare”».
Note di esegesi per la comprensione del testo
Il brano del vangelo che abbiamo ascoltato si può dividere in due parti: un breve
insegnamento ai discepoli sulla fede (vv. 5-6) e la parabola del servo inadatto o
inutile (vv. 7-10). Lc, come è suo costume, ha già esaltato i poveri e condannato i
ricchi (6,20-26; 12,13-21; 16,19-31; 18,1-8); ora mette in contrasto la «religione»
dei Giudei con la «fede» del Samaritano (17,11-19), quella del fariseo con quella
del pubblicano (18,9-14), mentre tutto il vangelo è pieno di attenzioni per gli ultimi,
i deboli e i poveri (cf. 15,1ss.).
Non conosciamo il contesto storico del brano di Lc, ma forse Gesù ha fnito di
discutere e contrapporsi con i Farisei che erano assillati dall’osservanza esatta di
tutte le prescrizioni di purità rituale e morale. Essi infatti avevano un fardello pesante,
dovendo osservare ben 613 precetti, per cui erano molto impegnati nell’esercizio
di una religione del dovere e dell’esecuzione. Per loro il popolo era praticamente
escluso dalla salvezza, perché ritenuto incapace di adempiere tutte le
prescrizioni della Legge. La religione era un affare prevalentemente delle strutture
religiose (Sinedrio e Tempio): oggi potremmo dire che i rappresentanti uffciali
della religione dell'epoca ritenevano di avere l’esclusiva della rappresentatività di
Dio, più o meno come accade in una visione anticonciliare della Chiesa cattolica,
molto simile a quella in voga oggi presso i tradizionalisti del messale di Pio V.
La richiesta degli apostoli: «Aumenta in noi [la] fede!» apre una prospettiva. In
greco si usa il verbo prostìthemi, che traduce l’ebraico yasàph1, nel senso proprio
di «aumentare, accrescere» qualcosa che è carente, oppure «rendere, fare grande
» qualcosa o qualcuno/a. Se la fede può aumentare signifca che può diminuire
e che comunque non è data una volta per sempre: si può vivere, ma non si può
credere di rendita. Durante la tempesta improvvisa che sorprende gli apostoli in
barca, Gesù se la dorme tranquillo; al suo risveglio dubita della fede degli apostoli
e, dopo avere portato bonaccia, chiede: «Dov’è la vostra fede?» (Lc 8,25). Durante
il discorso sulla Provvidenza che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo,
Gesù chiama gli apostoli oligòpistoi, «credenti di poco conto, dalla fede corta»
(Lc 12,28). A Simone, che di lì a poche ore lo rinnegherà, Gesù preannuncia che
prega per lui «perché la tua fede non venga meno» (Lc 22,32). La fede come qualsiasi
organismo vivente, deve essere alimentata, nutrita, sostenuta, curata; è questo
il motivo, ad esempio, per cui partecipiamo ogni domenica all’Eucaristia, perché
qui troviamo la dimora della fede dove noi siamo educati dal Padre e nutriti
dal Figlio per vivere nello Spirito. La duplice mensa della Parola e del Pane non
s’imbandisce per fare memoria di un passato che non c’è più, ma per permettere
a noi, facendo memoria di quell'evento sempre presente, di essere contemporanei
a Dio che si fa nostro prossimo. Così nutriamo la nostra fede in Dio e nel suo
Messia, Gesù, verifchiamo la nostra condizione alla luce del suo Evangelo, condividiamo
con i fratelli e le sorelle gioie e dolori, speranze e angosce, alimentiamo
1 Da cui deriva il nome Giuseppe che signifca, appunto, «Dio aggiunge, rende grande».
la nostra adesione a Cristo e ripartiamo per un altro tratto di storia, camminan -
do insieme. La fede è un dono, ma è anche un compito faticoso, ove ogni volta
supplichiamo lo Spirito perché la aumenti per non venire meno alla fedeltà a noi
stessi che è il fondamento della fedeltà a Dio. Noi abbiamo il diritto di alimentare
la nostra fede perché abbiamo il dovere di renderla a chiunque ci chiede conto
della nostra speranza (1Pt 3,15). Il mondo intero, specialmente il mondo dei
cosiddetti non credenti ha diritto di chiederci questo, come noi abbiamo il
dovere di travasare la nostra fede oltre noi stessi, altrimenti siamo inutili a noi e
al mondo stesso. Non è facile, perché lo stesso Gesù è scettico sulla resistenza
dei cristiani: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc
18,8). Ecco il nostro compito di preparare un mondo di fede per il ritorno del
Figlio dell’uomo, che rischia, invece, di trovare un mondo di religiosità e di
religioni ricche di riti e precetti, ma senza fede, né amore.
La seconda parte del brano porta la parabola del servo ineffciente o inutile (vv.
7-10). Nei vangeli si presenta spesso il binomio servo-padrone (Lc 12,43-48; 14,21-
23; 20,1 e par.) per descrivere i rapporti tra i credenti e Dio, raffgurato come un
padrone esigente, ma anche attento e disponibile a servire e premiare i servi fedeli
(Lc 12,37; 19,11-27; cf. Gv 13,1-7). Anche questa parabola è forse indirizzata ai
Farisei, che trascorrevano il loro tempo a misurare e calcolare i loro meriti e diritti
come moneta da contrattare con Dio. Alla prosopopea dei Farisei che amano
sempre farsi vedere, curano la loro immagine mettendosi sempre in mostra (Lc
11,43), si oppone la fede semplice dei poveri e dei piccoli che invece ripongono
tutta la loro fducia, senza condizioni, in Dio (v. 6). I poveri non si appropriano di
meriti non loro, ma riconoscono tutte le grazie che ricevono. Essi sono veri, non
vivono di aspettative, per cui non conoscono nemmeno la delusione; non si
aspettano ricompense, per cui sanno godere di qualsiasi dono; non ritrattano mai
quello che danno, per cui conoscono solo la dinamica della fedeltà. Si abbandonano
a Dio così come sono. La loro religione non è fondata sui meriti o sui presunti
diritti, ma solo sulla potenza della Parola del Signore (v. 10). In quest'ultimo versetto
troviamo tre termini importanti: per essere inutili bisogna fare tutto ciò che
è stato ordinato. La consapevolezza della propria identità nasce dal massimo impegno
nel contesto di una relazione di dipendenza: Dio è Dio e il suo vangelo non è
nostro, cioè non dipende esclusivamente da noi. Bisogna fare tutto, sapendo che
tutto dipende da Dio. Gesù non dice agli apostoli che sono inutili: li ha scelti, infatti,
perché lo aiutassero. Egli dichiara inutile e inadatto tutto ciò che nel cuore
della persona, e quindi specialmente dei discepoli/e del Cristo, c’è di inadeguato,
di superbo, di autoritario, di ingiusto, di inautentico, di presuntuoso, di esclusivo: è
inutile il fariseo che è dentro di noi.
Viviamo in un mondo sopraffatto dalla violenza e spesso ci sentiamo totalmente
inadeguati a vivere coerentemente il Vangelo, sentendoci impotenti: sappiamo di
dovere agire, ma non sappiamo come. Nasce l’ansia del fallimento e la tentazione
dell’abbandono e della fuga. Questo senso di inutilità deve diventare la nostra forza
che è radicata nel battesimo, in quello Spirito di Dio che ci consolida nella decisione
di resistere e di essere presenti anche nella nostra impotenza, sapendo
che questa è la nostra vocazione per sostenere questo mondo, perché, come
giusti, nulla vada in rovina. Siamo chiamati nella nostra inadeguatezza a sollevare il
lembo di croce del Cristo e diventare i cirenei di questo tempo perché il mondo
sia salvo. Di fronte ad un mondo che sbrana l’ambiente stesso dove vive; di fronte
alle ignominie più orrende come stragi, guerre, torture, stupri, violenze, furti,
inganni; di fronte a un mondo ingiusto che aumenta senza vergogna il numero dei
poveri oppressi dalla miseria; di fronte ad una Chiesa che cerca la mondanità e il
potere in questo mondo... come un fume sorgono e straripano le domande da
porre davanti a Dio: Perché, Signore? Perché, Dio, non intervieni a porre un
argine alla cattiveria e al sopruso? Perché ci lasci sommergere nel male? Perché
l’ingiustizia e la sofferenza sono così diffuse? La risposta a queste domande è in
questa parola di vita: Dio non è assente o, peggio, indifferente; egli, al contrario,
interviene nel mondo attraverso ciascuno di noi, perché così può essere
contemporaneamente e ovunque. Siamo noi il segno e la prova dell’onnipotenza
fragile e misericordiosa di Dio, perché possiamo giungere a tutto il mondo con i
gesti liberatori del perdono, del servizio, della pace. Dio ci concede ancora un
supplemento di tempo perché, con un cuore e un animo rinnovati nel lavacro
della conversione, possiamo andare sulle strade del mondo ed assumerci le
responsabilità della testimonianza. Spetta a noi vivere onestamente, essere giusti,
essere nonviolenti, amare il nemico, accogliere lo straniero, soccorrere il povero,
farci scudo per gli innocenti, farci voce di chi non ha voce, gridare come i profeti
contro chi governa ingiustamente. Dio ci manda nel mondo come suoi
messaggeri perché noi possiamo riconoscerlo nei fratelli e sorelle che
incontriamo e loro possano riconoscere il volto di Dio nel nostro volto, nelle
nostre mani, nel nostro cuore, nelle nostre parole e nella giustizia del nostro
abbandono totale alla sua fedeltà. Siamo noi il sacramento della presenza di Dio
nel mondo, perché siamo consapevoli che «quello che è debole per il mondo, Dio
lo ha scelto per confondere i forti... quello che è nulla, Dio lo ha scelto per
ridurre al nulla le cose che sono» (cf. 1Cor 1,27.28).
- pro manuscripto -
domenica 3 ottobre 2010
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