sabato 20 marzo 2010

Le lectio del prete Carmine Miccoli

“Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più!”
Giovanni 8,1-11

P.: O Padre, noi ti ringraziamo perché ci hai riuniti alla tua presenza per farci ascolta -
re la tua parola: in essa tu ci riveli il tuo amore e ci fai conoscere la tua volontà. Fa’
tacere in noi ogni altra voce che non sia la tua e perché non troviamo condanna nella
tua parola, letta, ma non accolta, meditata, ma non amata, pregata, ma non custodita,
contemplata, ma non realizzata, manda il tuo Spirito Santo ad aprire le nostre menti e
a guarire i nostri cuori. Solo così il nostro incontro con la tua parola sarà rinnovamento
dell’alleanza e comunione con te e con il Figlio e lo Spirito Santo, Dio bene -
detto nei secoli dei secoli. A.: Amen.

L.: Ascoltiamo la Parola del Signore dal racconto dell'evangelista Giovanni : 8,1-11
(trad. CEI 2008).

1 Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2 Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio
e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3 Allora gli
scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo 4 e
gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5 Ora Mosè,
nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6 Dicevano
questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò
e si mise a scrivere col dito per terra. 7 Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo,
si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di
lei». 8 E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9 Quelli, udito ciò, se ne andarono uno
per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
10 Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
11 Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e
d’ora in poi non peccare più».

Note di esegesi per la comprensione del testo

Il vangelo che abbiamo appena ascoltato è tratto da Giovanni, ma è un aggiunta
posteriore, probabilmente di sapore lucano, inserita nel contesto del IV vangelo.
Si tratta del racconto della donna accusata di adulterio, colta in fragranza di colpa
da uomini, forse compartecipi della stessa trasgressione; essi vogliono lapidarla in
nome del formalismo della loro religione, che consiste nell’eseguire alla lettera i
dettati della legge di Mosè (cf. Lv 20,10; Dt 22,22-24) senza domandarsi le ragioni
e le cause della situazione che stanno giudicando.
Questo brano singolare, inserito nella grande sezione giovannea in cui Gesù affronta
i Giudei durante la festa delle Capanne, potrebbe essere collocato dopo il
cap. 21 di Lc: ne rispecchia la mentalità, la delicatezza, lo stile e l’impostazione
teologica1. Proviamo infatti a vedere in sinossi le fnali dei due brani:
Gv 8,1-2 Lc 21,37b-38
1 Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 37b La notte, usciva e pernottava all’aperto
sul monte detto degli Ulivi.
2 Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio
37a Durante il giorno insegnava nel
tempio.
e tutto il popolo andava da lui. Ed egli si
sedette e si mise a insegnare loro.
38 E tutto il popolo di buon mattino
andava da lui nel tempio per ascoltarlo.
Il contesto è quello della Pasqua, che dona una luce particolare al senso di questo
racconto: subito dopo, infatti, il cap. 22 di Lc si apre così: «Si avvicinava la festa degli
Azzimi, chiamata Pasqua, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano in che
modo toglierlo di mezzo, ma temevano il popolo» (Lc 22,1-2) perché esso «andava
da lui» (Gv 8,2). La condanna e la ventilata lapidazione della donna sono un anticipo
della volontà di morte che nutre i sommi sacerdoti e gli scribi nei confronti
di Gesù: l’adultera è immagine di Cristo che, senza difesa, va incontro alla morte per
mano del potere religioso.
C’è un altro elemento che ci fa propendere per l’attribuzione a Lc del brano dell’adultera
come immagine di Gesù condannato a morte: all’inizio del cap. 21 si
narra della «vedova povera», che Gesù contrappone ai ricchi che gettano nel tesoro
del tempio il loro superfuo, mentre lei vi mette «due monetine», consapevole
di «svuotarsi» di «tutto quello che aveva per vivere» (Lc 21,2.4), della sua
vita stessa. Il suo tutto è il suo nulla che diventa il «tesoro» di Dio che lo accoglie
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1 I codici minuscoli greci raggruppati in f13 (13, 69, 124, 174, 230, 346, 543, 788, 826, 828,
983, 1689, 1709, ecc.) mettono espressamente questo brano a conclusione di Lc 21.
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come il dono più grande, superiore a quello ricco e ampolloso dei benestanti che
metteno cifre ingenti per farsi vedere. Per Gesù è la vedova che rappresenta
degnamente Dio e ne esprime il volto. Dio si è paragonato al seminatore, al
vignaiolo, al pastore, e ora si paragona ad una donna, vedova e addirittura povera.
Questa vedova è il “sacramento” visibile dello “svuotamento” di Dio cantato da
Paolo (cf. Fil 2,5-11), perché nell’intenzione di Gesù la vedova rappresenta Dio e il
suo agire che nel venire incontro all’uomo non ha dato del suo superfuo, ma si è
svuotato di sé per darsi tutto a tutti (cf. Fil 2,7-8; 1Cor 12,6). Il «sacramento»
visibile della persona e dell’agire di Dio non sono i capi che uffcialmente lo
rappresentano, ma una donna appartenente ad una delle tre categorie di
marginalità, tipiche dell’epoca: orfano, vedova, straniero. Come per l'inizio, anche a
conclusione di Lc 21 troviamo esattamente lo stesso scenario: in questo modo si
ha quella che tecnicamente si chiama «inclusione», con cui una donna simboleggia
Dio all’inizio e Cristo alla fne della sezione di Luca, dando unità tematica e
teologica all’intero capitolo e introducendo Lc 22 con la volontà omicida «dei
capi dei sacerdoti e degli scribi».
L’idea che un’adultera come la vedova povera possano essere «rappresentative»
del Dio di Gesù più di coloro che lo dovrebbero manifestare istituzionalmente
appare scandalosa alla mentalità di una religione di consumo, e lo è, come sempre
è scandaloso Gesù nelle sue parole, nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti. Non è
un caso che i benpensanti difensori della morale esteriore, che si scandalizzano
sempre degli altri e mai della loro grettezza interiore e che credono solo in un
dio che è fotocopia del loro modo di vivere e pensare, sono coloro che lo hanno
crocifsso «poiché temevano il popolo» (Lc 22,2).
Gesù non si scaglia contro la donna trattata come una prostituta come fanno i
suoi accusatori e non fa proclami di principio, né si appella ai «valori non negoziabili
» del suo tempo, né esigendo alcun valore come premessa e condizione della
fede. Gesù vede la miseria della donna in balia di esseri feroci, non addossa pesi
ulteriori al terrore che la sventurata porta dentro di sé, ma al contrario, rovesciando
il perbenismo di facciata dell’alta società del suo e di ogni tempo, si fa
prossimo dell'adultera come aveva insegnato nella parabola del samaritano, accostandosi
a lei e fasciandone delicatamente le ferite (cf. Lc 10,33-34) per restituirla
alla sua libertà, che poggia sulla sua dignità di persona (cf. Gv 8,11). Compito della
Chiesa, ieri come oggi, sull’esempio di Gesù non è gridare contro la società secolarizzata
che non tiene conto di Dio, ma quello proprio di rendere visibile Dio attraverso
un atteggiamento di misericordia, ascoltando i bisogni e le fatiche degli
uomini e delle donne di oggi che forse non tengono conto di Dio proprio perché
non riescono a vederlo nelle parole, nei comportamenti e nelle azioni del popolo
cristiano. Inoltre, tutto il cap. 21 di Lc, in cui si inserisce il tema del brano in analisi,
ha molti riferimenti al cap. 13 del profeta Daniele, di cui diventa così un midrash2.
Il profeta racconta di una donna, accusata ingiustamente di adulterio dai capi
del popolo, salvata dall’intervento del giovane Daniele che fa confondere gli accusatori
menzogneri. Per l’autore del vangelo, Gesù si presenta come il nuovo Daniele,
il profeta del «Figlio dell’Uomo» che porta a compimento le «settanta settimane
di anni» di attesa che si realizzano nella misericordia, caratteristica del Regno
di Dio (cf. Dn 7). La novità sta in questo: Daniele giustifca un’innocente, Gesù
salva una «peccatrice» colta in fagrante (cf. Gv 8,4). L’anno di grazia annunciato
nella sinagoga di Nàzaret si realizza perché i peccatori accorrono a lui (cf. Lc 15,1-
2) ed egli annuncia loro la prospettiva del Regno, fondata sul perdono e sulla gratuità.
Se mettiamo a confronto i due racconti vi troviamo molte allusioni reciproche:
v. Gv 8,1-2 v. Dn 13
9 I vecchi accusano l’adultera 28 i due «anziani» accusano Susanna
3 L’adultera è posta «nel mezzo»,
alla gogna
30-33 Susanna è messa alla gogna
in pubblico
5 Si richiede la pena di morte stabilita
dalla Legge di Mosè (Lv
20,10; Dt 22, 22)3
41 Susanna è condannata a
morte in base alla Legge di
Mosè (Lv 20,10; Dt 22, 22)
Questa è la novità che porta Gesù: il giudizio di Dio è grazia, è accoglienza, è misericordia,
è il volto nuovo del Dio della «nuova alleanza». Ora però si crea una
situazione nuova che nessuno aveva previsto: gli accusatori della donna adultera
del vangelo sono i discendenti di quell’assemblea che aveva prima condannato e
poi assolto Susanna (Dn 13,41.60). Gesù salva l’adultera da costoro che hanno dimenticato
la misericordia di Dio. Da un lato Susanna è il simbolo d’Israele e l’adultera
è specchio dell’umanità schiacciata e depressa, dall’altro il Cristo è il nuovo
Daniele che porta non un giudizio di condanna, ma l’abbondanza della misericordia
perché ora non è più un profeta a prendere le difesa di un innocente, ma è
Dio stesso a farsi carico della croce dell’umanità. Gesù è il cireneo (cf. Lc 23,26)
che «porta i pesi» dell’umanità intera, compiendo così la Legge (cf. Gal 6,2). Susan-
2 Dn 13-14 non si trova nella Bibbia ebraica, ma solo nella Bibbia greca, detta “dei LXX”,
che era la Bibbia usata dai primi cristiani come testo di riferimento per l’AT.
3 L’adulterio è punito dalla Toràh con la pena di morte. Il motivo di questa condanna è
semplice: maschio e femmina non esistono separatamente, perché in base a Gen 1,27 essi
formano una «persona» nuova, plurale che si chiama «coppia». Il testo biblico parla
espressamente di «pungente» e «perforata» (maschio e femmina) che costituiscono l’immagine
in cui Dio s’identifca, assumendo così la sessualità come dimensione della identità
spirituale. Se l’uomo e la donna formano un «solo corpo» che vive e rappresenta l’«immagine
» di Dio, l’adulterio è un assassinio di questo «solo corpo» perché spezza in due la
personalità/immagine vivente, cioè la uccide e vi sostituisce una nuova metà che non cor -
risponde alla realtà. L’adulterio è un falso «vivente» che prova a rendere vivo ciò che ha
ucciso: per questo si applica la legge del taglione (cf. Es 21,23-23).
na è immagine del «giusto» Israele che osserva fedelmente la Toràh e per questo
è salvata, ma la sua «giustizia» è ancora legalistica perché si limita ad osservare le
prescrizioni della Legge, mentre l’adultera è per l’autore la vera immagine della
Chiesa perché, al di là del suo peccato e della sua condizione, accetta di restare
sola con Gesù e di compromettersi nelle conseguenze di un incontro di vita (Gv
8,10-11). Susanna è solo restituita alla sua famiglia e al suo onore, l’adultera è restituita
alla sua coscienza e alla sua libera decisione di accettare il cambiamento
di vita che le viene proposto con tenerezza: ora lei appartiene alla sua libertà. Daniele
giudicava in base alla Legge che esamina i comportamenti, Gesù si appella
alla coscienza e la proietta nel mistero di Dio che si incarna nella libertà di ciascuno/
a. Tre donne dunque sono presenti nella penna dell’autore: la vedova povera
che offre liberamente la sua vita, Susanna innocente accusata di adulterio e l’adultera
di fatto salvata per la sua libertà. Tre donne «immagine» del Dio di Gesù,
perché il femminile è capace di accoglienza e di amore gratuito che solo in Dio
trova confronto.
Il gesto di Gesù che scrive per terra (cf. Gv 8,6) ha fatto scrivere fumi di inchiostro.
È solo un gesto spontaneo di uno che, non volendo rispondere alla domanda
trabocchetto degli accusatori, resta soprapensiero, facendo dei ghirigori nella sabbia,
come se stesse prendendo tempo per preparare una risposta adeguata (cf. Gv
8,7). Gli accusatori hanno tre obiettivi: essendo già famoso per essere un impuro
che «accoglie i peccatori e mangia con loro» (cf. Lc 15,2), se Gesù assolve la donna
adultera per la quale è prevista la lapidazione (cf. Lv 20,10; Dt 22, 22), si mette
contro l’autorità della Toràh e può essere accusato di eresia; se, al contrario, condanna
la donna come prescrive la Toràh, egli perde la faccia davanti «al popolo».
Infne potrebbe essere accusato d’insubordinazione presso i Romani che avevano
avocato a sé lo ius gladii, ossia il potere di eseguire esecuzioni capitali.
Gesù si trova nella stessa condizione di quando gli pongono il tranello se sia lecito
pagare o meno le tasse a Cesare (cf. Lc 20,22): in qualsiasi modo avrebbe risposto
sarebbe stato in trappola. Ancora una volta con la sua perspicacia, sfugge
Gesù alla tagliola del legalismo (Gv 8,6). Il gesto oltre ad essere come abbiamo visto
un gesto anonimo per temporeggiare, potrebbe anche avere un signifcato più
profondo. Scrivendo per terra, Gesù si appella all’autorità della Scrittura che gli
accusatori manipolano a modo loro e precisamente al profeta Geremia: «O speranza
d’Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano
da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua
viva» (Ger 17,13). Il gesto di Gesù, muto e solenne, diventa così un gesto profetico
come tante volte aveva fatto lo stesso Geremia che parlava attraverso i suoi gesti
più che con le parole (cf. Ger 27). Scrivendo per terra, Gesù ricorda a coloro che
si arrogano il diritto di essere i mediatori della Scrittura che si sono allontanati
dalla sorgente della vita e si sono lasciati imprigionare dalle catene del legalismo e
della materialità della Toràh. Quando la fede diventa religione è il principio della
fne di ogni spiritualità e il fallimento di ogni religiosità perché si fonda solo sul
materialismo della norma senza anima e senza nemmeno un corpo. Il compito
della Chiesa è offrire sempre sorgenti di acqua viva perché tutti si possano
dissetare nel faticoso e lungo cammino della vita, spesso segnato da prostituzioni
e dal peccato. Tutto deve concorrere a creare le condizioni per un incontro vitale
e reale con il Signore che ama la vita e salva i suoi fgli e fglie.
Tragico è l’epilogo del racconto (cf. Gv 8,9): vanno via per primi i più anziani (gr.:
presbýteroi) che è una delle categorie presenti nel sinedrio, dunque coloro che
dovrebbero essere il modello e l’esempio vivente perché svolgono il ruolo di
«padri». Al contrario, trascinano dietro di sé i giovani e li conducono alla rovina
perché trasmettono se stessi e non il pensiero di Dio, impedendo così a se stessi
e agli altri di accedere alla tavola della misericordia (cf. Lc 11,52-54).
Dopo che tutti, specchiati a tutto tondo nella trasparenza delle parole di Gesù,
sono fuggiti, restano soli la donna e Gesù, una donna e un uomo in rappresentanza
della nuova umanità. Gli apprendisti assassini trascinando la donna per usarla
come tranello contro Gesù, ponendola in mezzo (cf Gv 8,3; gr.: en mèsoi) e quando
fuggono la lasciano lì, sola, e la donna era là nel mezzo (cf. Gv 8,9; gr.: en mèsōi).
Tutto il mondo e tutta l’umanità accolgono la novità: l’uomo che dona il perdono
e la libertà e la donna che accoglie la libertà come frutto del perdono. «In
mezzo» come l’albero della vita che sta «in mezzo» al giardino di Eden (cf. Gen
2,9) e come Gesù è crocifsso «in mezzo» ai due ladroni, immagine di una umanità
derelitta e che chiede di entrare nel Regno (cf. Gv 19,18; Lc 23,39-43).

- pro manuscripto -

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